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Entourage – Vivendo Colore

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Suonano compatti e caldissimi i tre Entourage nelle undici tracce del loro ultimo lavoro, Vivendo Colore, e non lo diresti: titolo, moniker, grafiche contribuiscono a creare un’immagine diversa da ciò che poi traspare dalla maggior parte dei brani di questo disco di Rock a tratti duro, ruvido (“Kronos”), ma che poi, trasformista, si alleggerisce, scopre lati ambientali nascosti e atmosfere aperte e avvolgenti (“Battiti”), per poi rimbalzare tra attimi Pop e elettricità vorticante (“Guru”).

Una doppia anima che forse è il punto di forza del trio siciliano, anche se, personalmente, vengo conquistato più dagli episodi ariosi e anomali (“Evoluzione”, “Prima Luce”) rispetto ai riffoni di “The Maya” o “Navarra”. Discorso simile per le liriche, che in “Tappeto Volante” hanno saputo trasportarmi in un mondo loro, tratteggiato con pennellate semplici ma allo stesso tempo coinvolgenti, mentre nel resto del disco gli Entourage diventano meno focalizzati e sembrano prestare molta più attenzione al suono che al significato delle parole. Una scelta che ha una sua dimensione e una sua ragione, ma che funziona in alcuni brani (quelli più energici e diretti) e meno in altri.

Vivendo Colore è un bel disco Rock che ci permette però, spesso, di toglierci da binari e da strade già troppo battute per entrare nel folto dell’erba o tra la polvere dei deserti, anche solo per cambiare aria e panorama. Gli Entourage, come dicevo, suonano compatti, caldi, consapevoli: il viaggio si farà, si farà comodo, e, nella giusta prospettiva, sarà anche un bel viaggio da ricordare.

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Runa Raido – Il Primo Grande Caldo

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Come insegna un vecchio film noir del 1953 nel gergo della malavita americana il grande caldo indica un aumento d’attenzione della polizia nei confronti dei malavitosi e delle loro attività”. Che sia per pura casualità o per recondite passioni cinematografiche il secondo album dei Runa Raido, Il Primo Grande Caldo, dopo un primo ascolto richiama in modo deciso l’attenzione, un po’ come quando una sentinella, appostata nel buio di un incrocio percepisce qualcosa provenire da poco lontano. E da quel poco lontano arrivano sei tracce che si contraddistinguono per un sound deciso e compatto, una bella dose di carattere e un approccio schietto. Leggendo la biografia della band si notano partecipazioni a concorsi, qualche premio vinto, e molte cose poisitive che rappresentano bene le potenzialità del gruppo. Il quartetto laziale non si nasconde dietro sofisticate impalcature, ma parla in maniera diretta, spesso con durezza e implacabile lucidità,come in “Michele”, apripista dell’album, impetuosa e con un riff coinvolgente. Anche il brano “Buone Maniere “si inserisce sullo stesso filone e sottolinea la scelta stilistica di un linguaggio ponderato,un songwriting impegnato che non si limita e raccontare una bella storia, ma che svela e descrive ritratti di fantasmi viventi, drammi umani e malcostumi diffusi.

Se le tematiche forti trovano nei brani  sopra citati una corrispondenza musicale, in “Estate Torna” i suoni si ammorbidiscono, la batteria rallentail ritmo, pur mantenedo salde le redini, e le tastiere ci cullano verso una ballad intima chelasciail sapore agro dolce della consapevolezza. Tra le sei tracce che compongono l’album“Al Tempo dei Fuochi “ è la più interessante al punto di vista melodico con molte variazioni e ritmi non lineari, mentre con “Il Grande Caldo” si ritorna a un immaginario a tine forti acompagnato da sonorità maledetamente Rock e da un minuzioso video realizzato in papercutting. La chiusura arriva con con una versione molto personale e in linea con lo stile asciutto dei Runa Raido de “La Domenica delle Salme”del sempre eterno maestro De Andrè. Stile, personalità, testi profondi e interessanti fanno de Il Primo Grande Caldo una piacevole sorpresa. Non c’è spazio per eccessi, grandi trasgressioni o superflui personalismi, siamo nel terrotorio del Rock tradizionale e tutto torna e funziona bene per poter anche riscuotere un buon successo di pubblico.

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Alteria – Encore

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Grinta e audacia, queste sono le principali caratteristiche di Alteria, una ragazza dalle mille risorse e da uno spirito Rock impareggiabile. C’è chi la conosce come conduttrice del programma Italians Do It Better su Rock TV, chi come speaker in Rock’n’Roll Radio e chi come membro dei Rezophonic e dei suoi ex NoMoreSpeech. Stefania Alteria Bianchi è una front woman molto in vista, quasi un riferimento come la nota Cristina Scabbia, è caparbia e determinata e questo suo modo di fare cosi altruista le ha permesso di raggiungere svariati traguardi. Adesso ci occuperemo di Encore, il suo disco da solista che a dirla tutta è una vera e propria ventata di freschezza.  Parliamo di un lavoro Rock all’avanguardia, come miscelare lo stile di Courtney Love con quello degli Exilia, solo che Alteria dispone di doti canore che riescono a esprimere a tratti rabbia e aggressività e altri dolcezza e sensualità.

Nel disco padroneggiano riff taglienti e rimbombanti, l’uso delle chitarre è  infatti accurato e lavorato nei minimi dettagli. Insomma quella di Alteria è pura classe e se ascoltate pezzi come “Bad Trip”, la titletrack e la successiva “Empty Land” capirete il motivo. Oltre queste citate sono da tenere in considerazione “Protection” ed “Angel-Love”; in quest’ultima si manifesta la sensualità dell’ artista. La passione per Alteria è tanta, i sacrifici ci sono e la volontà è a non finire, tutto questo ha portato la rocker a raggiungere importanti obbiettivi e un disco come Encore poteva essere sfornato solo da una mente determinata, che mira sempre oltre fronteggiando qualsiasi avversità. L’esperienza con i NoMoreSpeech è stata significativa oltre che complessa ma Alteria ci ha riprovato, in maniera diversa, non si è tirata indietro e il risultato è stato questo eccellente album. Un’Alteria che è anche una validissima artista oltre che una conduttrice e speaker degna di nota ma la questione fondamentale è questa: con la sua musica è riuscita a emozionare.

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Il Paese che Brucia – Alta Marea

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C’era una volta in una pease lontano. Probabilmente questa recensione dovrebbe incominciare con questo incipit, ma la verità è che la storia de Il Paese che Brucia e del loro EP Alta Marea, non è una favola a lieto fine. Incomincio chiedendo venia al gruppo per aver lasciato il link del loro EP per un po’ di tempo in disparte e indiscriminatamente in coda rispetto a tutte le altre attività giornaliere, ma mai mi sarei aspettata di dover fare una recensione postuma. Il gruppo, infatti, con un laconico post su Facebook, colorito da una pallida metafora fiammeggiate ha annunciato, circa un mese fa, lo scioglimento. Ora la cosa più sensata sarebbe stato non fare la recensione, ma non mi sarei mai persa l’opportunità di scrivere il mio primo “necrologio”musicale.  Che sia ben chiaro, nonostante la tragedia non è ammesso nessun tipo di buonismo all’italiana per i giovanotti avellinesi.

Le cinque tracce che compongono l’EP, infatti, ci mostrano diverse aspetti del gruppo. Dal punto di vista contenutistico il quartetto non si tira indietro e affronta temi impegnati, a volte profondi, senza dubbio con una buona dose di critica alla società moderna e ai suoi malcostumi,come nell’apripista “Vita Elegante”. L’energia non manca e in tutte le tracce si nota una decisa impostazione musicale che predilige la sezione ritmica basso e batteria.  Diciotto minuti di alti e bassi, la stessa sopracitata “Vita Elegante”presenta un inizio e riff interessanti, per poi scivolare alla fine sulla buccia di banana di un confusionario Cross Over che invece di accentuarne il carattere fa perdere punti. “Circe”, pezzo di chiusura segue lo stesso cammino, inizio da ballad intensa, chitarra e voce tirata, finale in crescendo di ritmo ed intensità, se non fosse per un intermezzo, trenta  secondi di baratro, fatti da una batteria prepotente che spezza l’evoluzione emotiva del pezzo. “Il Sogno di Joro” e “Sono Fuori”  filano dritti senza troppi intoppi, sono decisamente brani figli del sound, e del corposo segno, tracciato nel panorama italiano dai Ministri. Alta Marea in questo caso è un titolo abbastanza rappresentativo per questo EP, anche se non vuol dire che Il Paese che Brucia fosse un gruppo di cui desiderare la morte, anzi probabilmente loro sono la perfetta rappresentazione, lo spaccato ideale della realtà di molti gruppi emergenti. Essere una band che non si limiti a diffondere la propria musica nel garage sotto casa è una sfida enorme, una vero scontro fra titani. Impegno, determinazione,  passione sono solo i punti di partenza, le stesse capacità musicali e di songwriting, spesso rappresentano la base,sono dati per scontato e  rappresentano un sicuro lasciapassare per il paradiso dei musicisti. Ci vuole un progetto, degli obiettivi, capacità di relazionarsi e qualche piccola dose di doti manageriali. Sembra brutto dirlo, ma la verità è che una band, è come una piccola impresa che deve crescere grazie alla sforzo colletivo di tutti, i rematori solitari e i Don Chisciotte de no altri hanno vita breve. Questo non significa rinunciare alla propria indipendenza e doversi necessariamente piegare a logiche commerciali o mainstream. In fondo per essere professionisti e vivere della prorpria musica devi trovare un tuo pubblico che ti apprezzi, che sia disposto a venire ai tuoi concerti e a pagare per i tuoi live.

La strada è irta, piena di insidie  tanti dolori e poche gioie. Forse i nostri avellinesi, antieroi della loro stessa storia, nonostante gli sforzi, non hanno avuto il giusto approccio, o semplicemente le loro strade personali si sono separate e gli interessi diversificati. Non facciamogliene una colpa, a volte è meglio interrompere ciò che non cresce, iniziare un nuovo progetto ed evitare di rimanere a vita nel limbo del garage. D’altrondela loro dicharazione d’intentire citava incautamente cosi: “Gruppo avellinese nato nel tardo 2011 da una casuale aggregazione di pessimi individui”.  Preveggenza inconsapevole, non lo sapremo mai. Sicuramente, come dal manuale della storia perfetta, possiamo trarre, un’amara e quanto mai attuale  morale, tra l’altro titolo di un libro che consiglio: “ Uno su Mille ce la Fa”.

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Preti Pedofili – L’Age D’Or

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Cosa pensereste se entrando nel website di una band vi trovereste di fronte questa frase? “L’uomo è il sacerdote del caos, la pedofilia è la sua volontà di potenza sulla natura infante, la vita è la celebrazione di tale miseria. I preti pedofili danno messa ogni giorno.” Spero che la risposta sia: “E questi pazzi da dove escono? Mo me li vado ad ascoltare per vedere quanto sono blasfemi!” e blasfemi lo sono, a partire dal nome che hanno scelto per presentarsi: loro sono i Preti Pedofili e suonano con tanto di tunica sacerdotale e colletto bianco. Insomma promettono bene anche senza ascoltarli direi. Ora, dopo Golem, Faust e lo Split con i Nastenka Aspetta un Altro, ci presentano L’Age D’Or, il primo vero full-lenght composto da dieci tracce liberamente ispirate al cortometraggio surrealista Un Chien Andalou (1929) di Luis Buñuel e Salvador Dalì. Il punto centrale di tutto l’album non è quindi quello di spiegare o trovare una logica nel degrado e nella solitudine che caratterizza l’odierna società occiedentale, ma di fotografare e creare suggestione attraverso “Il Male” intrinseco della società stessa: ingiusta ed atroce.

Quindi iniziamo subito con un tocco di Country sintetizzato in “Iride”, un brano che si conclude con un lungo sermone sulla sensibilità della vita e sull’importanza della libertà individuale, poi c’é “Mavis” con il suo materialismo alienante e chitarre ripetitive a farla da padrone, a seguire c’è “Self Made Man”, una traccia gridata, parlata, effettata ed accompagnata da un beat complesso e mai ripetitivo, poi è la volta di “Cancro”, brano che si sviluppa da un intro di batteria per poi sfociare in grida, distorsioni ed un racconto malvagio, concludendosi infine con un rumore industriale. Dalla quarta traccia in poi si cambia registro: si entra in un mondo più melodico e Rock (che mantiene comunque la sua particolarità blasfema attraverso un cantato simile ai cori cristiani) in “Dies Irae”, si aggiunge invece una voce diabolica che si esprime in mezzo a una batteria sincopata, stralci di calma melodica, synth disturbanti e chitarre distorte o con delay in “C’est Femme l’Autre Nom de Dieu” e “Vio-lento”, mentre segue un suono più elettronico in “Begotten” ed una drum-machine in “Primo Sangue”. L’ultima traccia, “Hate”, si serve di sonorità più lente rispetto a tutti gli altri brani, concludendo dunque con un’ottima scelta sonora che descrive quell’odio profondo che pian piano si sviluppa dentro un essere umano prendendone infine il completo possesso.

Il suono dei Preti Pedofili è come un palazzo a quattro piani: il pianterreno sono i testi (importanti ed essenziali per la struttura), il primo piano è la batteria (strutturata, piena di variazioni, e complessa come la vita che si sviluppa dentro ogni appartamento), il secondo piano è il basso (dritto come un corridoio), ed infine l’ultimo piano è la chitarra (effettata e spesso eterea come il vento, la pioggia, la luce e l’ombra che penetrano da una finestra).

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Il Giunto di Cardano – La Storia è Sempre Questa

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E rieccoci a parlare de Il Giunto di Cardano, giovane band pugliese formata da Giuseppe Colangelo (chitarra e voce), Andrea La Gatta (chitarra), Mariano Cericola (basso) e  Davide Tappi (batteria), che prende il nome da un organo che trasferisce energia cinetica da un motore ad altri elementi e che suona con l’intento di fondere sonorità British alla scena musicale italiana, strizzando anche l’occhio all’ Indie Rock e alla musica underground indipendente. Tutte cose che sappiamo già soprattutto perché questa band l’abbiamo conosciuta a fine 2012 con l’uscita della loro prima demo.

La recensione finiva così: <<Timbro vocale e testi che non fanno impazzire, ma che comunque se curati nel tempo daranno i propri frutti. Quindi il consiglio è quello di non bruciare le tappe, di pensare a qualche ballata, di diversificare l’andamento dei pezzi, di ragionare bene sulla struttura del disco (e non canzone per canzone) e di trovare prima il “voi” e il vostro significato musicale, per poi portarlo sui palchi con maggior forza e consapevolezza>>. Quindi a rigor di calcolo il consiglio di non bruciare le tappe non è stato seguito con l’uscita del loro primo Ep, La Storia è Sempre Questa. Ep che inizia con “Nessun Problema” primo brano che da subito fa capire che il sound non è cambiato, quindi molto Rock e orecchiabilità. Abbastanza interessante è “Stai Bene Come Sei” con il suo solo di chitarra molto classico, unico tratto singolare rispetto alla vocalità sempre sguaiata e ai testi ripetitivi. Si prosegue con “Giorno Perfetto”, il suo intro di batteria e il testo verso un tu immaginario, e “Limite” brano più importante dell’Ep da cui deriva il titolo. “Anestesia” invece è l’ultimo pezzo che chiude il lavoro.

Un lavoro paragonabile alla prima demo. Un lavoro che non entusiasma, che può essere etichettato nel classico Rock che ormai però può apparire noioso. Un lavoro comunque chiaro nelle intenzioni ritmiche e strumentali, dal buon sound ma con un cantato sguaiato, urlato, con delle finali che sembrano vortici e delle vocali che certe volte si perdono nel buio. Un Ep dalla buona base tecnica ma che non basta per andare più in alto. Ci vorrebbe inventiva, sperimentazione, emozione, significati più profondi, audacia nel non nascondersi nel proprio cantuccio sicuro e soprattutto tempo, mesi, se è necessario anni e anni per creare qualcosa che vada oltre. Oltre quella marmaglia insignificante che suona solo per farsi vedere. Oltre quel tu generico dove non ci si riesce ad immedesimare. Oltre quei particolari che nessuno si sciroppa ma che in realtà sono il segreto di tutto. Quindi il consiglio, che nessuno calcolerà ma che scrivo lo stesso, è quello di non buttare nel dimenticatoio i brani già composti, di correggerli, assemblarli in maniere differenti, di provare, sperimentare e di non uscire tra un anno con un album del tutto uguale ai lavori precedenti. Amen.

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The Spezials – Crazy Gravity

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Ascolto: in riva al mare. Luogo: Barcellona, spiaggia dei nudisti adiacente  hotel Vela. Umore: vacanziero e tendente alla traversata alcolica della giornata in solitaria.

Dopo aver messo su il disco dei The Spezials il mio primo pensiero e’stato: “ci vorrebbe un’organizzazione che impedisca alle band di ogni latitudine di applicare il flanger sulla voce (nell’intenzione dovrebbe far percepire la voce come se cantasse in una bottiglia e molto più spesso invece la fa arrivare dal mezzo delle tette di una cicciona nera di Harlem al fastfood  dopo la messa della domenica). Ci vorrebbe qualcuno che in giacca e cravatta bussasse alla porta del cantante e lo prendesse a scappellotti sulla nuca urlandogli: “non si fa più”. Flanger e scherzi a parte questo Crazy Gravity e’ un disco davvero godibile, The Spezials sono un trio che nulla ha da invidiare alle band di cui si intravede la scia creativa: Artic Monkeys su tutti. Pezzi tutti molto centrati, sezione ritmica davvero in palla e suono molto ben strutturato. La voce e le tracce di chitarra di Giovanni Toscani hanno nelle corde il pontile sul mare di Brighton, le nebbie dei sobborghi di Manchester e una  dose di rabbia in cravatta, un’ostentazione di precisione estetica quasi Mod, pure qualche eco Ska alla Madness. Pochi appunti alla produzione:  una certa tendenza, secondo me veniale, a suoni di chitarra che portino l’orecchio più negli  Stati Uniti che in Inghilterra e un limite, questo un po’ più grave, nel non lasciare un tema memorabile (forse solo “Two Girls”) alla fine del disco. Mille buone idee musicali. Ogni pezzo ha spunti a sufficienza per tre, troppo per una band che dichiara  la sua vocazione Dance Rock. Peccato, perché le buone premesse ci sono tutte. I The Spezials non devono far capire ad ogni costo e in ogni singolo pezzo quanto siano bravi , la distanza per dimostrare l’ arte si misura in decenni, non in minuti.

I secondi dischi, comunque, esistono per questo.

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Umberto Maria Giardini – Ognuno di Noi è un po’ Anticristo

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Sono naufragata milioni di volte nel mare delle mie inquietudini, e Dio solo sa quante altre tempeste emotive dovrò superare. Ma c’è un modo per far tornare la quiete, là dove per troppo tempo tuoni e fulmini hanno avuto la meglio, e questo modo è spalancare i cancelli dell’anima e dare libero ingresso alla musica. Paradossalmente, però, non tutta riesce a passarci attraverso. Può farlo solo quella fluida come l’acqua, che scivola all’interno di percorsi della mente sconosciuti, capace di scovare i sentimenti più nascosti. Parlo, ad esempio, della musica contenuta in Ognuno di Noi è un po’ Anticristo, il nuovo EP di Umberto Maria Giardini, uscito il 20 settembre 2013.

Non è un disco dall’ingresso trionfale, odia i clamori. È un amico che conosci da sempre e sa come fare a raggiungerti. Parte sicuro, ma a passi lievi, e ti viene incontro con una sezione ritmica leggera accompagnata da una voce melliflua. Subito dopo, il suo incedere lento affretta il passo e si trasforma in corsa per entrare dritto dove vuole entrare (“Fortuna Ora”). E ce la fa. Bene, amico di cui sopra, ormai hai sfondato tutte le recinzioni, cos’altro dire? Prego, accomodati. E lui si accomoda e ti parla; con fare psichedelico e ossessivo (“Oh Gioventù”), e senza proferire parola, ti fa capire che sa tutto di te, delle tue inquietudini, delle dei tuoi scazzi, delle tue incertezze, delle tue solitudini. All’improvviso ti senti nudo, spiazzato, e pensi che da un momento all’altro se ne andrà via, schifato per tutto ciò che ha visto. Ma lui non lo fa. La musica non tradisce. Comincia invece a sussurrarti all’orecchio parole come il tempo è come noi, prende tempo e non perdona (“Regina Della Notte”).

Ed allora capisci nell’inganno in cui sei caduto, è tempo perso il loop in cui sei capitato. Pochi secondi con il fiato sospeso, e poi l’esplosione in un finale deciso, un misto di gioia per esserti ritrovato, e tristezza per esserci cascato ancora. Il resto è solo una parola: “Omega”. E’ ora di farla finita. La melodiosa bellezza della voce ed un sottofondo psichedelico carico d’inquietudine convogliano in un unico, solo finale Progressive. Non è da tutti fare certi viaggi all’interno di sé stessi; ci vuole coraggio, ma conto di averne a vagoni stracolmi al binario della tua città (“Tutto è Anticristo”). Non c’è da vergognarsi per quello che ne viene fuori quando ci si guarda dentro. C’è del bello e del brutto in ognuno di noi. In fondo, Ognuno di Noi è un po’ Anticristo.

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Il Santo Niente – Mare Tranquillitatis

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Conobbi Il Santo Niente tanti anni fa, non ricordo bene il giorno, né l’anno ma ricordo bene il luogo. Ero nella stanza della sorella più grande di un mio vecchio compagno di scuola. Avete presente quelle situazioni molto anni novanta, camerette piene di poster e musicassette e musica che scivola lungo i bordi delle pareti? Ricordo benissimo quel giorno in cui ascoltai per la prima volta la voce di Umberto Palazzo, ben prima di conoscere i Massimo Volume che molti vedono come una delle due metà del progetto iniziato dallo stesso Palazzo ma che in realtà rappresenta una linea parallela alla vita artistica de Il Santo Niente. Ricordo esattamente le emozioni che m’ispirò ascoltare le note di quei brani. “Junkie”, “È Aria”, “’sei na ru mo’no wa nai ‘i”, “Angelo Nero” e sul lato A della tape casalinga le tracce dell’opera prima, “Cuore di Puttana (Hardcore)”, “La Vita è Facile” e poi la coppia di cui m’innamorai subito, “Il Pappone” e “L’Aborigeno”. Ricordo con un brivido sulla mia pelle le sensazioni che provai nell’origliare quei brani, portare a casa quella musicassetta, inserirla nel mio mini sound system e iniziare la copia che gelosamente custodisco come un inutile ricordo sbiadito; copia che avrei poi perfezionato inserendo con cura, a mano, a uno a uno i titoli di La Vita è Facile e ‘sei na ru mo’no wa na ‘i. Da quella circostanza iniziò un rinnovamento estremista nel mio modo di discernere e scoperchiare la musica. Non più solo rifrazione dei miei amici infossati nel Punk e non più banale conseguenza di qualche fugace ascolto radiotelevisivo. C’era tutto un mondo in fermento sotto l’asfalto; una realtà underground pronta a esplodere nel suo silenzio, nella sua disperazione. Sono trascorsi ben oltre quindici anni da quel giorno e troppi dall’ultimo album targato Santo Niente, Il Fiore Dell’Agave ed è ovvio che, cosi come ho atteso con trepidazione l’uscita del primo lavoro solista di Umberto Palazzo e seguito il progetto El Santo Nada (viste le ovvie distanze, più per curiosità che per altro, considerando poi che io sono un tipo che lega più con i brani che con i compositori/esecutori), con maggiore partecipazione ho assistito alla genesi lenta di questa quarta fatica della band, Mare Tranquillitatis. L’ho ascoltata ormai una decina di volte in pochi giorni e la prima cosa che mi ha trafitto è che qualcuno tra noi deve essere cambiato perché, nello strato più abissale della mia pelle, c’è una linfa che non sembra scolare e non pare vibrare allo stesso modo di tanti anni fa. Ovviamente non sono io lo stesso; ho il doppio degli anni, diverse idee per la testa, un modo differente di scorgere il mondo, qualche pensiero pratico in più e alcuni falsi problemi in meno, qualche birra di troppo sulle spalle e parecchi acciacchi ma allo stesso modo non sono gli stessi quelli che sento nelle casse. Tutto ciò, per fortuna, aggiungo.

Chiunque non abbia ancora ascoltato l’album ma si sia imbattuto volente o nolente nel singolo “Le Ragazze Italiane” non si lasci trarre in inganno da questo pezzo cosi dinamico (anche se molto vicino al classico sound della band), ossessivo e dal testo e dalla melodia un po’ “paraculo”; sia che sia piaciuto che in caso contrario. È quanto di più estraneo si possa trovare nei quaranta minuti di musica di cui è composto Mare Tranquillitatis. È evidente una certa presa di posizione, di distanza, dalla rabbia Garage degli esordi, anche se le sfuriate introspettive Post Hardcore stile Jesus Lizard (“Cristo Nel Cemento”) tengono ancorata la band a quelle che sono le loro radici anni 90. Stessa cosa, sia a livello testuale sia musicale, per quanto riguarda la forma canzone classica che è quasi interamente lasciata alle spalle nel tentativo di sviluppare una strada più predisposta all’Art Rock che tendenzialmente si risolve in Spoken Word impreziositi da chitarre distorte, tutto molto in stile Massimo Volume, per chi ha apprezzato la formula solo da questi “cugini” artistici bolognesi, ma che in realtà era stata già impiegata, anche se con ovvie varianti narrative e musicali, da Palazzo e compagni.

Soprattutto le strutture ritmiche riprendono in un certo modo quella che è la corrente più importante del Rock sperimentale teutonico, il Krautrock di Neu! specialmente ma anche di Faust e Can, sviluppandone le esasperazioni in una formula moderna e più vicina ai gusti del pubblico post Y2K bug e mantenendo la parte avanguardistica a livelli accettabili, in contrapposizioni ad alcune follie pure (vedi The Faust Tapes ad esempio) dei padri fondatori. Una delle immagini più avvincenti del disco è la parte testuale che mette in secondo piano l’elemento autobiografico e si concentra piuttosto su una sorta di analisi sociologica dell’universo che circonda l’uomo che sta dietro alle canzoni. Esempio è proprio il singolo “Le Ragazze Italiane” che riassume in pochi versi tutto quello che significa essere giovani, donne, oggi, in certi ambienti tra cui, immagino, quelli della vita notturna pescarese, acquario in cui s’immergono costantemente gli autori. Non uno spaccato generalista di ciò che può significare essere una sbarazzina ragazza oggi in Italia e nessun subdolo sistema per giudicare tutta una generazione. Nessuna accusa ma solo un atto d’amore nei confronti di alcune donne che hanno nuotato nello stesso acquario di Palazzo e d’odio verso certi atteggiamenti puritani di chi non ama mai bagnarsi. Se nel singolo l’elemento testuale si materializza efficacemente in tutta la sua franchezza, molto più soffuse sono le luci che circondano gli altri brani. Si passa da pezzi ispirati dalla letteratura o dalla storia (“Cristo Nel Cemento” è un brano suggerito dall’omonimo romanzo di Pietro Di Donato, figlio di un muratore abruzzese emigrato in America mentre “Sabato Simon Rodia” è un emigrante in America, creatore delle Watts Towers di Los Angeles) a brani che narrano (quasi letteralmente, visto lo stile usato nei pezzi) storie di violenza, droga, adolescenza e delinquenza (“Un Certo Tipo di Problema”, “Primo Sangue”) e disagio (“Maria Callas”, nome di un anziano travestito).

Come detto, la musica di Mare Tranquillitatis è una sorta di esperimento che vuole unire elementi propri della tradizione Alt Rock italiana (che va dagli stessi Il Santo Niente fino ai Massimo Volume ma anche ai Csi, rievocati in alcuni passaggi di chitarra di “Un Certo Tipo di Problema” ad esempio) al Post Hardcore dei Jesus Lizard ma anche molto “albiniano” (“Cristo Nel Cemento”); congiungere il Rock aggressivo, banalmente e volutamente diretto tanto da essere subnormale in perfetto stile Stooges (“Le Ragazze Italiane”) alle eccezionali e perfette deformità del Krautrock anni 70; fondere l’Elettronica e le sue ritmiche “danzereccie” (“Primo Sangue”) alle cacofonie soniche estreme (“Sabato Simon Rodia”) passando per cenni di psichedelia. Umberto Palazzo prova a utilizzare come legante di questa indagine sonora il sax di Sergio Pomante (eccezionale la sua opera prima con gli String Theory, mio disco italiano dell’anno nel 2012) ma restano alcuni dubbi sull’opera. Assolutamente da apprezzare la parte testuale (chi critica questo elemento dovrebbe consigliarmi qualche ascolto italiano), che scivola via senza inutili e ridondanti pesantezze, lasciando invece tante preziose oscurità che si lasciano scoprire elegantemente ascolto dopo ascolto (penso al fatto che molti abbiamo letto “Maria Callas” pensando alla diva e che ora, riascolteranno il pezzo scoprendone lati impensati). Certamente è risultato piacevole il distaccarsi dai cliché dei primi album ma, personalmente, mi aspettavo qualche rischio in più da un compositore esperto come Palazzo. Ovviamente è un concetto relativo quello di azzardo perché brani come “Primo Sangue”, quello che ho più ammirato o “Sabato Simon Rodia” sono tra le cose più lontane dalla normalità per l’ascoltatore medio italiano. Resta troppo in primo piano la vocalità mentre avrei preferito che Il Santo Niente avesse dato maggiore possibilità espressiva alle chitarre e soprattutto al sax che poteva veramente elevare Mare Tranquillitatis a uno dei migliori album degli ultimi vent’anni oltre che, magari, dare un’impronta innovativa al lavoro che altrimenti resta ineluttabilmente infangato nei ricordi di passate correnti. Tante influenze che rischiano di incanalarsi nel ricordo di tempi andati e una ricerca di strade Art Rock e sperimentali che appaiono ancora molto lontane. Inoltre crea qualche perplessità un brano come “Le Ragazze Italiane”; molto diverso dal resto dell’album  finisce per confondere l’ascoltatore, anche e soprattutto prima ancora di ascoltare il resto. Può avere senso come gancio per il pubblico, dato il tema e le sonorità immediate ma niente di più.

Se proprio vi piace fare un raffronto con i Massimo Volume, mi assumo la responsabilità di dirvi che c’è molto più coraggio in questo disco che nelle loro ultime cose (alcune delle quali fatico a riascoltare, nonostante non ne neghi il valore) e c’è anche di più della pura temerarietà perché Mare Tranquillitatis riesce nella difficoltà di non annoiare pur dislocandosi dalle vie sicure della canzone italiana (chiamatelo pure cantautorato Indie, se preferite). Un disco che non dimenticherò di lasciar partire dalle casse nel breve tempo ma che mi lascerà comunque sempre con un profondo dispiacere per quello che sarebbe potuto essere. Parafrasando L’inizio di “Sabato Simon Rodia”, (“Puoi essere solo ottimo o pessimo. Se sei buono a metà non sei buono”) se la sperimentazione è solo a metà non è sperimentazione. Oppure possiamo fare meno i puntigliosi, vivere la musica per quello che è e goderci semplicemente un disco pregevole.

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ESMA – Rivoluzione al Sole Vol.1 Impossibile è Solo Una Parola

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Dicono che le grandi rivoluzioni comincino sempre dal basso. Bisogna toccare a piedi uniti e fermi il fondo per potersi dare uno slancio verso la superficie, verso la luce, verso il Sole. Dicono anche che non vi è altra via per l’alba se non attraverso la notte. Forse questo concetto era ben chiaro nella mente di Enrico Esma quando si è trattato di impugnare penna e chitarra per la realizzazione di Rivoluzione al Sole Vol.1 – Impossibile è Solo Una Parola, prima tappa di un lavoro di più ampio respiro, organizzato in forma di concept album, che prevede, a breve, l’uscita del Vol.2.

La rivoluzione di Esma comincia a notte inoltrata, quando l’orizzonte è solo una linea immaginaria, ma non tutti sanno che quello è solo l’inizio. Scorrono le lancette dell’orologio, ed in lontananza si palesano luci fioche che aumentano man mano d’intensità, fino a trasformarsi in raggi solari. È questa la metafora che accompagna l’intero album, che si evolve in un crescendo dal buio alla luce: le sonorità ruvide del Grunge più primordiale, le distorsioni del Rock più duro, crepuscolare a tratti, vanno scemando man mano i toni fino ad arrivare a sonorità Alternative Rock decisamente più melodiose. Avrei dovuto intuirlo dalla copertina del disco che la parola Sole del titolo non avrebbe fatto alcuna allusione a sonorità caraibiche: di sole si tratta, certo, in primo piano, ma stampato su sfondo grigio, il colore che forse tinge troppo spesso il cielo di Orbassano, perché è in provincia di Torino che quest’album ha visto la luce. Se il filo conduttore che accompagna lo sviluppo del disco è abbastanza evidente nella parte strumentale, lo è meno nei testi, ancora troppo acerbi ed alla ricerca di allucinazioni oniriche in stile Verdena che talvolta risultano forzate, soprattutto nella prima parte.

“Faraon” è la prima traccia del disco. È questo il fondo dal quale comincia la risalita, la notte che si deve superare. Il suono è rude, graffiante, essenziale; un’operazione a cuore aperto senza “Anestesia” (secondo brano). “Dente di Drago” e “Resto Abile” smorzano un po’ i toni duri ed introducono i primi bagliori di luce all’orizzonte, ma i primi veri raggi luminosi si vedranno solo con “Pianoforte in Fiamme Sulla Spiaggia” ed “Universo”, dove le chitarre distorte lasciano il posto a quelle acustiche. Ed infine il Sole, lontano ed infuocato, avvolto in una luce tutta sua, “Come Una Stella”: ecco che spunta  l’alba, ecco la fine del disco. Un finale che non è un vero finale, ma apre lo scenario verso un nuovo inizio. Non ci resta che attendere l’uscita del Vol.2 per sapere come andrà a finire.

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Dawn to The Clouds – Far

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Carpi è un comune italiano di 67.408 abitanti della provincia di Modena in Emilia-Romagna.Il comune, il più popoloso della provincia dopo il capoluogo, fa parte dell’Unione Terre d’Argine. Non ci troviamo in una puntata di Super Quark ma sulla pagina di Wikipedia dedicata a Carpi, che dimentica di citarla come città che ha dato i natali ai Dawn To The Clouds. Il terzetto si presenta con Far, il loro secondo EP, composto da quattro tracce per un totale di diciotto minuti scarsi, che suscitano quel languorino musicale che si vorrebbe sempre poter ascoltare schiacciando il tasto play. Dicevamo, quattro tracce che a primo impatto mostrano i denti e il carattere. Forti sono le influenze provenienti dal Rock made in USA e anche qualche strizzata d’occhio a certi riff provenienti da Grunge anni 90 come nel primo brano “On Your Lips”.

Difficile non lasciarsi coinvolgere dalle chitarre distorte e dalle sporcature disseminate per le tracce. Se poi a questo ci aggiungiamo il ritmo sostenuto da una sezione ritmica trainante ascoltiamo “Loneliness”, inserita in chiusura, piacevolmente colpiti di trovarsi di fronte a un ottimo esempio di potenza ed energia tradotta in musica. Considerando che stiamo parlando di un trio, la ricchezza non manca e anche dal punto di vista dell’accuratezza non possiamo che dargli un “bravi” in pagella. Abbiamo parlato di un inizio e una fine col botto, senza considerare che nel mezzo i Dawn to The Clouds hanno piazzato un’altra doppietta niente male con la cover “Florence” dei Be Forest, che si innesta nella stessa direzione fatta di energia, ritmo e distorsioni, e una ballad dal titolo proverbiale “Sunday”che tira un po’ il fiato prima della corsa finale. Se volessimo trovare delle corrispondenze con gruppi famosi probabilmente citeremmo gli Smashing Pumpkins, i Pearl Jam o i Dinosaur Jr ma preferisco pensare che i Dawn To The Clouds abbiamo trovato, in questo secondo EP, uno stile più personale e definito. Far dimostra di avere gambe forti ed energia da vendere, che spreriamo di ritrovare nella lunga distanza nei loro live e nei prossimi lavori.

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Midnight Faces – Fornication

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Le due facce di mezzanotte che stanno dietro a questo progetto arrivato direttamente dalla capitale dello stato capitalista per eccellenza sono Philip Stancil e Matthew Warn. Warn inizia ben presto a fare musica con un amico d’infanzia, Jonny Pierce, poi voce dei The Drums (con lui Jacob Graham, Adam Kessler e Connor Hanwick), band Indie Pop in orbita dal 2009, con all’attivo due full lenght, l’omonimo esordio e “Portamento” del 2010, oltre a numerosi singoli, Ep e partecipazioni a compilation. Dopo un primo album pubblicato con l’amico Pierce, Warn fonda insieme a Josh Tillman (dall’anno scorso ex batterista dei Fleet Foxes, oggi più noto come Father John Misty), i Saxon Shore, formazione Post Rock di buonissimo livello.

I Midnight Faces nascono dall’incontro di Warn con Philip Stancil, anche lui cresciuto con la musica intorno, giacché la sua è proprio una famiglia di musicisti. Warn aveva già realizzato le parti strumentali e invitò quello che ne è il compagno artistico ad aggiungere le sezioni vocali. Prese cosi vita questo Fornication.

Dieci tracce, dieci canzoni melodicamente Pop ma dai mille retrogusti. Si passa da alcuni momenti più oscuri, quasi Darkwave, specie nella sezione ritmica e negli echi delle chitarre (“Fornication”, “Kingdome Come” “Turn Back”), ad altri nei quali la vocalità e l’approccio cantautorale di Stancil prendono il sopravvento (“Identity”, “Heartless”). Tanti sono i passaggi nei quali l’Alt Rock (“Crowed Halls”) si addolcisce per seguire strade più popolari e di più facile ascolto (“Give In Give Out”, “Now I’m Done”), grazie anche a un’attenta e puntuale ricerca melodica e moltissime sono le congiunture nelle quali tutta la vita di Warn e quindi le sue conoscenze personali, più o meno dirette (abbiamo detto The Drums, Fleet Foxes, Saxon Shore), sono riportate in musica. I brani più riusciti sono quelli nei quali il Dream Pop particolarmente sintetico si sposa con l’elettronica creando suggestive ambientazioni filmiche, a tratti danzereccie quasi eighties (“Feel This Way”, “Give In Give Out”, “Kingdome Come”) in uno stile perfetto che richiama il grande Anthony Gonzales (M83) ma anche, volendo ampliare il proprio spettro di vedute, i Depeche Mode (“Holding On”), cosi come gli Slowdive, ovviamente con ritmi più dinamici.

Un disco che miscela quindi atmosfera e melodia, con cura ed eleganza, puntando forte sulla voce ma senza tralasciare l’aspetto strumentale, elettronico soprattutto. Sceglie melodie orecchiabili e non calca troppo la mano su artifizi di alcun tipo finendo però per sprofondare nell’altro versante della questione. Eccessiva semplicità che si trasforma in povertà d’appeal e melodie che, per quanto gradevoli, finiscono per essere di facile oblio, perché troppo simili le une alle altre. Dieci episodi che si presentano, in linea di massima, tutti ugualmente apprezzabili e facilmente godibili, senza però riuscire a suscitare un interesse che vada oltre la semplice amabilità sonora. Per chiudere, se avete difficoltà a trovare mezze misure, questo è il disco perfetto per affibbiare la vostra sufficienza, niente di più, niente di meno, almeno per questa volta.

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