Sabato 7 ottobre il tour invernale dei Pinguini Tattici Nucleari ha fatto tappa al Circolo Ohibò di Milano con il loro nuovo album Gioventù Brucata.
(foto di Francesco Oddo)
(foto di Francesco Oddo)
(foto di Eleonora Zanotti)
Il 2017 sarà un anno diverso per il Pending Lips Festival così come lo abbiamo conosciuto negli scorsi anni. Lo staff del festival ha infatti comunicato ufficialmente che quest’anno la manifestazione, nata nel 2011 e svoltasi sempre al Maglio di Sesto S.G., non si svolgerà nella classica modalità e nella cornice a cui si era abituati. La decisione nasce dalla volontà di chiudere un ciclo e prendersi una pausa per far compiere alcuni passi di crescita significativi all’evento, con la promessa di tornare nel 2018 con una nuova location, tante novità e con energie rinnovate.
In attesa delle novità del 2018, gli organizzatori hanno deciso di dare un segnale positivo e realizzare una festa che potesse celebrare e rappresentare lo spirito del festival. Nasce così Pending Lips Party 2017, che si svolgerà il 25 Febbraio 2017 al Serraglio di Milano, una serata nella quale si esibiranno gli artisti che si sono aggiudicati la vittoria negli ultimi 3 anni, Edless, Steve Howls e Rumor. Inoltre, tre band lombarde avranno l’opportunità di aggiudicarsi dei premi.
1° classificata – Apertura del concerto di una band di grande rilievo sul piano nazionale e/o internazionale, all’interno della prestigiosa cornice del CarroPonte (data da definirsi) + intervista su Mi-Tomorrow
2° classificata – Concerto all’Arci Ohibò di Milano (data da definirsi), intervista in onda su Radio Statale + intervista su Off Topic
3° classificata – concerto in acustico all’Arci Tambourine di Seregno (MI) in data 10.05.2017 per la rassegna “Fatti In Brianza” powered by Costello’s | Chains – Press & Promotion + intervista in onda su MW Radio + intervista su Vox Radio Webzine.
Per poter partecipare è necessario accedere alla pagina www.facebook.com/pendinglips, scaricare modulo d’iscrizione, regolamento e tutte le informazioni, ed inviare la propria candidatura (attenzione: per questa volta l’opportunità è dedicata solo a progetti lombardi – no cover band) all’indirizzo mail pendinglips@gmail.com tra il 30.01.2017 e il 18.02.2017 (entro le 23.59).
Tra gli artisti che si candideranno, la direzione artistica Costello’s selezionerà solo 3 progetti che verranno convocati al Serraglio (Via G. Priorato, 5 – Milano) per la serata del 25.02.2017. Entro questa data, la prima giuria, quella tecnica avrà già sentenziato la propria preferenza, che verrà però annunciata solo al termine delle esibizioni degli ospiti della serata. Dall’apertura delle porte del locale poi (ore 21.30) fino al termine dei tre concerti, sarà protagonista la giuria del pubblico alla quale verrà distribuito un tagliandino all’ingresso (1 partecipante alla serata = 1 tagliandino), che servirà a votare il gruppo/artista che si vuole far vincere (1 tagliandino = 1 voto). I tagliandini saranno depositati quindi all’interno di un’apposita urna che verrà aperta al termine dei concerti. Solo a quel punto verrà annunciata la classifica finale e verranno assegnati i premi. Il progetto vincitore sarà a quel punto celebrato esibendosi anche durante la serata del 25.02.2017 al Serraglio potendo contare su un palco già fornito di tutto il materiale necessario per affrontare l’esibizione (ad eccezioni degli strumenti personali) e dovrà eseguire 3 brani esclusivamente autografi.
Piove da giorni e non potrebbe essere altrimenti: siamo all’Ohibò di Milano per la serata organizzata da Sherpa Live con i ragazzi del Diluvio Festival. La serata si preannuncia densa – gli act in scaletta sono quattro (in realtà cinque, come vedremo) – ma la selezione è stata intelligente e, per non annoiare, la varietà non manca, nonostante una più che giusta affinità di mood (piovoso, spesso). Si parte, sapientemente, con i Tide Predictors, un duo basso+voce/tastiere+synth (+ basi, che saranno una costante per tutti i gruppi d’apertura). Rimango sorpreso: musica di chiaro stampo Electro-Pop eighties in inglese ma con evidenti richiami agli anni Sessanta nei riverberi della voce e in certi suoni di batteria. Nulla di nuovo, certo, ma i ragazzi scrivono bene, con un’attenzione all’armonia e ai ritmi che spesso non si limitano ai quattro accordi in quattro quarti o al motorik più abusato ma variano in modo piacevole, rimanendo sempre in un ambito gustosamente pop e ballabile, con qualche punta godereccia di rumore più sporco che non guasta. Atmosfere ombrose e piglio divertito mescolano cupezza e ironia senza sbilanciarsi troppo. Non il mio genere, ma aprono degnamente la serata. Approvati. Si presenta poi sul palco il solitario Vikowski, voce calda e tastiere (+ basi, come si diceva). La proposta è più comune: il punto forte è la voce, che Vikowski ha morbida e precisa. Canta bene, avvolgente in basso ed energico in modo struggente quando spinge di più. La presenza scenica abbastanza neutra non lo limita più di tanto, considerando che sul palco è da solo dietro la sua postazione, ma nemmeno lo fa brillare granché. Tutto sommato canzoncine piacevoli (e a me le canzoncine piacciono, sia chiaro), ma che non mi hanno colpito molto. Si può crescere, la misura c’è. Mi aggiro per l’Ohibò per dissetarmi e quando torno gli Abbracci Nucleari hanno già iniziato. Sono in due, pianoforte e voce (+ le sempiterne basi). Una sorpresa deliziosa. Un pianoforte mobile, luminoso e spaziale e una voce – femminile – perfetta. Davvero, perfetta: sussurra, si ingrossa, sale scende e fa un po’ il cazzo che le pare. Una padronanza cristallina del mezzo, unita a costruzioni armoniche e sonore in cui può appoggiarsi comoda e accogliente. Le canzoni sono forse il punto debole: rendono molto di più quando cercano di stupire virando sul Jazz o su ritmi più sincopati, da Elettronica quasi-glitch o da R’n’B moderno e cool; quando si appoggiano a una sorta di Post-Rock sui generis più lineare invece perdono molto. Le basi in generale aiutano: si indovina un ottimo lavoro di produzione, che però a volte fa a pugni con la semplicità dei testi, delle linee melodiche, delle strutture dei brani (spesso loop molto circolari, o così sembra). Rahma Hafsi, la cantante, sul palco è a casa sua, canta e si muove con una luminosità e una naturalezza incredibili, a volte forse troppo, considerando il genere. Un’ottima prova, che se non mi ha conquistato al 100% è solo per la mia cronica tendenza a sopravvalutare l’importanza del testo e della varietà strutturale di un brano – quindi mea culpa. Arriviamo all’headliner della serata… ma no: prima ci aspetta una massacrante mini-scaletta di Laetitia Sadier degli Stereolab, da sola. La cantante sale sul palco con calma, attacca la sua chitarra-elettrica-al-contrario (destra ma suonata alla mancina) e parte. Mood sognante, scarno, con solo la chitarra effettata ad accompagnare la sua bella voce limpida. Le canzoni non sono male, ma lei le suona male (si può dire che suonare fuori tempo, perdendo i colpi, e litigando col manico della chitarra è “suonare male”? O abbiamo già superato anche questa linea?). In più la Sadier si rende protagonista di un seccante teatrino quando ferma il pezzo in corso per ammonire il pubblico troppo rumoroso (c’era chi chiacchierava) per chiedere a chi non sia interessato di andarsene al bar. È seccante, il teatrino, perché il rumore era veramente minimo (e ve lo dice uno che non sopporta certi concerti col pubblico irrispettoso e vorrebbe, da asociale quale è, stare sempre seduto comodo e in silenzio nella poltrona di un teatro); perché, se ti distrai a suonare per due chiacchiere, probabilmente hai sbagliato mestiere; e perché, se pure pensi che la tua musica valga il silenzio del pubblico, o te lo conquisti a forza stile Low oppure fai l’artista inflessibile – con tutta la ragione del mondo! – e te ne vai. L’avrei apprezzata molto di più. Finalmente, dopo quasi tre ore di musica (buona musica, in ogni caso), sale sul palco Giorgio Tuma, che porta per la prima volta dal vivo le sue creazioni in giro per l’Italia nell’anno che lo ha visto pubblicare il suo quarto album, This Life Denied Me Your Love, e che stasera troviamo dietro le pelli e al microfono. Con lui Giuseppe Manta alla chitarra elettrica, Giulia Tedesco alle tastiere e voce e Gigi Cordella ai synth. Tuma è di un’altra scuola. L’impianto, nonostante synth e tastiere, è suonato, acustico in senso lato: è una band più vicina agli anni Sessanta che a qualsiasi altra cosa. L’atmosfera, a volte, si avvicina ai sapori crepuscolari e “liquidi” che abbiamo sentito durante la serata, ma li usa per crescere, gonfiarsi, alzare il tiro ed esplodere in lunghe code strumentali, in passaggi trippy, in sei ottavi rotolanti che Tuma gestisce con umanità da dietro la batteria, tenendo il polso delle canzoni in un modo che non ha nulla del robotico e del meccanico di certe precisioni infallibili, ma che al contrario ha il ritmo del sangue e delle parole che oscillano, ondeggiano, e se si inceppano (di un millisecondo, non importa) fa parte del gioco, fa parte della vita. Le canzoni di Tuma sono un’unica grande canzone, un oceano di suoni che accarezzano e poi trascinano, in cui si percepisce distintamente il suo gusto per l’arrangiamento e la libertà totale nello scrivere, che poi è totale subordinazione alla propria fantasia, alla propria voce interiore. Laetitia Sadier torna sul palco, all’inizio e alla fine del set, per duettare con lui, e il risultato è onirico, celestiale. Un concerto forse troppo breve ma che risucchia e sommerge, piacevolmente. Un’ottima chiusura, e questo senza considerare l’infinita umiltà e dolcezza di questo talento che rimane in disparte, parla poco, tentenna, come se stare sotto i riflettori fosse un male necessario per portare in giro i suoi suoni, la sua musica. Ecco, questa è la lezione numero uno che ci insegna Giorgio Tuma: la musica è ciò che deve stare al primo posto, il resto è e deve essere solo un contorno.
[foto di Eleonora Zanotti]
Dargen D’Amico live @ Arci Ohibò, Milano, 9 maggio 2015
L’elemento dei live di Dargen D’Amico che mi stupisce sempre è la scioltezza con cui tiene il palco. Non è solo questione di carisma, sebbene il nostro cantautorap ne dimostri a chili (sarà il personaggio: camicia e bodyglasses, umorismo assurdo e nonsense, un’apertura emotiva e un approccio carnale, fisico, che lo fa sembrare quasi un profeta – colpa della barba? – ma un profeta buono, di quelli che non si prendono troppo sul serio). È che lui sul palco è proprio vivo e ti trascina nella sua corsa, e trascina con te quelle quattrocentocinquanta persone che riempiono la stanza ballando, che cantano con lui ogni pezzo, dalle hit disimpegnate à la “Bocciofili” fino ai flussi di coscienza cosmici come “Io, Quello che Credo”. Questa capacità di tenerti attento per più di un’ora e mezza passando attraverso mood così diversi e senza farti soffrire (troppo) i quaranta gradi da foresta tropicale che appiccicavano tutto l’Ohibò è la dimostrazione di quanto Dargen riesca ad essere vero, naturale: crede in ogni singola parola, dalle ironie di “SMS alla Madonna” alle analisi politico-storiche di “Il Presidente”, e te le fa arrivare con la stessa forza. L’esibizione di DD è stata preceduta da un breve live di Edipo, non eccelso nella resa sonora (soprattutto a livello vocale) ma i cui brani hanno sempre quell’aforisma geniale, quell’idea tagliente che ti fa sorridere e pensare (apprezzabili alcuni scampoli di “Terra” e la chiusura con “I Nudisti del Mar Baltico”). Un set anomalo, con (oltre alle basi) chitarra elettrica, batteria, e lo stesso Edipo all’acustica o al piano, che non so quanto abbia giovato ai pezzi. Un antipasto dignitoso anche se non del tutto convincente. Dopo l’antipasto, arriva la portata principale: Dargen sale sul palco accompagnato da Matteo Bennici e parte con una bella versione voce/violoncello/loop station di “Arrivi Stai Scomodo E Te Ne Vai”. Il violoncello di Bennici è un’ottima idea, non fosse che all’ascolto spesso sembra venire fagocitato dalle basi e non si riesce sempre a distinguere dal caos generale. Il live prosegue energico, rapido, sempre intenso: non cala mai. Anche nelle pause, dove Dargen intrattiene il pubblico con il suo stile caratteristico, la partecipazione è sempre alta. Cantano in tantissimi, in molti senza smettere mai. Ogni tanto Dargen esegue un brano a cappella, ed è incredibile come riesca ad avere la stessa forza anche senza basi. Ha dalla sua un mix strano e bellissimo: lo stile vocale, così peculiare e misurato; la scrittura, che non si appoggia mai, sempre in tensione, sempre ambiziosa, anche nei brani apparentemente più innocui; e questo link emotivo tra lui e il suo pubblico, questa sincerità “morbida” di fondo, che è il vero segreto di ogni artista: raccontarti il suo mondo, con i suoi occhi, facendotelo apparire vero, e vitale, mostrandosi nudo, per certi versi – di una nudità estrema, da carne viva. Un’apertura totale che è quasi un paradosso: mettendosi al centro, raccontandosi e quasi confessandosi, Dargen si sottomette al suo pubblico e il suo pubblico, di rimando, lo prende in braccio e lo tiene alto sopra la testa. Non puoi non volergli bene. Dargen D’Amico si conferma uno degli artisti più vitali che possiamo trovare al momento nella penisola, e non intendo solo nel recinto del rap, ma in generale. Intrattiene e fa riflettere, diverte e incuriosisce: è disposto ad accontentare il suo pubblico tanto quanto il suo pubblico vuole accontentare lui. Inoltre – dettagli non da poco – scrive con un’abilità miracolosa, canta con precisione e intensità e musicalmente non ci fa mancare nulla: ogni base pompa con decisione o accarezza con grazia. Se vi capitasse di poterlo sentire live, non perdetevelo: ne vale la pena.