Su questo disco è già stato detto di tutto. Lanciato come se fosse l’araba fenice dei Radiohead o la fatica di un matrimonio artistico tra grandi nomi della storia della musica più recente che manco i Them Crooked Voltures, Amok è stato osannato o crudamente bocciato, tanto da tutta la stampa quanto dai fans di Yorke. O piace o non piace, insomma. L’unica certezza è che fa discutere, mettendo in campo tutta una serie di riflessioni che non sono assolutamente sterili e neppure troppo sottintese. Anzitutto viene da chiedersi quanto possa essere originale un progetto parallelo con un leader tanto carismatico e dall’immediata riconoscibilità stilistica come quella di Yorke. Tra lui e Flea, ad esempio, è indubbiamente il primo a farla da padrone indiscusso, se si considera che l’autorialità di Flea emerge con chiarezza solo nell’intro e in alcuni incisi melodici di “Stuck Together in Pieces” e in “Reverse Running”, passando praticamente inosservata nelle altre tracce di Amok. Non è solo questione esecutiva, per cui la voce di Yorke toglie ogni dubbio e rimanda per direttissima ai Radiohead, come nella title-track “Amok” e in “Default” (solo per citare i casi estremi perché questa caratteristica permea in realtà tutti i brani del disco), ma è proprio una faccenda interpretativa ed esecutiva: il cantato a bocca appena aperta, la strutturazione della forma canzone e gli arrangiamenti ricalcano moltissimo gli ultimi Radiohead – che, personalmente, mi sono sempre sembrati più gratuitamente sperimentali e asettici che geniali – e solo una virata elettronica massiccia separa gli Atoms For Peace dal passato progetto di Yorke. E qui entrano in gioco un altro paio di questioni. Anzitutto, l’unico leitmotiv del disco sembra essere un tappeto ritmico elettro-dance scandito con una chiarezza volumetrica che spesso è al pari di quella della linea melodica vocale (come in “Before Your Eyes” e nella già citata “Reverse Running”), in una sorta di ideale richiamo costante al trip-hop ma con le sonorità cupe della new wave (“Ingenue”) e accenni afro-beat inconsciamente pulsionali (“Unless”); in secondo luogo, poi, è difficilissimo distinguere dove finisca l’uomo e inizi la macchina e viceversa. E per quanto lo strumento elettronico e l’artificio possano essere usati con maestria e competenza, sì da fare emergere il lato umano del compositore, è quasi impossibile in Amok, capire cosa sia naturalmente prodotto e cosa no, sacrificando, involontariamente, ancora una volta gli strumentisti per esaltare la figura di Yorke come primigenio artista-uomo che convoglia il significato poetico-musicale della canzone.
Lungi da me porre una soluzione univoca a questi quesiti, il gusto personale credo che in questi casi abbatta qualsiasi questione etico-stilistica-estetica. Per me è il primo, buon lavoro di un progetto parallelo che spende a piene mani l’eredità del suo antecedente, nulla più.