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Tatum Rush – Guru Child
Pur cavalcando, anch’egli, l’onda anomala e prepotente di Neo Soul e R&B che sta sommergendo il vecchio continente, l’artista di San Diego riesce a darne tuttavia un’interpretazione personale e diversa, rinunciando alle contaminazioni consone, spesso però valide, dei suoi colleghi e conterranei e rileggendo il tutto con uno spirito più teso a un Pop minimale e leggero, di facile ascolto e predisposto a convincere sia i più attenti ascoltatori e raccoglitori di ogni sfumatura, sia chi lascia scivolare la musica sulla pelle con la stessa naturalezza con la quale fa cadere le gocce di acqua marina sulla spiaggia, appena fuori dall’acqua. L’R&B racchiuso nelle dodici tracce di Guru Child non ha molto a che vedere con la fisicità di un D’Angelo ma neanche con le vorticose divagazioni di Anderson. Paak, tanto per citare gli ultimi, più fortunati, interpreti del genere. Il polistrumentista e produttore statunitense rinuncia a quei punti di forza palesati dai già citati artisti, mostrando il lato più sexy di questo stile, rafforzato dall’uso, in chiave live, oltre che del batterista svizzero Domi Chansorn, di tutta una serie di disinvolte ragazze, nel senso più sensuale del termine, che lo affiancano sul palco. La carriera dell’ex leader dei Meadow, e bassista dei Great Black Waters, prende una strada del tutto inattesa ma soprattutto sorprendente, in senso positivo e, i quaranta minuti del disco sembrano volerci invitare a tenerlo d’occhio, in attesa del capitolo due.
La passionalità di brani minimali e incisivi come “Black Magic Queen” o “Get You” si alternano a nerissimi Blues (“Distractions”, “Burn Some Gas”) e folkeggianti cavalcate soniche (“Your Vacation”), curate ma non eccessive e che lasciano alla voce di Tatum Rush tutto lo spazio di cui ha bisogno per esprimersi al meglio. Le atmosfere vintage richiamate da brani come “Fertilizer” o dalla title track suggeriscono nuove chiavi di lettura che si aggiungono a quella sensibilità Pop cui ho già accennato (“Making it Look Easy”) e a incursioni in territori più ritmati e quasi spensierati (“Tenerife”). Non mancano episodi in cui, soprattutto grazie alle taglienti corde della chitarra, la musica di Tatum acquista energia (“Brother Wood”) ma è quanto scende nei territori della dance floor, a volte con reticenza (“Supercollider”) altre con evidente sicurezza e voglia di osare (“Space Perineum”) che diventa più sorprendente.
Guru Child è un disco che sa essere esemplare senza fare clamore, che riesce a unire la Dance al Blues, il Folk al Soul, la voglia di sobrietà compositiva alla necessità di un’estetica Pop. Un disco che ha tutte le carte in regola per arrivare a tanti ma che ha bisogno di una notevole dose di distensione mentale per essere afferrato fino in fondo, perché la semplicità immediata, troppo spesso, è scambiata per “mancanza”.
Anderson .Paak – Malibu
Il Neo Soul e l’R’n’B non hanno mai subito grosse fasi di smarrimento ma, negli ultimi tempi, indicativamente da Channel Orange di Frank Ocean del 2012, la qualità delle loro produzioni è cresciuta notevolmente tanto quanto il numero degli artisti dalle rosee promesse. Se in ambito Soul soprattutto la figura predominante, forse l’unica davvero sopra le altre, è quella di D’Angelo, si sono alternati tanti protagonisti capaci di tirare fuori canzoni straordinarie e, più raramente, interi album memorabili. Quello che sembra mancare è proprio un antagonista positivo al già citato musicista di Richmond. Poi è arrivato Anderson .Paak che, in realtà, era sulle scene già da diversi anni (inizio decennio, all’incirca) con qualche produzione alle spalle che tuttavia non aveva nulla di davvero eccezionale. Poi è arrivato Anderson .Paak con Malibu e la storia è cambiata radicalmente perché il nuovo lavoro del ragazzo di Oxnard è qualcosa che gli appassionati del genere non sentivano da anni, certamente tra le migliori uscite in ambito Neo Soul, R’n’B degli ultimi venti anni.
Non ci sono ricercate forzature tese a estreme contaminazioni nella sua musica, non c’è una disperata indagine verso l’originalità a tutti i costi e neanche un imbastardimento con generi poco affini ma utili ad ampliare pubblico e gradimento. La musica di Malibu è genuina, moderna e fluida, con ogni brano perfettamente incastonato a precedente e successivo tanto da creare una tracklist con un crescendo ritmico e lirico d’intensità mai ascoltata. Tra i molti elementi che fanno di Malibu un inno alla bellezza nera, non mancano incursioni nel mondo del West Coast Hip Hop e, se è banale l’accostamento con il suo rappresentante attuale più influente e talentuoso, Kendrik Lamar, non bisognerebbe tralasciare anche l’impronta di artisti come Dr. Dre e tutta la scena anni 90 (che il quasi trentenne ha potuto seguire attentamente). Riduttivo parlare di Malibu come d’un grande album Soul o R’n’B, impossibile catalogarlo come una semplice uscita Rap datata 2016, limitante soffermarsi esclusivamente sull’aspetto lirico e lo stesso sarebbe andare a insistere su quello strumentale. È un album dall’estetica roboante, che sa farsi ascoltare con facilità pur non essendo banalmente disadorno. A impreziosire il tutto, alcune collaborazioni, non sempre dal sapore imprescindibile ma che danno un piccolo valore aggiunto a un disco che comunque avrebbe conquistato uno spazio cospicuo (“The Waters” feat. BJ the Chicago Kid, ”Am I Wrong” feat. ScHoolboy Q, “Without You” feat. Rapsody, “Room in Here” feat. The Game e “The Dreamer” feat. Talib Kweli). Assodato che Malibu resterà nella storia del genere, la speranza è che l’artefice, Anderson .Paak, non faccia la fine delle tante promesse bruciate dal tempo.