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I DISCHI CHE NON TI HO DETTO | Italia sintetica

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I confini tra Rock ed Elettronica sono ormai estremamente labili e da tempo la materia sintetica si insinua anche nelle produzioni nostrane, contaminando e rinnovando la tradizione cantautoriale o rinnegandola totalmente con lo sguardo proiettato oltre i confini della Penisola.
Tra le uscite degli scorsi mesi di questo 2016 abbiamo selezionato alcuni dischi in cui, sebbene giochi di volta in volta un ruolo diverso, la componente Elettro è di certo essenziale e imprescindibile.

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President Bongo – Serengeti

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Perché un artista islandese dovrebbe narrare in note terre tanto lontane fisicamente e idealmente? La risposta è nella definizione che Stephan Stephenson (suo vero nome) si è cucito sulle spalle: lui è un carpentiere emozionale e in quanto tale non può che superare ogni sorta di limite per costruire addosso a ognuno di noi l’emotività voluta. Se a qualcuno il nome President Bongo non ha detto nulla, considerando anche che questo è un disco d’esordio, il succitato nome di battesimo dovrebbe ricordarvi una band fondamentale per l’Elettronica nordica che si è sviluppata dai Novanta. Il nostro President è stato, infatti, dalla formazione al 2015 uno dei membri dei GusGus, band di Reykjavik che ha brillantemente esplorato territori vasti dall’House alla Techno, dal Trip Hop all’Elettronica passando per il Pop più “sintetico”.

Se non lo avete capito dall’incipit, Serengeti (disco uscito nell’ottobre 2015 ma, in edizione italo-francese con bonus, nel 2016) narra dell’Africa e, più nello specifico, dell’annuale e mastodontica migrazione dei mammiferi nella regione orientale del continente, raccontando attraverso una miscela molto aderente al concetto dell’opera, la ciclicità eterna di tale spostamento, in apparenza sempre uguale a se stesso ma in realtà ogni volta difforme a causa di diverse condizioni climatiche e non, piccole variazioni che rendono ogni esperienza unica. Quasi a esprimere e ampliare uno dei concetti fondamentali di Eraclito, President Bongo vuole esprimerci tutta la forza del mutamento, del cambiamento e del divenire anche quando l’apparenza sembra suggerire un’illimitata reiterazione del momento.

Per esprimere tutto questo, l’artista islandese sceglie strumenti tutto sommati simili a quelli usati nel progetto GusGus ma il risultato è certamente differente, molto più teso verso un’Ambient e un’Elettronica old style, di chiara ispirazione Eno e con elementi etnici e Afro Jazz che tanto ricordano i Dead Can Dance, oltre ad elementi Folk, Blues e Neo Classic (“Levante”) ed è proprio questa varietà che finisce per fare da legante tra le terre gelate del nord e il Serengeti.

Nonostante i pezzi siano stati scritti tra paese d’origine, New York e Berlino, il riferimento al continente nero non è solo frutto del suo ingegno ma deriva anche dall’esperienza che l’autore ha fatto su queste terre cariche di vita e musica ancestrale; e la scelta di questa terra è anche un omaggio alla sua musica che in fondo è la genesi di tutto quello che abbiamo oggi.

In atto di ossequio all’Italia, gli otto brani che rappresentano un diverso momento di questa grande migrazione, a volte attimi, a volte intere giornate, hanno tutti il nome di venti italiani (l’autore è affascinato da come ogni nostro vento prenda nome diverso secondo la provenienza cardinale) e lo stesso nome non è stato scelto a caso ma con riferimento alle caratteristiche del vento stesso e a come queste si legano con il suono del brano.

Serengeti è un disco complesso nella sua genesi e non semplicissimo all’ascolto, variegato e multiforme, la cui descrizione è fondamentale per comprenderlo al meglio. Allo stesso tempo è opera di pregio assoluto, con alcuni spunti strepitosi, decisamente in grado di esprimere tutto quello che si era preposto in fase di scrittura. Non aggiungerà molto al panorama nel quale possiamo inserirlo ma il pregio e la cura con cui è realizzato e la resa all’ascolto ne fanno uno dei migliori dischi dell’anno passato che noi poveri italiani possiamo goderci nell’anno in corso.

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Fast Listening | Luglio 2016

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Le Larve – Non sono d’accordo (Cantautorato, Rap) 6,5/10
Ispirato, audace e incazzato: Non sono d’accordo de Le Larve, al secolo Jacopo Castagna, è proprio così. Il suo cantautorato in-opposition sa di rabbia verso la società e la falsità di certi rapporti umani. Un fiume in piena colmo di spunti interessanti ma che avrebbe bisogno di essere arginato quel tanto che basta per esprimere al meglio tutto il proprio potenziale.  Da non perdere “Fantasmi” e “Quello che sono”, con il prezioso feat. di Chiara dello Iacovo.

[ ascolta “Fantasmi” ]

The Great Saunites – Nero (Heavy Psych) 6/10
Più meditato dei suoi predecessori, Nero, suite di 35 minuti divisa in tre parti, conferma l’ossessione dei lodigiani per il tribalismo e per la circolarità del suono, andando però a perdere un po’ troppo in fisicità, soprattutto lungo i 19 minuti dell’iniziale title-track. Funzionano meglio i due successivi movimenti (“Lusitania” e “Il Quarto Occhio”) ma ci si trova in definitiva di fronte ad un lavoro che ad ascolto concluso non ci lascia dentro grandi tracce di sé, risultando meno scuro e misterioso di quanto probabilmente si sarebbe voluto. Insomma, un piccolo passo indietro per due musicisti che comunque non si discutono.

[ ascolta “Lusitania” ]

The Star Pillow – Above (Ambient, Drone) 7/10
Registrato al Btomic (storico locale spezzino chiuso ad inizio anno) davanti al solo Jacopo Benassi (tra i proprietari del locale),  questa nuova fatica del toscano Paolo Monti è una cosmica escursione chitarristica Ambient-Drone. Un intimo viaggio nel buio siderale dalla durata di 48 minuti suddivisi in 5 coinvolgenti tracce, morbide, sognanti, crepuscolari, abissali e cinematiche che rappresenta indubbiamente uno dei migliori dischi nel genere firmati da un artista italiano in questo 2016. Ad impreziosire il già pregevole lavoro, prodotto da Time Released Sound, troveremo nell’edizione limitata il CD inserito nel box di una pellicola Kodak del 1969 (anno dello sbarco sulla Luna di Neil Armstrong) ed all’interno della confezione foto originali della NASA scattate in quello stesso anno.

[ ascolta “Sleeping Dust” ]

Le Scimmie – Colostrum (Doom Metal) 6,5/10
Formazione nuova (ingresso di Simone D’Annunzio all’effettistica oltre che un cambio dietro le pelli dove ora siede Gianni Manariti) e nuova forza espressiva per la band di Vasto. Lontano dal poter dirsi originale, Colostrum è comunque un disco che libera una grande potenza e che, anche grazie ai nuovi componenti della band, riesce a fissare e descrivere meglio le atmosfere del trio guadagnando in densità e tensione, risultando indubbiamente superiore al precedente Dromomania. Un buon passo avanti ed un convincente lavoro per la band capitanata dal chitarrista Angelo Mirolli.

[ ascolta “Crotalus Horridus” ]

Mesarthim – Isolate (Atmospheric Black Metal, Doom, Elettronica) 6,5/10
I growl lontani e riverberati non sporcano più di tanto questo disco di Black Metal travestito da Post-Rock atmosferico (o è il contrario?). Sono ambienti distesi e armonie avvolgenti quelli attraversati dai Mesarthim con le loro chitarre ultra-distorte, i loro assoli retrò e le loro batterie col doppio pedale continuo, in un mistone di rilassatezza e tensione che pende forse più verso la prima che verso la seconda. Qua e là spuntano persino curiosi arpeggiatori, synth frizzanti e pianoforti lievi, in un crossover Metal-Ambient che ricorda qualcosa dei Junius e che incuriosisce più del previsto.

[ ascolta “Declaration” ]

Dubioza Kolektiv – Happy Machine (Balkan, Ska-Punk, Dub, Hip-hop) 7/10
Gruppone bosniaco ribelle che mescola stralci di musica tradizionale e generi alternativi per cantare dai bordi d’europa la voglia di un mondo diverso, con pochissimo cinismo e tanta fame di cambiamento e festa. Il disco è divertente, ballabile e intenso: pur senza inventare granché, riesce a rimanere interessante mescolando suoni e culture in un marasma che, nel caos, coinvolge facilmente. Con partecipazioni di, tra gli altri, Manu Chao e Roy Paci.

[ ascolta “No Escape” ]

Fiumi – The Fat Sea Time (Indie Rock) 6/10
Dopo due EP e una  decennale esperienza sui palchi i Fiumi ci presentano il loro primo disco. E lo fanno molto bene, offrendo dieci tracce variegate e godibili. La matrice di partenza è un sound ispirato agli anni 90, ma che sa essere moderno, giocando sapientemente a volte con la psichedelia, a volte con sporcature di elettronica o lievi distorsioni.  Un disco che riesce trasmette con leggerezza un senso malinconico, che ti avvolge con piacevolezza ed equilibrio, mai eccessivo e mai carente nell’ispirazione.

[ ascolta “In The Noise” ]

Monaci del Surf – Vol. 3 (Surf Rock) 5/10
I Monaci del Surf sono degli ottimi musicisti e degli ottimi performer che fanno scatenare il pubblico a botte di surfer riff. Il loro terzo capitolo non si discosta dai precedenti lavori ed composto completamente da cover riadattate in chiave surfer. Ce n’è per tutti i gusti, dai Nirvana ai Depeche Mode, agli Offspring, senza dimenticare la madrepatria con Donatella Rettore e Nicola di Bari. Come tradizione vuole per i Monaci del Surf è vietato prendersi troppo sul serio quindi, tra la cover della sigla di Game Of Thrones a “Sognando la California”, mettete le cuffie e let’s surf.
[ ascolta “California dreamin’ “ ]

Alessandro Sipolo – Eresie (Cantautorato, Folk) 6,5/10
Sipolo è un cantastorie d’altri tempi, dalla voce suadente e dalla penna fine, e il suo Eresie un concentrato di atmosfere: Folk, soprattutto, ma anche Manouche, Blues, Rock e latine, impregnate sempre di una forza lirica e una coerenza ideale degne di ammirazione. Raffinato e multiforme, capace dell’intensità dolorosa di “Tra Respirare e Vivere” e dello sberleffo ironico di “Comunhão Liberação” con la stessa credibilità, soffre un po’ il cliché del Folk impegnato (Modena City Ramblers, Bandabardò) ma riesce spesso ad arginare il déjà vu grazie a uno sguardo che dimostra di possedere, qui e là, una sensibilità non comune.
[ ascolta “Comunhão Liberação” ]

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Julianna Barwick – Will

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Dopo i buoni riscontri ottenuti con The Magic Place, lavoro minimale per piano e voce, e col successivo Nepenthe, registrato in Islanda da Alex Somers, dove il suono si faceva più ricco grazie alla collaborazione dell’ensemble d’archi delle Amiina e del chitarrista dei Múm, Julianna Barwick torna con questo Will, album piuttosto atteso per quanto uscito in un periodo nel quale pagare dazio ai vari Radiohead, James Blake ed Anohni risulta pressoché inevitabile.
In questo nuovo lavoro la Nostra torna a scrivere e produrre da sola, senza però farsi mancare il sostegno, in svariati brani, del violoncello di Maarten Vos, dell’elettronica di Thomas “Mas Ysa” Arsenault (presente in un paio di episodi anche alla voce) nonché della batteria di Jamie Ingalls nel pezzo conclusivo del disco.
Il canto, che per la Barwick è un linguaggio etereo e simbolico (difficile riconoscere parole se non qualche titolo dei brani) ma assolutamente capace di farsi a suo modo graffiante (come se su esso, per dirla alla Fernando Pessoa, o se preferite alla Bernardo Soares, aleggiasse la minaccia di un temporale che però infine si verificaaltrove), in questo disco si fa meno centrale, completamente immerso nelle textures realizzate dal Minimalismo strumentale andando così a creare un effetto, se possibile, ancor più evanescente che in passato.

Registrato in perenne viaggio, isolandosi in luoghi più o meno desolati tra Stati Uniti e Portogallo, Will vive di questa propulsione risultando volutamente meno compiuto e definito dei precedenti lavori dell’artista di Brooklyn ma, nonostante questo senso di incompletezza, indubbia è la sensazione di trovarsi di fronte ad un disco dalle grandi potenzialità e con alcuni momenti che risultano essere tra i migliori in assoluto che la Barwick abbia fin qui inciso, per quanto uno sviluppo migliore avrebbe aumentato l’incanto, ad esempio, della già ottima apertura di “St. Apolonia” e del suo doloroso eco (mai come in questa occasione risulta evidente la formazione nei cori ecclesiastici della Nostra) al quale il violoncello aggiunge ulteriore drammaticità o, ancor più, della misteriosa “Wist” che invece così proposta regala più che altro un senso di bellezza incompiuta.
L’ammaliante voce della Barwick, incorporea e stratificata, regala vertigini in brani spettrali basati su synth piuttosto statici ed essenziali che svaniscono impercettibilmente (“Nebula”), dona carezze durante le armonizzazioni con la voce di Arsenault tra armoniose tessiture di violoncello e synth (“Same”), si rivolge a cose care, ma lontane e perse, in deliziose fusioni tra voce e piano dal grande potere mistico (“Big Hollow”), si sposta, tra tasti di pianoforte premuti dal peso della malinconia ed echi violoncellistici, verso il Neoclassicismo descrivendo il desiderio di casa di un’anima che ha viaggiato troppo (“Heading Home”) e crea, in luoghi indefiniti e illimitati, scrigni dorati contenenti questi pensieri, queste speranze e queste illusioni realizzando con la complicità della voce di Arsenault, qui ancor più flebile, dolci intrecci catartici e contemplativi (“Someway”).
La conclusiva “See, Know” col suo ritmo più sostenuto va un po’ a stridere con il resto del lavoro, la batteria crea trame circolari piuttosto corpose ed i synth si fanno molto più insistenti che altrove contrastando con la voce, sempre delicatissima.

Viaggio interiore perennemente coperto da un velo di nebbia dal quale però è sempre possibile scorgere uno spiraglio di luce; come se dopo The Magic Place, dedicato ad un vecchio albero della fattoria dove la Barwick visse la sua infanzia e Nepenthe, farmaco che nella mitologia greca lenisce il dolore, la Nostra con questo nuovo full length abbia trovato una personale forza di volontà che, per quanto fragile, le permette di vivere e curare le proprie malinconie dentro di sé, dovunque si trovi.
Will è un disco che prende più di uno spunto dai lavori precedentemente pubblicati dando però più sostanza ai riverberi ed ad un sintetismo, escludendo il brano conclusivo, sempre giustamente misurato che permette alla Barwick di risultare ancora più incorporea durante le sue stratificazioni corali confermando le sue innate doti vocali ed il suo gusto compositivo, ciclico e minimale, con quello che è sicuramente il suo lavoro più aleatorio ed impressionistico. Una soluzione che in futuro, su lavori maggiormente coesi, potrebbe regalarci dischi che rischieremo di portarci dentro per molto, moltissimo tempo.

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Niagara – Hyperocean

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“Musica dell’altro mondo”, come si suol dire, perifrasi entusiastica di cui spesso si abusa, a voler condensare in poche parole la sensazione tonificante di star ascoltando qualcosa di inedito. Giunti al terzo album in studio i Niagara ci mettono in condizione di poter usare l’espressione senza risultare poi così esagerati.
Non che nelle puntate precedenti Davide Tomat e Gabriele Ottino abbiano mancato di sorprenderci piacevolmente, ma c’è uno scarto sostanzioso tra le intuizioni del passato e l’ambizione con cui Hyperocean è nato, come luogo ancor prima che come disco, perchè questo terzo atto ha davvero la pretesa di essere musica dell’altro mondo, colonna sonora di un pianeta immaginario e immaginifico: brano dopo brano, le sue undici tracce modellano le fattezze di un universo che non contempla terre emerse, in cui apprendere l’arte dell’ascolto in apnea è condizione necessaria per la sopravvivenza.
L’attrazione dei Niagara per lo stato liquido, che pure era tangibile nei suoni immersi nel fluido elettrico di Don’t Take it Personally, si spinge fino a diventare principio ispiratore di una dimensione parallela governata da logiche compositive ancora da scoprire, in cui l’acqua è elemento imprescindibile, che lasciato a reagire con le strutture melodiche le disgrega e ne disperde il senso.

Il duo cementa il sodalizio con la londinese Monotreme Records e conferma la necessità di guardare oltre i confini della Penisola nel caso in cui ci si voglia sforzare a collocarli entro correnti e tendenze: le arguzie compositive di producer come Arca e Lapalux, le perturbazioni ovattate di Oneohtrix Point Never, l’ossessività degli Animal Collective. Nelle liriche sommerse dei Niagara trova spazio un nuovo modo di fare cantautorato, che rifugge i costrutti collaudati eppure mantiene la vocazione Pop, scegliendo la musicalità della lingua inglese che si confà al suo ruolo, perchè il cantato ha lo stesso peso degli altri layer sonori.
L’analogico è ridotto all’osso, percussioni e acqua, catturata da idrofoni in ogni condizione e stato, dagli abissi marini al ghiaccio in una bacinella. Il resto è lavoro in digitale di sovrapposizione strato per strato di anomalie e pulsioni emotive. Sui gorgheggi metallici dell’opener “Mizu” si incastra una voce femminile robotica, sopraffatta poi dal crescendo dei synth.  Materia sonora di ogni tipo confluisce nei brani e ne esce snaturata: orchestre di archi acidi che suonano come vetri rotti in “Escher’s Surfers”, molecole di nebbia elettrica che sibilano in “Fogdrops”, abrasioni regolari a cadenzare linee vocali e riverberi Psych plastificati di “Blackpool”. Nell’accumulo di elementi sonori, sono piccoli escamotage quelli che innescano la detonazione, come ad esempio un lieve sfasamento, quello tra i sample che si rincorrono nella title track, o quello tra i singhiozzi sintetici e i loop vocali di “Solar Valley”.
L’impasto è artefatto ma suona vivo e pulsante, dall’inizio al finale incompiuto di “Alfa 11”, una nenia disturbante che degenera dilatandosi in sferzate apocalittiche per oltre dieci minuti, fino a placarsi in una calma che ha tutta l’aria di essere solo apparente.

Al termine del viaggio le linee guida del sound dell’altro mondo sono ben delineate, e il disco che ne porta il nome suona organico, più oscuro e inquieto del suo predecessore. Quelli esotici e tecnologici di Don’t Take it Personally sono stati luoghi affascinanti, ma pur sempre parte del nostro pianeta e confinati in quel limbo che è il presente, mentre Hyperocean ha le ispirazioni giuste e l’audacia sufficiente per inventarsi un possibile futuro post-elettronico.

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Recensioni | maggio 2016

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Jenny Penny Full – Eos (Dream Pop, Folk, Psych) 7/10
Misurati e cullanti come la migliore delle ninne-nanne. Un’incantevole voce femminile e tappeti sonori che stregano senza mai eccedere, forse peccando, qui e là, di troppa linearità, ma recuperando altrove in piccole fughe eteree, fumose ascensioni improvvise. Prodotto dalla Vaggimal dei C+C=Maxigross, Eos è un debutto sussurrato, ma convincente.

[ ascolta “Far Continents” ]

Echoes of the Moon – Entropy (Doom Metal, Ambient, Post Rock) 4,5/10
Prolisso e noiosetto concentrato di batterie finte, distorsioni acide, urla distanti e cupezza senza fine. Troppo immerso nei cliché per poter sostenere brani da 10 minuti senza evocare sbadigli o prurito al tasto “skip”. Solo per fan del genere, sfegatati al punto da sfiorare il masochismo (ce ne sono).

[ ascolta “Entropy” ]

Foxhound – Camera Obscura (Alt Pop, Funk) 7/10
L’ex quartetto torinese sembra muoversi con più disinvoltura in questo EP, che in cabina di regia ospita Mario Conte (Meg, Colapesce). Rimasti in tre, i Foxhound continuano a muoversi in territori Funk ma si lasciano andare a sperimentazioni analogiche che li rendono soffici e gradevolmente retrò. Ora che la nuova rotta è fissata e funziona attendiamo la prova in long-playing.

[ ascolta “My Oh My” ]

Blackmail Of Murder – Giants’ Inheritance (Metalcore) 6/10
I bresciani, freschi di contratto con la label Indiebox, ci presentano il loro secondo disco: Metalcore indiavolato come da tradizione Killswitch Engage, Caliban e compagnia bella. Il confronto con i mostri sacri del genere regge bene, compresa la ballata “Whisper”, unica variante di un lavoro che ha come punto debole la troppa somiglianza tra i singoli pezzi, risultando, alla fine, impossibile distinguerne uno dall’altro.

[ ascolta “Never Enough” ]

Oaken – King Beast (Dark Ambient, Post Hardcore) 5,5/10
Gli Oaken da Budapest hanno il coraggio di osare, influenzando il Death Metal con una massiccia dose di Dark Ambient e degli inserti Melodic Hardcore. Immaginatevi dei Converge fatti andare a briglia sciolta e calmati con forti scosse elettriche. I brani sono solo quattro ma durano un’eternità, allungati da contaminazioni a profusione. Si salva la voce femminile che impreziosisce “The Hyena” e poco altro.

[ ascolta “The Hyena” ]

Kai Reznik – Scary Sleep Paralysis (Elettronica, Ambient) 4,5/10
Dalla Francia, un’elettronica cupa e retrò che non stupisce per ricerca sonora né per maestria compositiva, tra arpeggiatori ossessivi e synth poco a fuoco. Un poco più interessanti le voci di Sasha Andrès degli Heliogabale su “Post” e “Nails & Crosses”. Se le atmosfere claustrofobiche sono volute, ci sarebbe da lavorare sui suoni per renderle masticabili e non distrarci troppo con gli spigoli grossolani dell’impianto strumentale.
[ ascolta “Post” ]

HUTA – How To Understand Animals (Alternative, Post-Grunge, Shoegaze) 6/10
Un mix saporito di sporcizia echeggiante attitudine Grunge e tappeti sonori e rumoristici da trip oscuro e nervoso. Il trio di Cuneo sforna un album che non delude dal punto di vista strumentale, abbastanza muscolare e ipnotico da convincere nonostante la voce non eccelsa e i suoni a cavalcioni del confine tra frizzone Noise controllato e amalgama poco riuscito, ribelle, fastidioso. Un equilibrio in bilico che mette in luce una qualche potenzialità senza però esplicitarla compiutamente.

[ ascolta “Hone” ]

Guns Love Stories – The Beauty of Irony (Alt Rock) 6/10
Unite il cantante degli Hardcore Superstar ad una qualsiasi band del filone Emocore stile Silverstein o Emery, per fare due nomi a caso, e avrete ben presente come suonano gli svizzeri Guns Love Stories. L’album gode di una produzione ottima che tira a lucido dieci canzoni ad alto tasso di infiammabilità. Eppure, nonostante ciò, il senso di incompiuto è perennemente dietro l’angolo.

[ ascolta “Predigested Hollywood” ]

Xayra – Resilience Blues (Pop) 5,5/10
Se questo disco fosse stato pubblicato più o meno vent’anni fa si sarebbe potuto tranquillamente gridare al miracolo: sarebbe stato un mix perfetto fra Silencers, Smashing Pumpkins, Ellis, Beggs and Howard e il primo Brit Pop. 
Tuttavia la musica negli anni si è evoluta ed è forse giunto il momento per gli Xayra di aggiornarsi e di adeguarsi ai giorni nostri. Certamente un bel lavoro ma fuori tempo massimo.
[ ascolta “Worries+Faults” ]

Filippo Dr Panico – Tu Sei Pazza (Punk, Cantautorato) 6,5/10
Si può descrivere il rapporto di coppia in musica senza mai delineare troppo il confine tra Punk e Cantautorato? Per Filippo Dr Panico è impresa fin troppo facile. Il suo valore lo aveva già dimostrato con il precedente lavoro, ora però ascoltatevi con attenzione “Bravo a Parole” e la title track meditando sui testi, chissà che non vi identifichiate nelle medesime situazioni. Da segnalare inoltre “Ci Vorrebbe Una Notte”, scritta assieme a Calcutta.

[ ascolta “Ogni volta che te ne vai” ]

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Fabio Cuomo – La Deriva del Tutto

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La metamorfosi è uno dei temi principali della nostra cultura: da Omero a Carpenter, dalle scienze cognitive all’identità di genere, sembra riesca a rimanere un ambito in continuo sviluppo e lontano dall’essere esaurito (in crisi l’uomo, in ascesa il robot).
La Deriva del Tutto è un complesso lavoro al limite fra il racconto ed il suo effettivo disfacimento, nei giorni del disastro culturale -forse il titolo dell’album è meno retorico di come si possa pensare- la decostruzione e la successiva espansione attraverso raccordi al limite dell’atonale di matrice Ambient sembra funzionare bene. Le due canzoni che compongo questa esperienza sonora sono in realtà contenitori di un sistema che si libera di ogni struttura musicale, privandosi di veri e propri temi ad eccezione di qualche citazione sparsa qua e là. Le stanze rappresentante dal genovese Fabio Cuomo cercano l’asetticità poetica lasciando al fruitore il compito di ricostruire la propria esperienza estetica.
È possibile trovare una cesura nei minuti finali di Bene Gesserit (Dune e la metamorfosi -di nuovo- del nostro pianeta?), dove possiamo effettivamente assistere ad uno stacco quasi cinematografico, collocato e schierato verso una direzione definita; è forse la forma compiuta dell’intero processo di sviluppo dell’album.
Non credo in ogni caso che questo sia una creazione da accostare ad una qualsiasi colonna sonora. La Deriva del Tutto è un ottimo ascolto per capire come certo sperimentalismo si muove e cerca di attingere dall’avanguardia post Eno.
Finisco con una considerazione riguardante il missaggio: avrei preferito un minor volume a vantaggio di una maggiore profondità nel panorama sonoro.

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Atom Made Earth – Morning Glory

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A distanza di due anni da Border of Human Sunset  tornano i marchigiani Atom Made Earth con il loro Progressive 2.0.
Ambient, Post Rock e Psichedelia si rincorrono in Morning Glory, uscito il 7 Gennaio 2016 per Red Sound Records e album che si allaccia all’episodio precedente per stile e scansione ma che segna una decisa falcata in avanti per la band.
Quando si va a ficcare il naso nell’enorme calderone del Post Rock si rischia spesso di bruciarsi, andando ad incensare lavori che, seppur qualitativamente validi, peccano enormemente di originalità e personalità. Tutto questo è l’esatto contrario di ciò che gli Atom Made Earth trasmettono ad un primo, superficiale, ascolto. Il sound è vario e balza sapientemente tra un’epoca e un’altra senza sbavature. Dalle tiratissime ed esplosive atmosfere in stile Explosions in the Sky e Mogwai di “Thin” e October Pale si passa a “Reed” al cui interno respirano chiaramente i Public Service Broadcasting. Ma è con estrema scioltezza che i ragazzi sanno tornare agli anni ’70, quelli che hanno visto nascere il genere: dagli Arti e Mestieri o Area di “Baby Blue Honey” si passa a certe suite stile Colosseum/Caravan di “Stac”. La lista di reminders potrebbe allungarsi ma ciò non toglierebbe freschezza all’album, solido del suo personalissimo trait d’union progressivo.
Andando più a fondo, però, ci si accorge che la volontà della band anconetana non è quella del mero esercizio di stile o quella di compiacere i maestri quanto piuttosto quella di creare un proprio linguaggio adatto ai complicatissimi anni ’10. Parlare ancora oggi di Progressive classico sarebbe anacronistico e gli Atom Made Earth ne sono consapevoli perciò decidono che la creazione di nuove tematiche debba ripartire proprio da un’epifania come la gloria del mattino, in qualunque accezione la si voglia interpretare.
Lo stile a cavallo tra varie decadi trova una nuova via d’uscita in un Post Rock da soundtrack che ben si adatterebbe, per restare fortemente attaccati al presente, ad una serie televisiva americana.
La strada è lunga ma il bagaglio è ben pieno. Sentiremo parlare di loro.

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Nagasaki mon amour || Dieci artisti giapponesi che dovreste conoscere

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Matter – Paroxysmal

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Paroxysmal è l’ultimo lavoro del bolognese Fabrizio Matrone, in arte Matter. Già dalla cartella stampa si presenta bene: “un suono estremo ma adulto per chi non ha paura di ascolti difficili”. Ebbene, devo dire che l’ascolto, alla fine, mi è parso meno difficile di quanto quelle righe dessero a intendere. Parliamoci chiaro: non è un disco facile. Si tratta pur sempre di dodici tracce per più di tre quarti d’ora di Elettronica sporca, vibrante, dove la melodia praticamente non esiste, dove regnano il rumore e l’iterazione. Loop distruttivi e graffianti che suonano come il lavorìo incessante di una fabbrica cupa e rugginosa, meccanizzata ma senza circuiti elettronici, solo pistoni e benzina e altoforni e picchiare di metallo contro metallo. Però c’è una sorta di calma sottostante, la rilassatezza digrignante del rumore continuo, del processo senza fine, che si ripete come un mantra automatizzato, come una catena di montaggio che nel disumano della ciclicità nasconde la certezza del proseguire, la linearità di un percorso che va sempre avanti non muovendosi mai. Si rinnovano le esplosioni gravi, le unghie taglienti delle distorsioni, il quasi fastidioso lamento della macchina, ma intanto la testa si muove su e giù, e mi perdo nelle litanie poco liturgiche e molto industriali di un disco che potrebbe essere causa e soluzione di parecchi, godibili mal di testa. Per crani di latta e orecchie di ghisa, astenersi colletti bianchi.

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Intervista ad Alessio Premoli a.k.a. Chelidon Frame

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Chelidon Frame è uno dei tanti progetti dietro al quale si nasconde il chitarrista milanese Alessio Premoli. Il suo lavoro più sperimentale è una miscela di Ambient, Noise e Drone. Lo abbiamo incontrato per capire al meglio la sua musica cercando anche di scoprire se certi suoni possano avere un ruolo primario nell’età moderna.

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Federico Bagnasco – Le Trame del Legno

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Il titolo del primo disco solista di Federico Bagnasco, diplomato in contrabbasso, esecutore militante in orchestre e formazioni di vario genere, arrangiatore, compositore, è una metonimia: il legno altro non è che il contrabbasso stesso, emanazione diretta, in questo caso, della fisicità dell’autore e del suo spirito. Il disco, interamente musicale, è una sperimentazione incessante di tutte le potenzialità fonico-timbriche del contrabbasso, potenziate e amplificate con l’ausilio dell’espediente elettronico. Si va da echi più classici, a tratti puntellati di contrappuntismo bachiano, come in “Spire” e “Apnea”, si passa per sonorità quasi etniche che rimandano ai didjeridoo in “Tempo al Tempo”, fino a successioni scalari dal sapore debussiniano di “Coincidenze Combinate”. Il suono del contrabbasso, in realtà, è meno elaborato elettronicamente di quanto l’incipit possa lasciar intuire. Le tracce successive, infatti, non sono che un’esplorazione timbrica delle diverse altezze che lo strumento può intonare, conducendo l’ascoltatore in una specie di trance estatica che si risveglia al settimo brano, “Velato”, con dissonanze struggenti che aprono a solari accordi maggiori inaspettati. Intensa è “AbIpso”, in cui addirittura si può sentire il respiro di Bagnasco che accompagna il gesto musicale in un crescendo agogico, dinamico e patetico che non può lasciare indifferenti. L’arrangiamento elettronico – più una modifica dell’onda che una vera e propria manipolazione tout cour – si percepisce in “Sterpi e Frattaglie”, dove echi delay e distorsioni creano un’atmosfera paurosa: l’impressione è di essersi realmente persi in un bosco fitto e insidioso da cui non c’è scampo alcuno. Con “Legno Pesante” si torna a sonorità tribali ed etniche, che proseguono, per certi versi, in “In Vano”, la traccia forse più sperimentale di tutto il cd, che sfocia in un atteggiamento chitarristico – se mi concedete il termine – nella successiva “Comunque”. Un certo Noise orchestrale regola e anima “Residui”, mentre il disco va a chiudersi in una marina e onirica “Lunari di Giada”. Il rischio di cadere nella noia – mai nello scontato, questo no – è altissimo per un lavoro del genere, eppure Federico Bagnasco riesce a catturare l’attenzione dell’ascoltatore traccia dopo traccia. Un disco da meditazione, di quelli da accompagnare con una buona grappa e una certa quantità di sigarette e pensieri. Mai banale e davvero consigliato.

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