Art Pop Tag Archive
Lina_Raül Refree – s/t
Dalla collaborazione con Rosalía al fado, tra passato e futuro.
Continue ReadingLavorare stanca più della movida: quattro dischi per riprendersi dalla sbornia del lockdown
Charlie XCX, Jeff Rosenstock, Perfume Genius e Owen Pallett sono quelli giusti da ascoltare.
Continue ReadingFiona Apple – Fetch the Bolt Cutters
Nella sua pura bellezza, proviamo a capire anche chi non riesce ad amarlo.
Continue ReadingBad Love Experience – Believe Nothing
Questo è il Pop che mi piace: complesso ma non complicato, leggero ma con una sua densità. I Bad Love Experience volano alti nei venti minuti e qualcosa che compongono il loro ultimo Believe Nothing. Lingua inglese, sapore internazionale, atmosfera retrò, miscele di Art Rock e Art Pop con innesti Elettronici e sfumature Prog, un parco sonoro che dire vario è sminuire (“Inner Animal”), un gusto per la melodia che si accompagna all’idiosincrasia verso le strutture tradizionali della canzone (“Below as Above” e quel riff…). Gli anni Settanta visti dallo spazio o qualcosa del genere.
C’è poco altro da dire, perché il progetto fila e il disco è godibilissimo. A fine ascolto l’unica cosa che personalmente mi manca è quel qualcosa in più, chiamatelo “sguardo”, “identità”, “voce”, un qualcosa di personale che mi faccia innamorare irrazionalmente di loro, qualcosa che fra un anno mi obblighi a recuperarli e a immergermi di nuovo nei loro abissi luccicanti e vellutati. Ma voi non datevene cruccio e fate un tuffo, poi chissà.
Deerhoof – La Isla Bonita
Lo avrete letto ovunque e questa storia vi avrà anche annoiato ma mi è impossibile non iniziare a parlarvi de La Isla Bonita senza partire dalla sua dichiarata genesi, non fosse altro per la passione del sottoscritto per i fast four. Tutta colpa dei Ramones, a quanto pare. Avrete presente “Pinhead”, brano incluso nell’album Leave Home dei newyorkesi? A un certo punto qualcuno si è chiesto perché Satomi Matsuzaki (basso e voce) e la sua banda non scrivessero canzoni di quel tipo ed ecco che Greg Saunier (batteria e tastiere) butta giù in un baleno la bozza di quella che sarà “Exit Only”, traccia numero sei che diventa il centro nevralgico dell’intera fatica. Non sarà questo l’unico omaggio diretto dell’opera; già l’opening (“Paradise Girls”) nasce come cover di “What Have You Done for Me Lately” di Janet Jackson, anche se poi il brano ha subito alterazioni tali da diventare qualcosa di nuovo mentre “Black Pitch” prende spunto da 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep, realizzazione letteraria di Jonathan Crary che esplora il susseguirsi disastroso e lo sviluppo devastante del capitalismo moderno.
Quello che è indubitabile è che con circa venti anni di carriera alle spalle e una quantità non indifferente di full length, ep, singoli, live e apparizioni in compilation, nonostante i cambi di formazione, ancora è durissima trovare qualcuno che possa sedere al fianco di Ed Rodriguez e John Dieterich (chitarre) oltre che dei due già citati Greg e Satomi, sia in quanto a stile sia come qualità. Il loro Pop destrutturato è cangiante a ogni volteggio, si veste di matematiche e fredde stoccate per poi ricomporsi in melodie accattivanti o ancora aggredirci con poderose cavalcate Punk. Insegue ritmiche Dance Pop soffocate da strati di chitarre Noise da far sanguinare le orecchie che pure si rifanno a certo Math stile Battles. Art Pop che si trasfigura in un Freak Folk tra Animal Collective, Dirty Projectors e Tune-Yards per poi divenire nuovamente altro. Nulla è direttamente riconducibile ad alcunché di noto anche se ogni cosa ha il sapore vago del conosciuto. La linea vocale di Satomi regala un incredibile tocco di delirio nipponico come nella migliore tradizione Experimental del Sol Levante. Non manca inoltre di trattare temi di stampo politico, economico e sociale (“Mirror Monster”, “Last Fad”, “Big House Waltz”). Riesce anche ad allentare le tensioni con una sognante e psichedelica atmosfera caraibica che fa pensare a dei Vampire Weekend sotto gli effetti di qualche allucinogeno andato a male (“Doom”).
La Isla Bonita si chiude quasi con un gioco (“Oh Bummer”), con i membri a scambiarsi gli strumenti, voce compresa, come a ribadire una certa voglia di dire le cose per bene, fare le cose per bene ma senza prendersi troppo sul serio (lezione portata avanti con successo anche dai Flaming Lips) perché il segreto di questo disco alla fine sta tutto nella sua follia allegra, nei suoi deliri colorati, nel suo caotico ordine innaturale.