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Tre Tigri Contro/Amelie Tritesse – Tre Tigri Contro Amelie Tritesse 7” split

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Partiamo dall’occasione. Record Store Day. Nato nel 2007 dalla mente di Chris Brown è molto semplicemente una giornata (terzo sabato di aprile) celebrativa per tutti i negozi musicali indipendenti, durante il quale le band realizzano ristampe, dischi ad hoc, remix e tutte le possibili prelibatezze e rarità che ogni buon collezionista sognerebbe di possedere. L’occasione di questo split è proprio il Record Store Day, sesta edizione. Un 7”, 200 copie in vinile nero e busta di cartone pressato, 100 copie in vinile colorato in scatole di cartone ondulato con copertine dipinte a mano. Già immagino i collezionisti folli con la bava alla bocca. Oltre al feticismo c’è però la musica e ci sono due formazioni di punta della scena alternativa abruzzese, due band che hanno diviso palchi, sudore e gioia. Da un lato Amelie Tritesse (Teramo) con “L’Agnello di Dio” e il loro classico Read’n Rocking, una miscela di parole e suoni, musica e testo, di Spoken Word e Alt Rock che si piazza a metà strada tra Massimo Volume e Art Brut. “L’Agnello di Dio” non aggiunge nulla a quello che gli Amelie Tritesse ci hanno spiegato essere già due anni fa con l’uscita di Cazzo ne Sapete Voi Del Rock’n Roll. Una storia, raccontata più che cantata, ironica e surreale per certi versi, con una timbrica, un’impostazione vocale (Manuel Graziani, l’artefice), un accento e una sonorità che sarà snervante, quasi insopportabile per alcuni, ma che, al tempo stesso, ha reso gli Amelie una creatura dalla firma distintiva. Il secondo brano dello split è invece una sorpresa. Loro sono i Tre Tigri Contro (Giulianova), power trio emergente che, nel brano “I Lunedì al Sole (Io Non Voglio Lavorare Più)”,  unisce l’ironia di un certo cantautorato italico, tra Rino Gaetano e il Claudio Baglioni di “Portaportese”, all’energia, l’irriverenza e la follia dei più attuali Zen Circus. Del circo Zen sembrano ricalcare anche lo stile dei testi, che, per quanto possano far storcere il naso agli ascoltatori più intellettuosnob, è innegabile riescano a strappare più di un sorriso (“Io non voglio lavorare più! / Davanti al televisore ventidue ore al giorno / e le altre due le vivrei solamente di porno”). I due brani di Tre Tigri Contro Amelie Tritesse, sono molto diversi uno dall’altro ma stanno benissimo insieme, come i due risvolti della stessa medaglia, come due modi diversi di affrontare la vita, diversi e eppure simili perché legati da un sottile filo di disillusione. E alla fine aver avuto tra le mani una delle trecento copie dello split sarà un piacere anche per le orecchie, oltre che per il nostro spirito di feticisti incalliti.

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Ventura – Ultima Necat

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Vengono da Losanna, Svizzera, questi tre reduci degli anni novanta nati nel 2003, che sembrano aver triturato e centrifugato una decade di Superchunk e Grunge, di Failure e Alt Rock, di Shellac e Nirvana prima di aver iniziato a vomitare la loro arte sulle nostre orecchie. Dopo diversi split pubblicano il loro primo album Pa Capona nel 2006 e il secondo (finalmente per l’Africantape) We Recruit nel 2010, anno in cui collaborano anche a un singolo per la stessa etichetta con David Yow (Jesus Lizard).

Nonostante la matrice Alternative Rock sia forte, evidente e sia un chiaro punto di forza dell’album, non mancano passaggi che sembrano invece richiamare addirittura al Black Metal. Già l’introduzione di “About to Dispair” sembra presagire paesaggi più variegati rispetto a un semplice revival di fine millennio. Le note gravi e poderose e le pause di quei secondi iniziali sembrano estrapolati da un’inesistente opera Atmospheric Black Metal degli Ulver più che dal terzo disco di una band svizzera che suona nel 2013 col mito di Cobain e soci nella testa. Black Metal che ritroveremo, in sfumature non facili da cogliere, anche in diversi passaggi successivi (“Intruder”, “Very Elephant Man”.)
Ovviamente non si pensi a un disco pieno delle più disparate e inaspettate influenze. O meglio, pieno delle più disparate e inaspettate sonorità. Cosi come nei lavori precedenti anche qui gli anni delle camicie a quadrettoni sono la parte preminente, evidenziata in quasi tutti i brani, sia più lenti, meditativi ed eterei  (“Little Wolf”, “Amputee”, “Exquisite & Subtle”) sia più veloci, carichi e pieni di vita (“Nothing Else Mattered”, “Corinne”).

Assolutamente eccelsa la potenza Post Hardcore e la vocalità Art Rock quando espresse in tutta la loro completezza (“Body Language”, “Amputee”).
Nonostante la ricchezza di spigolature, le chitarre distorte e taglienti , il sound dei Ventura, anche grazie alla voce pulita di Philippe Henchoz e alle ritmiche puntuali e mai ridondanti di Michael Bedelek (batteria) e Diego Gohring (basso) fa  della melodia un altro elemento che contraddistingue Ultima Necat. Basti pensare a un pezzo come “Very Elephant Man” che nella prima parte sembra un tripudio di esasperazioni soniche, con ritmiche sfalsate, voce quasi sovrastata dagli eccessi noise delle chitarre. Basta ascoltare come quello stesso pezzo riesce a trasformarsi nella seconda sezione diventando una goduria per le orecchie, sciogliendosi in una musicalità vellutata dettata sia dal ripetersi delle parole sia dalla semplicità delle sei corde che esplodono come in uno Shoegaze di stampo Alcest, una delle formazioni che più si avvicina ai Ventura. Stessa soavità leggiadra, stesse chitarre taglienti, stessa vicinanza con il Black Metal soprattutto nelle sue varianti Ambient e Shoegaze. L’unica differenza è che, se nei francesi questi fattori sono messi in bella mostra, i Ventura sembrano invece celare il tutto dietro quella nuvola anni novanta cui più volte ho fatto riferimento.

Già con l’opera prima degli Alcest, Souvenirs d’un Autre Monde c’erano state diverse controversie riguardo alla vicinanza della loro musica con il Black Metal; probabilmente allo stesso modo qualcuno potrebbe trovare azzardate le mie parole. Eppure ascoltate con attenzione queste nove tracce di Ultima Necat e forse vi convincerete di quello che dico.
Intanto l’ultima canzone è finita, ancora una volta. Omnes feriunt, ultima necat. L’ultima uccide, diceva Seneca (forse lui?!). Di certo non parlava di musica ma per non sbagliare faccio ripartire il disco e metto repeat, non voglio ascoltare ultimi brani oggi, meglio addormentarsi con la musica in testa.

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Drive me Crazy – 2012 Ep

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Dopo una demo autoprodotta, tornano a far parlare di sé i Drive Me Crazy con 2012 – The Ep un disco breve, ma intenso. Sono solamente 4 le tracce di questo lavoro, ma la carica energetica che sprigionano compensa la brevità. La voce di Claudia Favalli ci incanta, mentre il resto della band detta egregiamente un sound Rock esplosivo alternato a momenti più soft da romantiche ballad.

“Drive me Crazy”, la canzone che porta lo stesso nome della band, veicola su note stridenti un testo dolce. La traccia è stata anche scelta come singolo iniziale, completo di videoclip ad opera della M&M Italia.
La seconda canzone, “One Out of a Million”,  è una vera e propria ballad dal gusto romantico ed ha un refrain che si imprime in mente con una facilità sorprendente. Un inno e uno stimolo a seguire  le proprie ispirazioni e le proprie passioni alla volta del successo.
“2012” esprime ad hoc quel che è il Rock n’ Rose della band: suoni a tratti forti e voci sussurrate in alternanza per prendere un po’ in giro con stile chi credeva nella ormai scongiurata fine del mondo predetta dai Maya.

2012 The Ep si chiude con un brano dalle chitarre stridenti e voci trascinate che ben rappresentano il mood del titolo: “Love is Paranoid”. Si sente tutta la passione e la disperazione di un amore a tinte paranoiche.
La voce della Favalli spacca. A tratti nei brani più soft compare il fantasma dei contrasti vocali di Anouk, mentre in altri momenti la grinta prorompente è quella di Beth Ditto dei The Gossip, pur mantenendo sempre una propria identità e peculiarità.
I Drive Me Crazy sono una band carica di energia e di verve che entra nel mercato musicale sfondando la porta e portando una ventata di novità nella nostra collezione di dischi.

Dal 23 maggio l’Ep è disponibile in download su iTunes e le principali piattaforme, nell’attesa del tour che vedrà i DMC esibirsi in diversi locali del Nord Italia.

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The Spezials – Crazy Gravity

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È la seconda “volta” per i milanesi The Spezials, ed è un piccolo registrato da emozioni spigliate che,  davanti vorreste condividere con tutti e  che invece ve lo terreste tutto per voi, gelosi della loro attitudine grattugiante e diretta che sforma un ascolto imprevisto, o che può correre il rischio – tranquillo –  di essere incredibilmente ostaggio di una sensibilità FM Alternative oltre i limiti; Crazy Gravity è la fissazione riuscita di suonare sia con certe spiritualità ispiratrici che con l’audacia amplificata della creatività, fuori comunque dagli ordini costituiti del piacere modaiolo a tutti i costi.

Registrate in crowdfunding su piattaforma musicraiser, le dieci tracce del disco, se ascoltate in sequenza determinante, sono una perfetta e definita sintesi di tutte le bipolarità umorali dell’ultima generazione, una scaletta che alterna la dolcezza di una ballata ventilata “Two Girls” e il cozzo del rock nudo e crudo della titletrack, un’onda calda dalla personalità multipla che stringe il microfono dell’ascolto e spiazza nella sua sincera coralità miscelata; pulito da tutte quelle banalità che si annidano come germi a presa rapida in milioni di produzioni underground, Crazy Gravity esprime davvero bella musica, quelle tonalità tutte inglesi di controbattere la noia con infinitesimali meraviglie senza demoni o altre astrusità rabbiose. Belle chitarre d’assalto dolce, una voce che compete sul ritmo sempre di corsa e quella liberazione sonora che si paragona  con esuberanze Arctic Monkeys, qualcosa di sottofondo della Leeds punkettara d’antan “Futuristic Horse”, “Morning Dead”, poi tutto quello che è in più e una rivelazione spiritata da tenere stretta e puntarci sopra.
Disco “birichino” e fruibilissimo, un suono totale che mescola ironia e mood frizzante, impasta e modella come plastilina il suo argento vivo e la sua concreta effervescenza, che racconta le sue storie col fiatone “Shimbone” e con le stramberie disco – danzereccie che provano a riscrivere una stringa di tempo che fa piacere – risentirla in vocoder – tra una cosa e l’altra “Normal”.

La guida  all’ascolto è come una linea schizzata di angoli elettrificati, il piacere – una volta identificata tale linea – è una scarica di adrenalina che precede lo schianto con una soluzione musicale stupendamente cool.

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Huge Molasses Tank Explodes – Bicephalous

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Gli Huge Molasses Tank Explodes sono un trio di Milano, formato da Gabriele Arnolfo (batteria, voce) Fabrizio De Felice (chitarra, voce) e Luca Sacanna (basso, voce). La storia del nome arriva da lontano, più precisamente da un articolo del Boston Post del 1919 in cui si parla dell’enorme serbatoio esploso in quell’anno a Boston, e soprannominato appunto il “Disastro Della Melassa”. Registrato alla Sauna di Varese da Andrea Caielli in presa diretta, Bicephalous combina distorsioni alla Dinosaur Jr con melodie scarne e nervose di band come Built to Spill e Modest Mouse.L’approccio live utilizzato per realizzare quest’album è stata sicuramente una scelta azzeccata per riprendere e mantenere quella forza che solo la “musica d’insieme” riesce a trasmettere. Grazie a ciò si sono riuscite a cogliere quelle sfumature d’intesa tra musicisti, cosa che purtroppo viene a mancare con un approccio in studio convenzionale e attraverso un overdubbing eccessivo. Quindi bravi e bravo anche Andrea Caielli che ha mantenuto nel mixaggio il suono originale della band.

Il disco si apre con “Assurances”, traccia dai tratti Punk Rock e caratterizzata da un assolo di chitarra al centro del brano. Belli i cambi di tempo, un po’ meno la pronuncia inglese. Il viaggio musicale continua con “Foiled” e “A Maze”, quest’ultima da me maggiormente apprezzata soprattutto per l’accostamento batteria/voce particolarmente azzeccato. Lo spirito live inizia a sentirsi prepotente con “Enclosures”, un brano parlato piuttosto che cantato, che lascia spazio a Gabriele, Luca e Fabrizio di esprimersi al meglio attraverso i loro strumenti. Meno Punk ma più Indie sporco è “K.Y.C.”, ottimo il basso e gli arpeggi di chitarra in “Realeyes”, ed invece Hardcore quanto basta ma completa anche di stacchi musicali che lasciano respirare l’ascoltatore, è la penultima traccia “Uneven”. Qui mi hanno stupito, non posso che dire bravi! “The Deceit” è uno di quei brani che ti immagini di stare ascoltando mentre guidi e ti godi il panorama. Una traccia apparentemente calma e d’accompagnamento, ma solo apparentemente, infatti il finale incazzoso e pestato non tarda ad arrivare, chiudendo il disco in bellezza.

Gli Huge Molasses Tank Explodes mi sono piaciuti, non posso dire di no, però avrei preferito un po’ più di punch, un po’ più di cattiveria, un po’ più… insomma mancano di qualcosa e forse quel qualcosa non sta tanto negli arrangiamenti ma nel confezionamento del disco, in parole povere avrei fatto masterizzare il disco fuori dai confini italiani, magari in California. Certo sono la prima a comprendere che i costi di produzione non sempre sono low-cost, però proprio perché trovo che questa band abbia delle ottime potenzialità, avrei investito un po’ di più nella realizzazione sonora. Un consiglio spassionato per una loro spero futura produzione.

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Tricky – False Idols

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L’uscita del nuovo lavoro di Tricky, False Idols, è prevista a fine mese e c’è già chi dice che questo lavoro merita la sufficienza. È chiaro che non hanno colto le sfumature. Ma andiamo con calma, piano piano. False Idols è un lavoro che arriva a ridosso di Knowle West Boy (2008) e Mixed Race (2010) dopo alcuni anni di silenzio e un paio d’album non proprio riuscitissimi. Nei precedenti ultimi lavori citati Adrian Thaws, alias Tricky, ha tentato di dare alla sua musica un ritmo più “orecchiabile” riuscendo in Knowle West Boy, album bellissimo dalla prima all’ultima traccia, e perdendosi in Mixed Race, album misto, con alti e bassi, in cui riaffiora un ritorno alle origini con suoni cupi e voce bassa, bisbigliata. False Idols non è l’album della maturità, né del cambiamento ma è un lavoro che cerca di tessere la tela degli anni che passano, tra alti e bassi, nel tentativo affermare una volta per tutte la propria identità musicale. È noto a tutti che all’inizio della sua carriera, primi anni ’90, Tricky ha, con successo, dato il via al Trip Hop (insieme a Massive Attack e Portishead) genere che ne miscelava altri, dall’Hip Pop al Dub passando per la Musica Elettronica e il Rock psichedelico. L’inizio dei ’90 rappresenta l’apice della sua carriera che andrà affievolendosi successivamente con dei lavori che il pubblico non recepì proprio bene come Angels With Dirty Faces e Juxtapose.

L’album si avvale della stupenda voce di Francesca Belmonte che con il suo contributo impreziosisce il lavoro di Tricky. Tra i brani spiccano “NothingMatters”, “Bonnie&Clyde”, “Nothing’s Changed”, “Chinese Interlude” e “Doesit”. Tutti brani ritmati che ripercorrono le varie esperienze sonore di questo problematico artista.

In un certo senso con questo lavoro è come se cercasse di far quadrare il cerchio mixando nuovi e vecchi concepts affermando con forza una e una sola cosa: Tricky è Tricky e non ha voglia  di cambiare, “Nothing’s Changed”, di seguire falsi miti accontentandosi del proprio pubblico, della propria gente e di chi fondamentalmente lo ama per ciò che è.

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“Diamanti Vintage” Pixies – Surfer Rosa

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Senza i Pixies noi Nirvana non saremmo mai esistiti, è la pura verità. Questo è quanto affermato da Kurt Kobain in una lontana intervista riferendosi specialmente a questo album dell’88, Surfer Rosa, l’album ufficiale che Black Francis, Joey Santiago, Kim Deal e David Lovering vollero a tutti i costi per fare sentire l’emblematico manifesto sonoro del loro stile, una eccezionale dinamite di Power-Pop, Garage e stimmate Hardcore, in modo di inibire  le altre garage band al loro passaggio. E la cosa riuscì alla perfezione, tanto che il magico Steve Albini lo produsse e lo lanciò nel mondo come un frisbee impazzito.

Sebbene solo un primo disco di carriera, i Pixies già esprimevano l’autentica folgorazione e una irrefrenabile urgenza di liberazione di andare oltre e contro, ed il loro tutto sommato Garage-Rock rodeva sotto sotto le irruenze. i riff e certe mutazioni psichedeliche di una caratterizzazione abbastanza spavalda quanto alternativa per l’epoca, fatto sta che questo disco arrivò alle orecchie di mezzo mondo, mondo che in pochissimo tempo li innalzò a “totem” di una nuova definizione musicale, ovvero i paladini del Noise-Pop. Una tracklist dalle infinite congetture, mille angolazioni d’ascolto e altrettante fusioni soniche, tredici umori elettrici brillanti e grezzi nel contempo che catturano anche- e soprattutto – per la loro anfetaminica pulsione che si  avvinghia tra melodie ed esplosioni.

La voce della Deal media dolcemente con gli amplificatori e pedaliere focose “Gigantic”, “River Euphrates”, mentre il resto della band coglie i campioni dettagliati di certi Pere Ubu, la nevrosi degli Stooges e Violent Femmes, “Bone Machine”, “Broken Face”, “Tony’s Theme” e senza farsi mancare uno spiraglio allucinato punkyes “Vamos”che stordisce per il nonsense che carica. Sconfinato successo ed un nuovo lessico amplificato, bambagia di fuoco per le fun-up  radiofoniche dei college Usa e un mix estemporaneo di lucidità, follia, alienazione e forte senso dell’humor che si impadronirà del globo rock lasciandoci sopra bei ricordi.

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Alley – Tales From The Pizzeria

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Perché Sanremo è Sanremo. Pararà! Cantava così il jingle del famoso Festival della Canzone Italiana. Il Concorso di Rockambula che ha appena decretato il suo vincitore però si chiama AltrocheSanRemo Volume2 e, per rimanere fedele al suo titolo, un jingle non ce l’ha. Possiede tuttavia una vera e propria colonna sonora: il disco del vincitore del concorso. Nel caso di questa seconda edizione il disco in questione è Tales From The Pizzeria degli Alley. Prima di procedere con l’ascolto, mi soffermo un attimo a pensare al titolo e cerco di immaginare cosa potrei mai aspettarmi da un disco che porta questo nome. Cosa saranno mai queste Storie Dalla Pizzeria? E soprattutto, ci sarà mai il modo di raccontarsi delle storie in una pizzeria considerando il rumore di piatti e la sovrapposizione di voci che caratterizza questo genere di locale? Sarà mica un disco fatto di rumore e nulla più?

E invece no. Tales From The Pizzeria comincia sottovoce, con un pezzo che si chiama “Welcome Back”, una canzone di benvenuto per  tutti, per chi suona e per chi ascolta. Alla prima chitarra, che con coraggio spezza il silenzio, si unisce il suono di tutti gli altri strumenti. Per ultima arriva la voce, suadente e decisa, a chiudere il cerchio. Finalmente posso rilassare i muscoli del volto racchiusi in un espressione di curiosità ed abbandonarmi all’ascolto. Non sarà un’accozzaglia di suoni, ma sarà Musica. Comincia a piacermi questa pizzeria. Il disco procede, tra una passeggiata (“Promenade”) e una corsa disperata (“Desperate Ride”), tra chitarre distorte in puro stile anni ’90 e un ritmo sostenuto: il sound della band è ormai chiaro, talmente chiaro che viene da chiedersi se le storie siano davvero finite tutte lì oppure o se ci sia dell’altro da raccontare.

Neanche il tempo di porsi la domanda che arrivano canzoni come “Madame Anvil”, “Brothers and Sisters” e “Joy” a cambiare le carte in tavola; il suono si arricchisce di nuovi elementi, le chitarre perdono le loro distorsioni e l’intero pezzo diventa più melodico. “Joy” ad esempio vanta anche un’introduzione che richiama un vero e proprio organo stile cattedrale. Dopo l’esplosiva “Super Cosmic Power Punch” ci si avvia verso la fine dell’ascolto. Il ritmo allenta la presa e tutto diventa più calmo, così come all’inizio del disco. Insieme a “Giona” anche la chitarra si spegne piano, le storie sono ormai finite. “Bordeaux”, bonus track del disco, è già un capitolo a parte.

Si chiamano Alley, che significa vicolo. Ma più che un vicolo la loro musica mi è sembrata una strada bella larga che fa viaggiare sicuri; una di quelle strade lunghe, che non vedono la loro fine, e sanno sempre dove vogliono arrivare.

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Alessandro Bevivino – I Corti di Verbo Nero Original Sound Track Scene Eliminate

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Un personaggio tutto da scoprire Alessandro Bevivino. Sempre pronto a stupirci con la sua carica e la sua energia artistica e propositiva. Anche in questo I Corti di Verbo Nero Original Sound Track Scene Eliminate fa praticamente tutto da solo. Testi, musiche, produzione e artwork. Più che un artista un vero e proprio arsenale d’ispirazione per lo più capace di non prendersi mai troppo sul serio, scherzando e dissacrando con intelligenza tutto il mondo che si è creato intorno. Questo disco non disco come lui stesso lo definisce è solo l’ultima (crediamo, perché non so cosa stia ancora combinando) fatica che in realtà rappresenta un modo per divertirsi e sfuggire dalla realtà. Non è un disco Metal, Western, Southern, Punk afferma Bevivino. Forse è Stoner, forse Folk Rock, forse Blues, forse Rock sperimentale aggiungo io. A dirla tutta è tante cose eppure ha un sound estremamente vintage, classico e affascinante. Dieci pezzi che mi sfido e vi invito a scoprire uno a uno, incespicando magari nelle sue follie, nei suoi richiami, nelle sue oscure profondità d’animo. Bevivino ondeggia con la sua chitarra in una danza calda come l’inferno, sputando sabbie e fumi di rituali indigeni nordamericani (“Fuga di Zakkaria W. Da Broken Pub City”) oppure facendosi trascinare in meandri rappeggianti (“Out of Control”) o ancora sciogliendosi in vortici lisergici e bollenti (“Preludio”, “I’Ma Shit Blues”), perdendosi in contorte intromissioni Glitch ed Experimental Rock (“Western Session”, “Verbo Nero”, “Minimal Cross In ‘Auge”) o accennando ritmiche quasi Punk (“Luisa And Bomber”). La sua voce riesce ad adattarsi perfettamente al ritmo che contraddistingue i pezzi, andando a convergere in timbriche stile Piero Pelù, ma anche Eddie Vedder se non addirittura Garbo (per non andare a scomodare i nomi più altisonanti della Western music a stelle e strisce). Per Bevivino un disco che è quasi solo un gioco. Ascoltatelo e capirete che ancora una volta non sta scherzando perché c’è tanta qualità anche in questi ventidue minuti di scene tagliate, compendio necessario a un film fenomenale.

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Nimby – Not in my Back Yard

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Completamente autoprodotto, Not in my Back Yard porta con se un’ottima produzione, che riesce a mantenere quell’impatto e quella vena live grezza anche all’interno di un impianto stereo. Non a caso infatti è stato registrato e mixato dal produttore artistico Fabio Magistrali (Afterhours, One Dimensional Man)presso il Parco Museo Laboratorio dell’artista internazionale Nik Spatari, col quale è nata una collaborazione per la definizione dell’artwork del disco. I Nimby sono Tommaso La Vecchia (voce e polistrumentista), Aldo Ferrara e Francesco La Vecchia (chitarre), Gianluca Fulciniti (batteria), Stefano Lo Iacono (basso), Raffaele De Carlo (flauto e tastiere) e producono del sano e grezzo Alternative Rock contaminato da Psichedelia misto Grunge, con la giusta cattiveria pestata e momenti melodici nostalgici.

Ma parliamo un po’ di queste dieci tracce, che si aprono con un quieto synth a introdurre “This Lines Among Them”, brano che parte prepotente con una batteria tutta tom e rullante e che segna fin da subito il timbro sporco della band, ricordando però attraverso la melodica voce quella voglia di riprendere le sonorità del Rock sporco americano di fine anni ’80. Ancora rumore con “Day Hospital” che aggiunge distorsioni vocali al mix sonoro, mentre con la successiva “Sleeping” le atmosfere si fanno più pacate ed elettroniche. Grezza e potente è invece “N.I.M.B.Y.”, traccia che ricordando il nome della band e dell’omonimo album fa presumere sia quella che maggiormente rappresenti lo spirito del loro essere musicale. Tra una drum pestata a modi Pearl Jam, un flauto dalle sembianze celtiche e degli intramezzi musicali nudi e crudi, le successive “Church of Reason” e “Cinema” escono vincitrici tra tutte le tracce, regalando alle orecchie un’ottima miscela sonora complessiva. Chiude il cerchio la pacata e sperimentale “Rubber Moon” in cui si fondono suoni noise, flauto, piatti, tamburi e chitarra acustica, come se Ia band abbia voluto dire all’ascoltatore: “Ok, dopo questo lungo viaggio sonoro sei giunto al capolinea, ora riposati”, e io ora mi congedo e spengo lo stereo. Amen.

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Aedi – Ha Ta Ka Pa

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Una delle più promettenti e deliziose realtà della penisola viene da San Severino Marche e risponde al nome di Aedi. A distanza di circa tre anni dall’opera prima Aedi Met Heidi, esce proprio nel 2013 il loro lavoro più ambizioso, Ha Ta Ka Pa, realizzato sotto l’ala protettrice di Alexander Hacke, basso, chitarra e voce nei mitici Einsturzende Neubauten. Tale sodalizio, si mostrerà evidente nell’evoluzione del sound della band che, messe da parte le atmosfere pastorali degli esordi, acquista un’energia e una forza eccezionale, rispetto al recente passato.
Ritmiche quasi Math si alternano a sferzate chitarristiche stile Built To Spill nel brano d’apertura “Animale”, certamente uno dei punti più alti dell’opera nel suo miscelare quel Rock alternativo anni 90 a potenza quasi crossover senza disdegnare momenti Punk Cabaret alla Dresden Dolls (vedi anche la parte che anticipa la chiusura di “Fohn”) quando il piano delirante insegue la chitarra, sullo sfondo di una voce angelica e demoniaca allo stesso tempo.

La voce di Celeste Carboni, melodiosa, anche quando alza i toni in vocalizzi mefistofelici che ricordano Diamanda Galas (“Animale”, “Idea”) riesce a essere leggera, morbida ed eterea mostrando non solo la sua timbrica affascinante ma anche discrete capacità e qualità canore.
L’importanza di Alexander Hacke, nello sviluppo del suono nuovo degli Aedi diventa palese negli episodi in cui le ritmiche si fanno tribali e assillanti e le chitarre distorte, sferzanti e taglienti (“Idea”).
I legami col recente passato, fatto di avanguardie folk e rock minimale, della band marchigiana non mancano (“Rabbit On The Road”), cosi come si possono intravedere strizzate d’occhio alla scena Indie più attuale (di scuola Arcade Fire) in pezzi come “Fohn”, brano gradevole, vertiginoso e trascinante all’ascolto ma senza il piglio innovativo che ci ha fatto apprezzare gli Aedi passati. Certamente, se preso come un intramezzo necessario per dare slancio a Ha Ta Ka Pa, è un pezzo più che riuscito, ma le cose migliori sono altre. Discorso simile per “Nero” che invece sembra riprendere le sonorità cupe e introspettive, specie nella sezione ritmica, degli ultimi Radiohead e per “Prayer Of Wind”, che tuttavia ricalca stilemi più vicini al Dream Pop (anche se la parte corale nel finale non può non far pensare ai canadesi già citati) mantenendo intatta quella vena ancestrale che pare fare la fortuna dei marchigiani. Non è quindi un semplice divertissement quest’avvicinamento alla scena Indie ma lascia lo spiraglio per una futura possibile nuova evoluzione, fortemente rischiosa da un punto di vista artistico ma che può certamente aiutare ad ampliare la fetta di pubblico interessata al sound Aedi. C’è da dire che, soprattutto grazie allo stile canoro bucolico di Celeste Carboni, la popolarizzazione del loro sound non sembra possa mai trasformarsi in mera banalizzazione, ma sarà tuttavia il futuro a darci tutte le risposte in merito.

Dopo le note leggere e dreamy di “Tomasz” arriviamo alla parte più interessante dell’album, che inizia con la spettacolare “Yaca”, fatta di chitarre acidissime, tribalismi martellanti e atmosfere lisergiche anni sessanta/settanta. La voce lucente di Celeste vibra in un’apparente monotonia ipnotica, quasi a ricordare Grace Slick e i Jefferson Airplane di “White Rabbit”. La chiusura è affidata a “The Sound of Death”, litania languida in crescendo di quasi solo voci (in questo caso Celeste non è sola), con accompagnamento chitarristico Slow/Sadcore e velatamente folkeggiante che diventa sempre più folle, distorto, pazzoide e frastornante a mano a mano che l’enfasi vocale aumenta la sua intensità. Il modo migliore per chiudere un disco che mantiene le promesse fatte cinque anni fa e che lascia nuove speranze per i talenti del nostro paese. Un disco assolutamente da ascoltare e una band da non lasciarsi sfuggire.

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Over The Edge – Held Breath

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I campani Over The Edge sono una delle realtà più interessanti della scena alternative per quanto concerne il metal condiviso con l’urgenza espressiva dell’hc melodico, una proficua congiunzione di cromaticità alla Guano Apes con le ansie spiazzanti delle L7, che in questo bollente Hedl Breath rispondono con potenti suggestioni acide e distorte che chiudono il respiro.
Quattro esasperazioni soniche che hanno nella voce di Jen Blossom l’illustrazione ossessiva della poetica malinconica e super elettrificata della loro garanzia di assorbimento, un viaggio sgolato e stonerizzato che ha nella sua densissima spirale una gelida potenza che infetta di maledizioni e oscurità una tracklist al fulmicotone, una serie di percorsi minati, emotivi e subdoli; sembrano appena usciti dal di sotto di un martello pneumatico, disegnano una strada senza ritorno verso le articolazioni a cingolo di un rock che scartavetra i timpani e lacera l’epidermide, eppure la brutalità abita da altre parti, ma il sentore di un qualcosa che alberga sotto sotto destabilizza l’ascolto, lo manipola in un bellissimo stato di grazia che ti fa rimettere su il disco all’infinito, te lo fa respirare fin dentro le sue fumigazioni sulfuree.

Undici mine innescate che forgiano un’alchimia a fusione, undici tracce che rimangono in circolo anche dopo ore dal loro turbolento passaggio, ma non solo lacerazione, anche quella dolcezza stordita alla Sandra Nasic che in “A Deep Breath” fa credere che la femminilità si riporti in angolazioni congrue e passionevoli,  ma è un feroce abbaglio, un’illusione da pagare cara quando si intercettano le armi a taglio sonoro di “Full Of Emptiness”, “Restless” o “7×7 Theory”, mentre la finale e falsa civettuola verve che gira indisturbata in “I’m Searching Myself Under my Bed” graffia in una autenticità avvincente che distacca quasi tutto il resto.
Al primo ascolto questa maestà infusa di pedaliere ti mozza il fiato, poi ti ferisce con la bellezza mostruosa del suo ghigno e ti dona la certezza assoluta di avere nelle orecchie un disco che brucia…e non c’è più nulla da dire! Da avere come l’aria che si respira.

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