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Majakovich – Il Primo Disco Era Meglio

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Come si evince dal titolo, Il Primo Disco Era Meglio è il secondo lavoro del trio umbro Majakovich. Ultimamente è molto semplice associare l’Umbria al simpatico Luca Benni e alla sua etichetta To Lose La Track, la quale ha confezionato, insieme ad altre etichette discografiche (Metrodora Records e V4V Records), questo disco. Gli alfieri indiscussi della To Lose La Track si chiamano Gazebo Penguins. Se pensi a loro è impossibile non farsi venire in mente la barba di Capra, fautore, guarda caso, del booking de Il Primo Disco Era Meglio. Tuttavia i tasselli del puzzle non ancora hanno finito di combaciare: il refrain di “La Verità (E’ Che Non La Vuoi)”, con le sue curvature Emo Rock, può tranquillamente essere scambiata per un brano dei “pinguini”. Assonanze si notano anche con il coro di “Devo Fare Presto”, simile, eppur dissimile, a “Calce” dei Fast Animals And Slow Kids, conterranei (e le coincidenze paiono non cessare mai) dei Majakovich. Attenzione però a non scambiarli per delle pallide imitazioni di band un pelo più blasonate, perché è necessario avere ben stampato un concetto nel cervello: il terzetto in questione, se ci si mette, è in grado di sovvertire addirittura il naturale svolgersi degli eventi.

Il basso granitico di “Perché Francesco Migliora”, sgranocchierà sassi finché non verrà interrotto dal tenerissimo pianoforte che introduce “Colei Che Ti Ingoia”. Praticamente la tempesta prima della quiete. Due punti focali che fanno lievitare il voto sono senz’altro i testi e le melodie dannatamente catchy. Se poi i due fenomeni entrano in rotta di collisione, ci potremmo trovare a cantare a squarciagola in coda alla cassa di un supermercato E io non me lo scordo quell’inferno. Faceva troppo freddo, ritornello di “L’Hype Del Cassaintegrato”. I quaranta minuti circa che compongono Il Primo Disco Era Meglio, vanno via che è una bellezza, sono pochissimi gli scivoloni nell’autocompiacimento. Esempio lampante, in questo senso, sono gli arpeggi infiniti posti nel finale della malinconica “Una Vita al Mese”. Ma è un’eccezione, un minuscolo neo di un lavoro che non mostra mai il fianco e non ha punti deboli evidenti.

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Laika Vendetta – Elefanti in Fuga

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Nuovo disco per i Laika Vendetta, Elefanti in Fuga racchiude rabbia e maestosa potenza, la voglia di non accettare il presente sbattuto in faccia dalle impetuose chitarre. Non è facile lasciarsi tartassare lo stomaco, un pugno dietro l’altro, sentori di Hard Rock anticipano sensoriali atmosfere Stoner. Il Rock bello deve picchiare duro nella sostanza ma soprattutto nella forma, i Laika Vendetta spiegano minuziosamente la loro lezione di “ribellione”. Apertura dura con “L’Ineluttabile”, Alt Rock tipicamente italiano, il sapore degli anni novanta sulla bocca, il pezzo tira dritto com’è giusto che sia. Niente di riscaldato nella mia minestra, il forte dissenso espresso nel testo (testi in italiano) viaggia perfettamente in armonia con la mia moderna visione della vita. Dire condizione di vita di merda è fare complimenti. Intima ed arpeggiata la successiva “Milano Roma”, il brano cresce quasi subito, dolce violenza. I suoni non sono freschi ma l’apporto delle dure chitarre rimedia una situazione d’avanguardia non troppo presente. Avete presente i chitarroni dei One Dimensional Man quando erano ancora vivi? Subito cattiveria in “La Sposa di Fango” (ispirata all’omonimo racconto di Emidio De Berardinis), l’aria si mantiene pesante per tutta la durata del pezzo. Perché se non è ancora chiaro i Laika Vendetta picchiano decisamente forte e gridano disagio senza precauzione. Ho sentito il fiato di Cristiano Godano nella morbida (per quanto possa esserlo) “Inverno Estate”, sarà l’impressione ma qualcosa mi ha portato direttamente verso quella direzione. Ho apprezzato incondizionatamente il suono del basso, diamante grezzo dell’intero brano. “Labile” parte benissimo e qui il titolo stesso riporta ai MK più vecchi e credibili possibile, non trovo entusiasmo e lascio scivolare senza pretese. Sarà quell’attaccamento così conformato alla scuola alternativa italiana, sarà che per sentirsi vivi serve ben altra roba. Ecco “Elefanti in Fuga”, un pezzo scritto di pancia, armonie Progressive e razionalità da vendere.

I Laika Vendetta per la prima volta durante il disco riescono ad osare con successo. Ballatona d’amore violento, sentimento e follia, è il momento di “Samsara”, il ciclo della vita, della morte e della rinascita. Non c’è niente da fare, la parte migliore di questa band è l’espressione della potenza, in “Samba Generazionale” tutto questo viene fuori nonostante il passo non presenti esagerate vocazioni compositive. C’è chi nasce per fare bordello. Il disco si lascia condurre fino alla fine, la chiusura affidata ad una melanconica “Kali allo Specchio” rilassa i nervi tenuti sotto tensione per l’intera durata del disco. Immaginate davvero degli elefanti in fuga, pensate al frastuono prodotto, al caos generato, alla disperazione. Ecco cosa si prova dopo avere ascoltato questo lavoro. Tante cose belle e pochissime brutte, i Laika Vendetta ti entrano bastardi nelle viscere e non sarebbe affatto male lasciarsi prendere. Non hanno niente da invidiare a tante super affermate band nostrane, Elefanti in Fuga mantiene viva la tradizione dell’Alt Rock italiano. Guardatevi intorno e trovate di meglio se riuscite a farlo.

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La nuova promessa della Sub Pop in Italia

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Lyla Foy è la più recente aggiunta al roster della Sub Pop Records. Una giovane londinese, che è riuscita ad impressionare l’etichetta di Seattle con la sua musica: lanciata da “No Secrets” è diventata in fretta una beniamina della radio inglese, spinta da Steve Lamacq che ha dichiarato la sua “Magazine”, migliore canzone del 2012. Da lì, l’arrivo in America, sulle pagine online di Pitchfork che apprezza moltissimo la sua cover di “Something on Your Mind” di Karen Dalton. Il 2013 segna l’arrivo del suo EP d’esordio, Shoestring e la firma per Sub Pop. Lyla sarà in Italia per presentare il suo full lenght, Mirrors the Sky, il 13 maggio al Circolo Magnolia di Segrate in provincia di Milano. Non mancate!

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Cosmic Box: il nuovo disco

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Riceviamo e pubblichiamo:
Dal 21 Gennaio 2014 disponibile in tutti i negozi digitali l’Album L.B.S. (Last Broadcasting Station) dei Cosmic Box distribuito e promosso da ALKA record label, che conta dieci tracce tra cui il brano estratto come singolo “New Way Home” in rotazione radio. Il nuovo disco esce dopo 4 anni dall’esplosivo esordio discografico dei Cosmic Box con l’EP “Not Better… Simply Differet” del 2010, grazie al quale la band si è messa in mostra trascinata dal singolo “Closer”, con il quale ha saputo ritagliarsi il proprio spazio nel panorama indipendente. L.B.S. (Last Broadcasting Station) è batteria pulsante, basso energico e distorto, sostengo un tappeto di chitarre ruvide dalle eleganti armonie, dando corpo e spessore ad una voce calda ed intensa dai testi sempre all’altezza… uno sguardo, un punto di vista ricco di emozioni. Un disco rock per palati fini.

Di seguito il videoclip:

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Lantern – Diavoleria

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Si può solo tentare di essere brevi con i Lantern, non fosse altro per rispetto della loro estrema capacità di sintesi. Ficcare in otto brani, la cui durata media si attesta sui due minuti o poco più, un’ansia comunicativa intensa e ruvidissima, e insieme una capacità d’analisi anche, a sorpresa, poetica e sensibile: questo il ragguardevole traguardo che riesce a raggiungere Diavoleria, il loro primo album. “Annunciando il nostro oblio abbiamo progettato la nostra solitudine. Come astro-ingegneri edifichiamo mondi e varchi siderali. Non ricordo le facce, confondo le storie di serate passate a dimenticare di fingere di volere ogni cosa diversa da te”. Si apre così Diavoleria (“Inferno a Rotta di Collo”) e già constatiamo un gusto e una leggerezza sorprendenti, che si mescolano (emulsionano, sarebbe la parola adatta) con un mare di schiaffi sonori, distorsioni vibranti, batterie devastanti.

Il disco, nelle sue otto tracce, racconta spiragli di mondo, ci prende allo stomaco, ci scuote, ci racconta attimi, adolescenze, sogni, fallimenti (altro che I Cani). Ci dice tanto, con pochissimo: “Nasciamo nudi moriamo in stracci argento e lustrini e sangue e sangue” (“Il Segreto Delle Ragazze”); “Se non inventiamo più il mondo, che resta? Dimmi, che resta? Ora che tutto è svanito e lo scheletro sotto la roccia sono io, che ho sempre creduto non lo saprai mai” (“Mucchio d’Ossa Cobberpot”); “Cerco nuove gocce nel mare, faremmo prima a lasciarci annegare” (“L’Invincibile S50”). C’è ancora qualcosa da pulire, è vero: ogni tanto si cade nell’autocommiserazione, quasi compiaciuta, nella storiella da ricatto emo-tivo. Ma è una macchia accettabile in un dipinto dalle pennellate così furiose, così dense. I Lantern accompagnano le loro vicissitudini con un impianto feroce, intenso, caldissimo. Voci sgolate, attimi di vuoto ad intervallare colpi sotto la cintura, unghie alla gola, tensione e sudore di un Post Hardcore molto convincente. Come spesso accade quando si parla di questo genere di musica, ogni tanto si subisce una dissociazione tra la leggerezza (in senso calviniano) delle liriche e la pesantezza dell’impianto vocale, che avanza per la sua strada e avrebbe lo stesso impatto anche cantando grammelot e facendoci comunque leggere quei testi su un foglio, a fine corsa. È, credo, l’unica cosa che impedisce ad un gruppo del genere di diventare veramente popolare (per il resto, c’è proprio tutto: storie, intensità, carica generazionale, e, miracolosamente, un buon grado di orecchiabilità, non orecchiabilità Pop, ovviamente).

Un buonissimo disco d’esordio, inframmezzato da estratti da “Crimini e Misfatti” di Woody Allen su religione ed etica, che ci fa vedere in controluce uno spessore ricercato e quasi raggiunto. Uno spessore di cui c’è un grandissimo bisogno, e che speriamo i Lantern proseguano nel ricercare anche nel futuro, regalandoci un seguito più focalizzato ma altrettanto sincero. Glielo auguriamo (e ce lo auguriamo) con tutto il cuore.

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TOY – Join the Dots

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Continua la già lunghissima tradizione inglese di band Psycho Pop, che affonda le proprie radici almeno ai Beatles di “Lucy in the Sky With Diamonds” o “I Am the Walrus”, e che attraverso miriadi di (più o meno riusciti) epigoni giunge fino al 2013 e a questo Join the Dots dei TOY. Secondo album per la band di Brighton, Join the Dots è senz’altro una conferma: un album (nonostante le apparenze e certe linearità ritmiche e vocali) divertito e divertente, che ci proietta in un mare sonoro dall’orizzonte lontanissimo e molto, molto colorato. Si potrebbero (e si possono) passare ore a navigare sui soundscape azzeccatissimi in cui i TOY annegano i loro brani (“Endlessly”, o l’inizio della title-track, o, ancora, l’intera opener “Conductor”, 7 minuti di naufragio sonico). Si sente, oltre alla psichedelia in senso lato e allo Shoegaze più onanista, anche un richiamo all’Elettronica vintage, negli artifici retrò (arpeggiatori e simili) e nelle linee di batteria drittissime e ossessive, da drum machine: una realtà che si sposa benissimo con tutto il resto del marasma, e che ci porta sempre più nel mare aperto di un mandala musicale che ruota su sé stesso e che racchiude un mondo di sensazioni e pulsazioni emotive, più o meno leggere, in cui vorremmo perderci senza possibilità di ritornare.

Penso abbia anche poco senso cercare di descrivere un disco del genere: non perché sia un disco bellissimo (non lo è necessariamente), ma perché è un disco di cui va fatta esperienza, che prende vita nelle pieghe della coscienza, quando si rifrange nel nostro piccolo universo personale e ci ruba, ci rapisce, ci trascina altrove. Come luce in un cristallo, e il cristallo siete voi, e il riflesso, il brillare, dipende anche dalla vostra personalissima forma. Di dischi come questo Join the Dots si può dire, al massimo, se sono suonati bene, se le canzoni filano, se la produzione regge, se la band sa fare il suo mestiere. Su questo non ho dubbi. Sul resto, lascio la parola a voi. Tappatevi il naso, prendete un bel respiro e buttatevi tra le onde dei TOY, poi sappiatemi dire.

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La Luz in Italia

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Il quartetto tutto femminile di Seattle, La Luz, arriva in Italia per presentare il disco d’esordio, Damp Face, uscito dopo solo un anno e mezzo di carriera. Le ragazze si esibiranno:

lunedì 14 Aprile 2014
al GARAGE di GENOVA

martedì 15 Aprile 2014
al ROCKET di MILANO

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Arcade Fire – Reflektor

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Skippando a piè pari i 10 minuti della hidden track iniziale, sono andato subito alla traccia numero uno “Reflecktor”, canzone che da il nome al nuovo e quarto album in studio degli Arcade Fire. Spinto dalle prime note caratterizzate da un groove danzeresco (audio doverosamente a palla) mi sono alzato e incamminato lungo il corridoio di casa con un’andatura lenta ma ritmata e sicura. Con una giravolta alla Derek Zoolander (chiaro, verso destra) mi sono diretto in cucina e tra un movimento pelvico  e l’altro mi sono fatto un caffè, in scioltezza e sempre danzando sentendomi figo che manco George Clooney. “Prende questo sound!” ho pensato. Non avendo ancora capito assolutamente niente della canzone perché troppo intento a sentirne le vibrazioni, ho messo la tazzina nel lavandino e mi sono ridiretto zompettando verso la camera per ascoltare più attentamente l’album e scrivere due righe per Rockambula. Ebbene, a fine ascolto (un paio di ascolti per la verità) il mio pensiero è stato questo: ”Dopo aver spaccato le palle per mesi con una campagna pubblicitaria continua (aggiungo ora: prassi, che non amo molto, ma che sta oramai diventando sempre più comune nel mondo della musica mainstream dai Daft Punk, per esempio, ai Pearl Jam), è questo il tanto ostentato ed atteso lavoro degli Arcade Fire? Beh, allora ben vengano tutte le strategie di marketing invasive possibili, se portano a lavori del genere, perché l’album non spacca le palle, spacca e basta”.

Un’opera molto più elettronica e corposa, un misto di Funk Rock, elementi Reggae, Dance- Hall con influenze tribali nate dalle percussioni di stampo Haitiano, paese d’origine di Regine Chassagne e dai frequenti viaggi in Giamaica, luogo dove la band ha registrato tra l’altro, l’album. Un disco doppio piaciuto ai molti e criticato dai pochi che ne hanno visto un lavoro troppo laborioso, caratterizzato da eccessive percussioni e dall’inutile aggiunta di strumenti nuovi quali, per esempio, il sax. Uno stato confusionale, insomma,  che porta a mischiare percussioni e strofe in lingua francese al classico sound disco anni 80.  I soliti che non riescono mai a concepire evoluzioni, cambiamenti e voglia di sperimentare di una band ma che si aspettano sempre la copia dei primi album. Noiosi. La bellezza di Reflektor sta proprio nella sua diversità e novità. È un album ricco dove il gruppo canadese si inerpica per selciati sperimentali un po’ più lontani dal loro standard, mettendosi alla prova, sbattendosene e regalando qualcosa di diverso. Il prodotto è energico, ridondante, piacevole e dove lo zampino di James Murphy (LCD Soundsystem), specialmente in pezzi come “Reflektor” e “Here Comes the Night Time”, si fa sentire eccome.

Una band seria che risulta divertente, senza però mai abbandonare il lato oscuro della loro musica, quel dark che li ha sempre caratterizzati; a partire dalla copertina: il dramma di Orfeo di Rodin che cede alla tentazione di voltarsi e guardare Euridice destinandola all’Ade. Per non dimenticare poi le menate, che tanto piacciono a Win Butler, Kierkegaardiane e che ci permettono, citando appunto il filosofo danese, di descrivere al meglio l’opera della band: ”Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere.” L’album narra di mali esistenziali, di amore, delle difficoltà nello stare insieme, delle moderne crisi di relazione e della ribellione contro l’affermazione di se stessi, il tutto con un linguaggio molto accessibile. Lungo? Onestamente un po’ si, soprattutto alcuni pezzi, come l’intro, “Awful Sound” oppure “Supersymmetry” che tendono ad appesantirlo leggermente, anche seò mettono ancora di più in risalto le tracce più brevi ma belle cariche come “Normal Person” o “Flashbulb Eyes”.  Noioso? Proprio no, sempre ricco di suoni interessanti, pieni, sensati nella loro mescola e coinvolgenti lungo tutto il percorso dell’album.

La classica opera da ascoltare donandogli le giuste attenzioni, ma al tempo stesso possibile colonna sonora delle nostre faccende quotidiane da stoppare, riprendere e magari skippare su qualche pezzo. Il risultato sarà sempre e comunque ottimo. Ascoltatelo e basta. Se potete, fatelo senza l’utilizzo di cuffie o auricolari ma lasciate che il sound invada i vostri timpani e la vostra casa globalmente. Ciò che vi rimarrà sarà sicuramente la sensazione di aver ascoltato uno dei migliori album del 2013, e se non avete idee per i regali di Natale e conoscete qualche sciagurato che non ha ancora comprato o ascolta questo disco, eccom fategli il giusto presente. Pure Gesù bambino sarà contento. E così sia.

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Calibro 35 – Traditori di Tutti

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Quattro musicisti nella stessa stanza; chitarre fuzz, organi distorti, bassi ipnotici e funky grooves riempiono l’atmosfera. Luca Cavina, chitarra e basso, Enrico Gabrielli, organi e fiati, Massimo Martellotta, chitarra elettrica e lapsteel, e Fabio Rondanini, batteria e percussioni, formano i Calibro 35, gruppo italiano (milanese) il cui progetto prende vita sotto i loro stessi occhi. Un progetto che segna la loro carriera e il loro modo di fare musica, soprattutto musica per le immagini. Quindi colonne sonore dedicate ai polizieschi e action thriller con cover e brani originali che sottolineano l’intenzione e la capacità del gruppo di ricreare atmosfere e mondi che talvolta nei film si danno per scontato ma che alcune volte fanno il film stesso. Dunque i Calibro 35 iniziano la loro carriera dove molti gruppi italiani non riescono nemmeno ad arrivare e cioè all’estero: Lussemburgo, Belgio, Stati Uniti. Registrano Eurocrime, documentario americano sui polizieschi italiani, il loro primo album Ritornano Quelli Di…, l’intera colonna sonora del film Said e alcuni brani per i film Gli Angeli del Male, La Banda del Brasiliano e Romanzo Criminale. Nel 2010 esce Rare, raccolta di musiche da film, b-side, versioni alternative e inediti dell’archivio della band e nel 2010 è la volta dell’album Ogni Riferimento a Persone Esistenti o a Fatti Accaduti è Puramente Casuale, contenente dieci brani inediti e due cover, e l’ep Dalla Bovisa a Brooklyn che si muove come sempre tra cover, originali e una storia a fumetti del gruppo.

Finalmente il 2013 porta Traditori di Tutti, uscito in Italia il 21 Ottobre e da Novembre anche in Giappone. L’album è formato da dodici tracce che vivono e riecheggiano le atmosfere poliziesche e filmiche quasi soprattutto degli anni settanta. A primo acchito si potrebbe pensare che sia musica troppo settoriale ed in effetti si percepisce una certa malinconia di quegli anni, il che però non guasta dato che quello fu uno dei periodi più prolifici per la storia della musica mondiale. Ed infatti leggendo qualche loro intervista quella degli anni settanta non viene percepita come una fissazione assoluta ma come un momento da cui partire, come un esempio da tenere ben a mente per poi fare qualcosa di proprio ed in qualche modo originale. Appena si clicca play il “Prologue” ci trasporta in una sorta di atmosfera west abbandonata subito in “Giulia Mon Amour” nella quale si concretizza la loro tecnica spiccata che a quanto dicono è frutto solo della conoscenza dei loro strumenti, dell’atmosfera e dell’improvvisazione che è il punto focale. Ma il pilastro di tutto il lavoro è certamente Traditori di Tutti di Giorgio Scerbanenco, romanzo del 1966 che racconta le indagini che stanno dietro all’annegamento di Silvano e Giovanna. Giovanna è una giovane donna costretta a sposare un uomo che non ama e a ritrovare la sua perduta verginità grazie a un delicato intervento. La sua fine però non avviene con il matrimonio-farsa ma con una crivellata di proiettili e l’annegamento nel Naviglio.

Una Milano e un’Italia violenta e crudele che traspare come uno specchio negli inseguimenti Funky tra gli strumenti (“You, Filthy Bastards!”), nella tensione Rock delle percussioni (“Stainless Steel”), nel fitto vintage delle tastiere (“Vendetta”) e nella psichedelia più spiccata (“Mescaline 6”, “AnnoyingRepetitions”).

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Ångström – Ångström

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La forma canzone è probabilmente una delle più meravigliose e poliedriche modalità espressive che il genere umano sia riuscito a produrre. Siamo abituati quotidianamente ad approcciarci a questa forma spesso ben definita e strutturata in parti riconoscibili. Facile districarsi tra strofa, ritornello,strofa, poi ti passa sotto le orecchie l’EP di una band particolare fin dal nome e sei costretto a uscire e rinnegare l’amato schema. Gli Ångström con il loro EP omonimo letteralmente si tirano fuori da qualsiasi logica mainstrean, per realizzare quattro tracce che spazzano via regole e sistemi facendosi portavoce di un approccio creativo e di scrittura privo di sistematicità, che si lascia trascinare da suggestioni, immagini, emozioni, storie reali e irreali, e molto altro.

La prima traccia “Godard” ci proietta in un tempo indefinito, in uno spazio stellare di una galassia lontana, un tempo immobile, freddo, nella quala risuona una voce robotica e artificiale che si sovrappone a  un delicato sussurro che proviene dal lontano 1967 e precisamente dal lungometraggio “2 ou 3 choses que je sais d’elle” di Jean-Luc Godard, uno degli esponenti più importanti della Nouvelle Vague.“The Third World Is You” scalda l’atmosfera gelida e la solitudine di “Godard”, per sei minuti circa, con chiarre dagli infiti delay e ritmi più affini al calore e ai suoni del mediterraneo.Il terzo brano “Scalar” schiaccia il piede sull’acceleratore riportandoci a terra in una nottemetropolitana,tra melodica e movimento, dal sapore retròfatta di inseguimenti e rincorse per colcudersi, forse, con un alba, un caffè. E una sigaretta arrotolata.

“You And I For Hundred Miles” è l’ultima ed unica traccia con un cantato più presente, che più si avvicina ad una canzone tradizionale o che fa pensare di esserlo. Proprio nel momento in cui ci si apetta un ritornello, infatti, si viene travolti non dalle parole,ma dalle note di un saxsofono. Romantica, appassionata, cullata dalle chitarre acustiche, questo brano ci lascia un’intensa storia d’amore che dura il tempo di 100 miglia. Per gli Ångström, che prendono il nome da un fisico svedese, tra i padri della spettoscropia, gli anni a cavallo tra i 60 e i 70, e il fermento che li hanno rappresentati, sono senza dubbiio una grande fonte di ispirazione. In linea con lo stile in cui si muovono propongono un’esperienza musicale composta perlopiù da brani strumentali con sporadici momenti di cantato. La scelta è coraggiosa in quanto diventa meno accessibile ad un pubblico più vasto, ma apprezzabile per l’approccio personale e moderno. Un buon risutato, interessante e suggestivo, e decisamentefuori dal coro.

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Grammophone – Multiverso

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Ho avuto un attimo di smarrimento mentre tentavo di definire il genere di musica che suonano i Grammophone, quintetto campano che ha appena prodotto questo denso Multiverso. C’è indubbiamente una forte carica Rock a sottendere tutto, ma un paio di elementi caratteristici riescono a dare alle loro canzoni un taglio molto particolare.

Innanzitutto, la voce: intensa, potente, morbida, vicina più al bel canto che al Rock, che in qualche ritornello ci porta addirittura nella zona del Pop melodico italiano – ma quello fatto bene, anzi, benissimo (“Nell’Incanto”). Poi, la presenza sottile ma costante del pianoforte, strumento che più di una volta contribuisce a mettere in luce profili inaspettati e “laterali” di una band che comunque già di suo possiede un tiro sostenuto, un respiro travolgente (l’intro di “Segreto”).

In questa commistione di potenza sonora e morbidezza atmosferica, di totalità nervose e dettagli accoglienti, i Grammophone trovano la loro strada, e una chiave universale all’approccio verso il pubblico, che può godere delle melodie carezzevoli di voce e pianoforte e, insieme, della forza d’impatto di una sezione ritmica trascinante e di una chitarra trasformista ed essenziale. Una strada molto poco italiana, ma che potrebbe essere il punto di forza di Multiverso, disco ibrido, sospeso tra una vocazione innata al rumore e un’evoluzione naturalissima verso la melodia e il romanticismo, ombroso e sanguigno. Una terra di mezzo tutta da esplorare.

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Le Strade – In Fuga Verso il Confine

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Le Strade, un nome molto comune ma che accomuna le vite di quattro musicisti, Alessandro Brancati, voce e testi, Davide Baldazzi, chitarre, Gigi Fanini, basso, e Alessandro Soggiu, batteria e percussioni, che nel 2013 escono con il loro primo lavoro ufficiale. Un esordio quello de Le Strade dal titolo sincero e in questo periodo molto veritiero In Fuga Verso il Confine. Un confine oltre il quale si sogna la libertà, la dignità e soprattutto la consapevolezza di un popolo in declino come quello italiano.

Un Ep che percorre le strade dell’Indie Rock Alternativo, da tutti definito ottimo per il grande potenziale sonoro. “In Fuga Verso il Confine” è anche la prima traccia del disco. Una traccia energica, ritmica, condita da cori e giochi armonici che la rendono la più interessante dell’intero lavoro. Secondo brano è “Aperti al Moralismo” che oltre a confermare quello già detto in precedenza sottolinea maggiormente la via intrapresa che svincola in “T.H.Y (Tell Him, You)” sempre ritmico, travolgente, con cori che non disturbano nella maniera più assoluta, aggiungendo quel quid in più in un brano cupo e notevole nel quale si urla il presente. Suoni arabeggianti fanno capolino nel penultimo pezzo “La Mia Ricerca Della Felicità” che risulta interessante soprattutto nelle parti strumentali che desiderano essere sviluppate. “Il Pezzo” chiude questo lavoro in un modo marcatamente malinconico da definirlo, come già è stato fatto, una sorta di requiem finale che chiude una vita già piena.

Un esordio assolutamente soddisfacente per il gruppo bolognese che dimostra una buona propensione al Rock classico per immergersi totalmente in quello Indipendente italiano, una maturità non indifferente sia per quanto riguarda i testi definiti più e più volte impegnati e sia nella coniugazione tra gli strumenti che risulta ottimale. Un buon inizio, risultato di un lavoro ben fatto e di una propensione comunicativa ben coltivata. Parecchi complimenti a Le Strade che dovrebbero servire a continuare con più forza il percorso intrapreso, senza sedersi sugli allori.

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