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Vinile vs Cd vs Mp3: è una questione di qualità o una formalità?

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A parità di tecnica di registrazione vogliamo qui toccare i vari aspetti, ma anche le trasformazioni, che i supporti audio hanno avuto nel tempo e come lo studio dell’apparato uditivo, unito all’avvento dell’information technology, abbia aiutato a elaborare nuove tecniche di diffusione dei materiali audio. Cominciamo dal pentagramma; quando la frequenza fondamentale di una nota (es. LA1=110Hz, LA2=220Hz … LA4=440Hz) viene raddoppiata, non facciamo che andare più in alto di un’ottava. Allo stesso modo, se vogliamo salire di un semitono basta moltiplicare per 21/12 la fondamentale. Dodici sono i semitoni che compongono una scala. L’orecchio umano è in grado di percepire un range di frequenze che vanno da 20Hz a 20KHz e va detto che la massima sensibilità si ottiene intorno ai 2-4KHz (che è la banda vocale utile trasmessa ad esempio sui cellulari); inoltre, come è facile intuire, con l’avanzare dell’età il limite superiore dei 20KHz tende a diminuire. Provate voi stessi, cliccate play sul video qui sotto e sentite che età hanno le vostre orecchie!!!

Le variabili che entrano in gioco nella registrazione del suono, nella propagazione e successivamente nell’ascolto fanno si che, nel tempo, l’informazione contenuta nella registrazione sia andata via via diminuendo cercando di far risaltare maggiormente le frequenze dove l’orecchio ha la massima sensibilità. Così si risparmia memoria nei supporti a scapito di una “fantomatica qualità”. Dico fantomatica perché non fà differenza se ascoltate un vinile, un mp3 (con compressione decente) o un compact disc; non è il supporto a creare la differenza ma un insieme di cose come la qualità della registrazione, le vostre orecchie, il tipo di impianto Hi-Fi che avete in casa, l’ambiente che vi circonda e poi il supporto audio utilizzato. Quindi, lasciando perdere la registrazione perché non dipende da noi, le nostre orecchie per le quali c’è poco da fare, l’assenza di impianto Hi-Fi visto che i soldi sono sempre pochi, cerchiamo di capire che differenza c’è tra i supporti più diffusi.

Il Vinile è il supporto analogico per eccellenza e, seppur molti di noi non abbiano mai sentito il suo suono, rimane sempre un must per gli appassionati, tanto che alcuni riferiscono che il suo effetto acustico risulti “più caldo”: ma è solo l’irregolarità dei solchi che produce una lieve distorsione che lo fa sembrare tale. Messi da parte i gusti personali, l’incisione su vinile rimane molto fedele alla qualità dei trasduttori (microfoni) utilizzati per la registrazione. Sfatiamo però qualche mito: per prima cosa, è vero che durano anche 100 anni, certo ma a patto che li manteniate con cura, non li facciate cadere e che possediate un giradischi con una buona testina. Giradischi che, per suonare sfruttando tutte le qualità, ha bisogno di manutenzione periodica e di una spolverata se non utilizzato di frequente, dopo ovviamente aver sostenuto una spesa iniziale per l’acquisto cercando di non risparmiare troppo. Incidono sul suono, ad esempio, le vibrazioni derivanti dal motorino che lo fa girare e, del resto, si tratta pur sempre di suono riprodotto per mezzo semi-meccanico. GIUDIZIO: tanti ricordi portano da lui ma in fin dei conti al giorno d’oggi è scomodo da utilizzare.

Il Compact Disc è il primo surrogato dell’era digitale; l’audio stereofonico (LPCM) viene memorizzato in formato digitale, campionato a 44,1 KHz con campioni di 16 bit che regolano l’andamento della pressione sonora. I 44,1 KHz sono il risultato del teorema del campionamento di Nyquist-Shannon secondo cui la frequenza di campionamento deve essere doppia rispetto alla frequenza massima del segnale da acquisire. Ricordate la sensibilità dell’orecchio umano, 20 KHz? Ecco spiegato perché il CD ha un campionamento a 44,1 KHz e cioè per accogliere tutte le frequenze udibili dall’uomo. Seppure queste specifiche tecniche hanno reso il CD il migliore dei supporti, c’è da dire, come ben sappiamo tutti, che se non conservati bene alla lunga si rovinano. GIUDIZIO: ottima qualità, facilità di utilizzo, ma attenti a non lasciarli al sole.

MP3 e FLAC sono i nuovi formati digitali, “senza supporto”, adatti alla trasmissione e condivisione in rete. Ulteriormente compressi e campionati secondo specifici algoritmi ed estratti dal CD sono, rispettivamente, con perdita di qualità, lossy e senza perdita di qualità, lossless. Il formato FLAC (768 kbit/s) lossless rimane il più adatto all’ascolto, grazie alla sua alta fedeltà, molto simile al CD e una più versatile archiviazione che però vede file dell’ordine dei 10/20 MB. Non è facile trovare in rete del materiale con questi standard. GIUDIZIO: ottimo compromesso, adatto ai tempi che viviamo; peccato non sia così facile reperire album in questo formato. L’MP3 rimane il più utilizzato e diffuso ai giorni nostri grazie alla ridotta occupazione di spazio, 3/4 MB leggeri da streammare. Esistono tre diversi livelli di compressione sviluppati negli anni. Sintetizzando, possiamo dire:  Layer I, compressione a 384 kbit/s, eccellente qualità audio, utilizzato nei sistemi professionali digitali, utilizza il metodo di eliminazione delle frequenze mascherate sfruttando gli studi di psicoacustica. Layer II, compressione tra i 192 e i 256kbit/s, usa algoritmi più sofisticati del precedente ottenendo una qualità eccellente a 256 kbit/s ma anche a 192 kbit/s raggiunge buoni livelli. Layer III, compressione tra i 112/128kbit/s, utilizza, oltre che i precedenti metodi, anche una codifica estrema basata sull’entropia del contenuto informativo. Con 128 kb/s otteniamo un suono molto vicino all’originale. GIUDIZIO: è impossibile farne a meno al giorno d’oggi e se proprio potete scegliere prediligete il rapporto di compressione più elevato.

Ognuno ha i suoi gusti, o meglio le sue orecchie, basta non cadere troppo in basso e cercare il compromesso migliore nella situazione in cui vi trovate. Un sano trasformismo, senza bandiere da sventolare, ci può portare a scegliere il Vinile per gli album che ci hanno segnato o che non possiamo far a meno di possedere. Il Compact Disc in caso volessimo gustare a pieno o sostenere un gruppo. Il FLAC se proprio volessimo archiviarci tutto. Per tutto il resto c’è il buon vecchio e pirata Mp3.

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Una Volta Erano Buskers

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La musica come forma d’intrattenimento e di comunicazione è legata inscindibilmente con la pulsante vita della strada. Ogni nazione ha avuto la propria dose e storia di corrente musicale on the road, dove gli artisti facevano di piazze, angoli e vicoli il loro personalissimo palco. Comunicavano, raccontavano, protestavano ed in cambio non chiedevano nulla, se non offerte libere. Musicisti itineranti e non che della musica hanno fatto la propria vita e il proprio mezzo di sussistenza, creando nelle varie nazioni veri e propri movimenti musicali. Dai tempi della gloriosa Roma passando per i cantori dell’amor cortese dell’alto medioevo come i Troubadours della Francia settentrionale e i Minnesingers tedeschi, oppure i musicisti Tzigani dell’est europa, i Mariachi messicani fino ad arrivare addirittura alla cultura nipponica con i Chyndon’ya giapponesi. Esempi ce ne sono moltissimi. Chiamati nel mondo moderno genericamente buskers, parola di origine indo europea che significa “cercare”. Intrattenitori che nella ricerca, dunque, anelano fortuna, fama o “semplicemente” la sopravvivenza. Anche nel corso dell’ultimo secolo, il busking ha trovato varie connotazioni nelle diverse scene musicali. Dagli itineranti bluesmen lungo le rive del Mississippi, passando per i vagabondi del cantautorato folk, fino agli anni della controcultura dei figli dei fiori.

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La strada vista come sfogo comunicativo del proprio essere e del proprio pensiero, un ambiente (non sempre, ahi noi,) libero, dove poter manifestare la propria passione e il proprio talento. Oggi più che mai rappresenta per gli artisti di tutte le arti un banco di prova fondamentale, probabilmente il banco di prova più importante. Nella musica non basta solo il talento, ma bisogna saper emozionare ed emozionarsi. È proprio qui che la musica di strada diventa giudice generosa e spietata della performance dell’artista. Uno strumento di trasporto diretto dell’individualità personale. Il busker interagisce direttamente con l’ascoltatore. Niente palchi, niente divisioni. Spettatore e artista insieme sullo stesso piano. La conquista di un pubblico passante assorbito nei propri pensieri e la capacità di gestire un’audience, trattenerlo, farlo tornare sono qualità che si imparano con l’esperienza, con il coraggio di osare e combattendo lo stress e la sempre viva possibilità del non essere cagati. In fondo tutti i musicisti vogliono solo qualcuno che li ascolti e che diano un senso di approvazione alla loro indole artistica, altrimenti cercherebbero fortuna in altri modi. È proprio grazie al confronto con la strada che molti artisti hanno trovato la fiducia, la forza e la spinta per riuscire a trovare se stessi e far si che la propria carriera musicale decollasse.

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Nascere in una nazione come l’Australia dove il busking è una delle forme di espressione più rispettate e dove in ogni angolo delle città è possibile immergersi in esibizioni di straordinari performer, è senza dubbio un vantaggio di non poco conto, ma allo stesso tempo un pitch di non facile conquista. Nel 1996 nella colorata cittadina di Fremantle, nel Western Australia, il 21enne John Butler attratto dal richiamo della strada inizia a suonare la sua chitarra lungo i marciapiedi della città.  Chitarra e voce l’unica forma di comunicazione con la quale riesce a esprimere la propria personalità. Succede, dunque, che l’umiltà, la passione e il talento che il giovane dimostra, incanta ed intrattiene costantemente pubblico. Non solo gli appassionati di musica si fermano ammaliati, intontiti e sbalorditi durante le note del pezzo intitolato “Ocean”, brano strumentale scritto all’età di 16 anni che esprime tutta l’essenza del chitarrista australiano il quale in un misto di vibrazioni emotive intense parla di amore, vita e perdita. Accetta i consigli del pubblico e decide, con i soldi guadagnati, di incidere una cassetta. La intitola Searching For Heritage, vende più di 3000 copie in brevissimo tempo. Dalla strada passa ai locali per poi conquistare con il suo John Butler Trio tutto il continente australiano e non, in un escalation continua di approvazioni di pubblico e critica. Chitarrista dal talento cristallino che grazie alla sua tecnica e alla sua miscela di musica Bluegrass, Folk, Blues, Funky, Roots, probabilmente avrebbe avuto successo anche se avesse iniziato in una maniera differente. Ciò che è certo è che la strada aiuta John ad avere fiducia nelle sue possibilità e nelle sue capacità, ad acquisire carisma e personalità e, per sua stessa ammissione, a intrattenere il pubblico e a capire le dinamiche dello show. In una recente intervista ricordando quei giorni dichiara:” Vivi la tua vita giornalmente struggendoti, per cercare di trovare la tua voce o il tuo posto nella società. Poi tutto ad un tratto ti trovi di fianco ad un bidone dell’immondizia con il tuo strumento e facendo facce che spaventano i bimbi. Il pubblico ama ciò che suoni e tu riesci a sentirlo. Continui semplicemente a farlo e a seguire questo flow”. I live del suo pezzo Ocean hanno raggiunto oramai più di 30.000.000 visualizzazioni, tant’è che nel 2012 per ringraziare il pubblico decide di incidere una versione in studio e offrirlo in free download sul suo sito. “ È un pezzo parte del mio DNA, raccoglie tutto ciò che non posso spiegare con le parole.” Il virtuoso musicista ha regalato fin da subito il suo spirito alla strada, esibendosi in quello che tutt’ora è ancora il suo pezzo più personale. E la strada lo ha premiato.

John Butler in una non recentissima ma molto evocativa versione di Ocean, molto vicina alla versione incisa su Searchin for Heritage

Legata ad una storia simile è la incredibile Kaki King, chitarrista statunitense amata tantissimo, tra l’altro, dal popolo italiano. Artista dal talento puro ed esploratrice assoluta dello strumento a sei corde, sempre alla ricerca di sonorità al di fuori dei canoni stilistici classici (pur partendo da una profonda conoscenza/amore per la musica classica del 20th secolo). Una prima passione per la batteria per poi passare ad interessarsi alla chitarra, che suona con una tecnica finger picking caratterizzata dalle percussioni di derivazione Flamenco e dal fret tapping. Un talento che inizia a diffondere le proprio note nei tunnel della metropolitana di New York nel settembre del 2001. Trasferitasi, infatti, per motivi di studio dalla natia Atlanta ed ancora poco certa sul  futuro, decide di  scendere nella subway neworkese munita della sua chitarra e del suo estro. Spinta dalla necessità di guadagnare qualche soldo e dalla semplice voglia di suonare per strada, inizia la sua carriera di busker nelle stazioni lungo la linea metropolitana. La spontaneità ed originalità delle sue performance non passano assolutamente inosservate. La meraviglia che desta nei concentrati pendolari americani si trasforma in una continua e insistente richiesta di demo. Troppo brava per non essere notata, troppo brava per non vendere la sua musica. Inizia a lavorare come cameriere al Mercury Lounge dove nel 2002 viene organizzata una festa per l’album creato dalle sue performance live nella metropolitana. Una copia dell’album finisce sulla scrivania della Knitting Factory che le offre la possibilità di suonare nel loro Tap Bar. Come spesso capita nella musica la persona giusta al momento giusto nota il talento di Kaki durante un’esibizione e grazie a quell’incontro pubblica nel 2003 l’album strumentale Everybody Loves You per l’etichetta Velour. Un disco d’esordio acclamato dalla critica che le permette di accrescere la propria notorietà e di esibirsi aprendo i concerti di artisti più affermati conquistando anno dopo anno la stima del mondo della musica. Sei gli album pubblicati fino ad oggi, tante le collaborazioni e i premi. Una musicista fantastica molto legata e grata fortemente agli insegnamenti tratti dalle perfomance da buskers. Racconta delle sue esibizioni in metropolitana come un vero e proprio allenamento che le ha dato la giusta forza, formandola fisicamente e mentalmente. In un’esperienza lunga poco più di un anno, si è forgiata, aumentando e migliorando la propria creatività e divertendosi facendo ciò che più ama. Suonare per strada ammette che spesso le manca; le manca, molto semplicemente, la libertà ,anche di poter scegliere di mollare tutto nel mezzo di un brano ed andare a casa.

C’è invece chi deve alla strada la propria sopravvivenza e storia, non solo musicale ma di vita vera. Steven Gene Wold, in arte Seasick Steve, americano classe 1941, lascia la casa materna per via di un patrigno manesco all’età di 13 anni. Pochi spiccioli e una chitarra. Inizia il suo cammino in lungo e in largo per gli States alla ricerca di ogni tipo di lavoro, in un girovagare degno di un romanzo della beat generation. Ci sono giorni in cui lavoro manca e la fame fiacca il corpo e lo spirito. In quei giorni Steve prende la chitarra, sfoga la propria frustrazione, condivide il proprio amore per la musica  e racimola qualche dollaro. Per resistere e sopravvivere con il suo Rock Boogie nel cuore. Suona per le strade d’America e i fatti della vita lo portano a suonare nelle metropolitane di Parigi. Il successo per lui non è certo immediato, il suo stile di musica viene riconosciuto poco interessante e, stando ai suoi racconti, non colpisce  particolarmente i passanti.  Non abbandona mai la propria indole e personalità musicale. In un girovagare continuo finisce addirittura nella zona di Seattle, nell’epoca dell’esplosione del Grunge. Apre un piccolo studio di registrazione nella città di Olympia e viene in contatto con dozzine delle giovani band della zona. Si riesce a ritagliare un spazio in piccole gigs. I ragazzi di Washington mostrano di apprezzare lo stile musicale di dell’ hobo Steve (lo stesso Dave Grohl racconta di avere assistito entusiasta  ad uno suo show). Per insistenza della moglie, norvegese, Seasick Steve torna in Europa ad Oslo dove nel 2003 con una piccola etichetta indipendente e due musicisti svedesi incide il primo album Cheap. Il lavoro arriva all’orecchio di alcuni importanti dj inglesi generando un discreto successo in Inghilterra, tanto da invitarlo ad andare a Londra per alcuni show. Sembra iniziare la carriera del bluesman americano quando purtroppo un’infarto gli pregiudica lo stato di salute e  deve mollare promozioni ed esibizioni. Sull’orlo dell’abbandono della speranza di fare della musica la sua professione, trova la forza (anche grazie alla moglie) di reagire e di incidere “Dog Blues Music” con l’etichetta indipendente Bronzerat Label, registrato interamente su un recorder a traccia unica nella cucina di casa.

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Un secondo album che sorprendentemente in Inghilterra in molti stavano aspettando. Il giorno della svolta, però, avviene il 31 dicembre del 2006 notte dove si esibisce al programma televisivo ingelse Jools  Holland’s Hootenanny e dove accade ciò che Seasick Steve non si sarebbe, alla veneranda età di 65 anni, mai aspettato. Canta “Dog House Boogie” canzone biografica con una strampalata chitarra a tre corde ed un semplice drum box machine e conquista tutti. Con la sua barba lunga, il look da farmer e il suo three strings transboogie conquista il pubbico presente in sala e tutto il popolo inglese e da quella fatidica notte Seasick Steve, sempre impegnato nell’impresa di sfamare sé e la sua famiglia diventa una celebrità. Il popolo musicale inizia a celebrarlo. Ne apprezza la genuinità, il folklore del suo essere, la sua non semplice storia e la stravaganza degli strumenti musicali, alcuni dei quali costruiti da sè, ricchi di aneddoti e  tanta umiltà. Dalla strada ai più grandi e importanti festival di tutto il mondo, dopo una gavetta durata mezzo secolo. Dall’anonimato più totale alle collaborazioni con artisti come Dave Grohl, Jack White, i Wolfmother e il mitico John Paul Jones degli Zeppelin che lo accompagna in moltissimi dei suoi concerti live. Le esibizioni per le strade d’Europa e d’America hanno avuto per Steve un’importanza fondamentale. Nella stesso brano  “Dog House Boggie” racconta: “Sometimes gettin’ locked up an’ somet- sometimes just goin’ cold and hungry/ I didn’t have me no real school education, so what in the hell what I was gonna be able to do?/ But I always did pick on the guitar; I used to put the hat out for spare change /But now I’m makin’ this here record and I’m still tryin’ to get your spare change/ I don’t know why went wrong but it ain’t bad now. And I just keep playin’ my dog house music/ Sing the dog house song…!” Busker non solo come espressione di creatività ma come ultima speranza di vita.  Ciò che la performance e la vita passata in strada ha insegnato a Seasick Stee è di non demordere. Nonostante sembrasse che a nessuno interessasse il suo sound, ha sempre persistito e continuato senza accettare compromessi, suonando il suo Blues, rimanendo se stesso, buttando fuori il suo mondo interiore. Un esempio di come a volte la strada possa essere spietata, ingenerosa ma allo stesso tempo maestra.

L’autobiografica Dog House Music in una versione del 2011 carica di energia con il batterista Dan Magnussen

Tre storie di successo diverse, in tre continenti diversi. Lontani nel tempo e nello spazio  ma legati dall’indissolubile esperienza che la strada ha regalato. Tanta bravura in ognuno di loro, tanta sfacciataggine ed ovviamente anche culo. Ciò che pero è palese da queste storie è di come il Busking possa rappresentare un punto di partenza importante per ogni artista e di  come il mantenimento e l’espressione della propria personalità sia alla base del successo. Umiltà, verità e personalità i fondamentali ingredienti di una musica autentica che viene dal cuore e in grado di colpire anche i passanti più distratti. Peccato, però, che spesso, diffidenza e soprattutto burocrazia, specialmente in Italia complichi sempre le cose, ma questa è  tutta un’altra storia.

 

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L’istruzione e l’istituzione musicale in Italia.

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L’Italia è agli ultimi posti per quanto riguarda istruzione e cultura. La culla del Rinascimento e la mecca per musicisti, pittori e scultori oggi nel 2013 (ma anche da prima) non esiste più. Nessuno si ricorda il boom dello sviluppo culturale, annesso a quello economico, del dopo-guerra e l’analfabetismo che lentamente andò scomparendo grazie ad un sistema scolastico invidiato in tutto il mondo. Proprio poche settimane fa la notizia assurda dell’abolizione della materia forse più importante per il nostro paese: storia dell’arte. Cancellate le ore come una gomma che cancella dalla mente delle giovani generazioni le immense opere e possibilità del nostro tanto amato e perseguitato paese. E per quanto riguarda la musica? Certamente altre vergognose ingiustizie si stanno moltiplicando in questi ultimi tempi. Ma come si sviluppa l’istruzione musicale in Italia? Tutto o quasi inizia nelle fantomatiche “Scuole Medie”, che alcune volte vengono denominate il buco nero della cultura, in cui la musica prevede due ore settimanali, svolte in fretta e furia tra strimpelii e stonature di svariati strumenti (dal flauto, alla pianola ecc). Al contrario delle scuole medie ad indirizzo musicale che prevedono per i ragazzi anche due rientri settimanali per imparare, dopo un esamino di ammissione (anche se la musica dovrebbe essere per tutti, almeno nelle scuole pubbliche), il proprio strumento preferito: chitarra, pianoforte, clarinetto ecc.

Finite le scuole medie ecco un altro buco: il liceo. Lentamente, forse anche troppo, questa voragine sta diminuendo con l’istituzione di “Licei Musicali” che a detta del sito web www.liceimusicalicoreutici.org sarebbero sparsi su tutta l’aria della nostra penisola. Certamente ancora pochi e con un programma scolastico-qualitativo che a detta di molti “insegnanti privati” fatica a decollare. Ma leggendo in giro non c’è da spanciarsi perché proprio questi licei sono i primi ad essere martellati da tagli e soprattutto dalla precarietà di quasi tutti i suoi insegnanti. Per chi invece volesse continuare ad intraprendere la musica come mera passione e prezioso hobby ogni cittadina dalla più piccola alla più grande offre la possibilità di studiare e suonare in scuole private che oltre allo studio personalizzato, al divertimento durante i laboratori di musica d’insieme, alla creazione di band usa e getta fino al fantomatico saggio di fine anno, all’amicizia e ai ricordi che ognuno degli alunni si porterà dietro per la vita, il conto a fine mese talvolta risulta anche abbastanza salato per “un’istituzione” che oltre alla passione (talvolta associata ad un servizio scadente) non rilascia nessun tipo di credito.

Ma lentamente arriviamo al vero grande problema, per alcuni studenti: i Conservatori, che fino a qualche anno fa prevedevano corsi tradizionali, decennali per strumenti come pianoforte, chitarra o violino, quinquennali come canto ecc, con annessi corsi di solfeggio, storia della musica e armonia. Con la riforma della scuola e dell’università però anche i Conservatori italiani si sono omologati al famoso 3+2, innalzando il titolo da diploma a laurea specialistica. Ma le domande sono molteplici. Come fare dieci anni nella metà del tempo? Un ragazzino che vuole iscriversi a dieci-tredici anni dovrebbe affrontare subito un corso di laurea? Certo che no e siccome i Licei Musicali sopra citati non sono in stretta correlazione con i Conservatori si è pensato bene di istituire dei corsi dei Pre-Accademici della durata di ben otto anni, dopo i quali si può accedere al corso universitario. Quindi molti si staranno chiedendo: dov’è il problema? Nei grandi dimenticati di questa lunga storia: i ragazzi che proprio in questi anni stanno portando a termine il corso tradizionale. A rigor di logica il titolo finale dei corsi tradizionali dovrebbe valere quanto una laurea specialistica ma qualcuno del settore ricorderà la petizione di Sonny Cassata formulata dopo l’approvazione del comma 107 della legge di Stabilità (del 24 dicembre 2012, n. 228 -Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilita’ 2013 – . 12G0252 – GU n.302 del 29-12-2012 – Suppl. Ordinario n. 212 ) che prevede l’equipollenza dei soli diplomi accademici conseguiti col V. O. antecedenti all’entrata in vigore della presente legge, e quindi fino al 2012, che verranno equiparati a diplomi accademici di II livello (biennio per intenderci. Insomma non per tutti giustizia è fatta. Infatti chi concluderà il corso tradizionale dal 2013 in poi avrà una laurea inferiore, inferiore anche a chi ha fatto il loro stesso identico percorso. Giustamente siamo in Italia e questo caos poteva essere ben prevedibile ed è troppo difficile per le classi dirigenti del nostro paese pensare alla semplicità e alla correttezza di equiparare tutti i diplomi tradizionali, fino ad esaurimento candidati, a lauree specialistiche. Ma naturalmente ci sono molti punti su cui il Ministero dovrebbe fare chiarezza e poi si sa, moglie e buoi dei paesi tuoi, ogni governo cambia le carte in tavola e chissà se il futuro porterà cose buone anche per chi la musica la fa di mestiere. Intanto non si può che aspettare qualcosa di più chiaro e specifico perché nelle leggi non c’è posto per i “se” o per i “forse”.

Di seguito un piccolo pezzo di Storia d’Italia

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Addio alla Pirateria musicale. Forse. (Seconda Parte)

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Ricordate Napster, prima piattaforma di download fatta chiudere nel 2000 dalle grandi case discografiche con un clamoroso processo simile a quello più recente a MegaUpload?  In quel caso si è trattato di repressione da parte delle major, impaurite dal nuovo, confuse e senza controllo sul mercato. Negli anni di Napster iniziò lo sfacelo, una battaglia senza senso “all’illegalità” senza rendersi conto che, in fondo, la copia dei supporti c’è sempre stata. Poi vennero i social network, My Space e poi Facebook, che aprirono le danze soprattutto alla condivisione dei contenuti prodotti su altri siti. La rete divenne il principale strumento di diffusione delle proprie opere. L’industria musicale, in tutto questo, ha perso introiti per oltre 15 miliardi di euro (a fronte dei 25 mld registrati nel 1999, oggi solo 8 mld).

Ma la colpa è veramente del Download illegale? Dello Streaming gratuito? Secondo noi no!!! Dietro questo evidente bagno di sangue si nasconde l’inadeguatezza delle major; al cambiamento si è preferita la guerra. Guerra verso i loro stessi consumatori, cioè noi che amiamo la musica e per mancanza di soldi a volte la “duplichiamo”. In Italia, invece, da una parte c’è sempre stata l’incapacità della musica di diventare internazionale, dall’altra l’inadeguatezza verso le tecnologie e le nuove forme di comunicazione e marketing. Quello della musica è un indotto che, da Napster in poi, si è mosso senza una guida, senza una struttura. La grande industria non ha avuto la capacità di innovarsi, con nuovi supporti, duraturi nel tempo ad esempio o di alta qualità come ha fatto il cinema, e ha perso le redini del gioco e per questo oggi ci ritroviamo ad ascoltare brani in Streaming illudendoci che ci sia un ritorno del vinile. Adesso ci sono le macerie di quello che era e basterebbe la buona volontà per costruire un sistema nuovo da dove ripartire; forse mentre scrivo tutto questo, sta già accadendo. Vogliamo lasciare gli spazi disponibili ai nuovi magnati del sistema? Vogliamo accontentarci delle briciole di spotify?

In questa seconda parte riprendiamo il discorso affrontato qui riportando le interviste a Danilo Di Nicola (The Incredulous Eyes), Maurizio Schillaci (De Rapage), Umberto Palazzo (Santo Niente) e Marco Lavagno (Waste Pipes).

Danilo Di Nicola (The Incredulous Eyes)
Credo che per una band emergente sia quasi una risorsa. Molte fanno circolare la loro musica gratuitamente per farsi conoscere o la mettono in streaming pubblicizzandola sui social network. Non so se il discorso cambierebbe in caso di notorietà, credo dipenda molto dalla capacità del gruppo di trovare delle “alternative” al loro fare musica che non sia solo dipendere dalla vendita dei dischi, anche perché la prova del nove per una band per me rimane sempre il discorso dei concerti. Noi abbiamo fatto due dischi finora ma non abbiamo pensato minimamente alla possibilità di andarci in pari. Fare dischi è semplicemente un modo per fissare il momento musicale della band.

Maurizio Schillaci (De Rapage)
Io voto SCHEDA BIANCA. Chi ci perde è il disco come oggetto. L’artista ha solo qualche Rolex in meno. Nessuno vuole fare musica per avere uno stipendio da ragioniere, nemmeno chi sull’artista ci mangia. D’altronde se manco su Emule ti cagano, povero te. Soluzioni? Nessuna. Tamponi? Meno IVA sui dischi; riforma della SIAE; concerto gratis a chi compra il disco. La band più famosa del mondo non potrebbe mai chiudere Youtube o bloccare Emule. Non tutti sono “Metallica contro Napster”. La meteora in cerca di fama brucerà da cameriere nel forno di una pizzeria e amen.

Umberto Palazzo (Santo Niente)
Il download è un argomento di ieri. Lo streaming legale, nelle sue varie forme, lo ha superato. Non ha più senso riempire l’hard disc di giga e giga di mp3 quando buona parte della musica che si desidera si può ottenere con un click e organizzare per l’ascolto come meglio si desidera. Inoltre lo streaming ci segue sul telefono, come fosse un IPod e sull’autoradio anche via bluetooth. I vantaggi sono ovvi: non ci sono i tempi di attesa della ricerca e della disponibilità, non c’è l’usura dell’hard disc e quindi la vita del computer si allunga tantissimo, non ci sono problemi d’ingombro fisico, non si può perdere l’archivio. Se qualcosa non si trova, il player di Spotify legge anche i file locali, quindi va a sostituire iTunes al 100%. Il mondo è cambiato e la fruizione della musica pure. L’industria del disco è finita e non si può fare altro che prenderne atto. Non si tornerà indietro. E’ ovvio che i musicisti non guadagneranno più niente dai dischi, ma il vinile e il cd hanno regnato per meno di cinquant’anni, mentre la musica esiste da sempre. I musicisti faranno come hanno fatto per secoli, guadagneranno suonando. Non esisteranno più le rock star, le uniche star saranno solo quelle televisive. Sarà un lavoro con il quale si guadagnerà poco, tutto qua e il cambiamento è definitivo. Il mondo appartiene ai nativi digitali e basta vedere l’atteggiamento di un qualsiasi sedicenne nei confronti della musica per capire dove va il mondo. Rimpiangere i dischi è come rimpiangere il cilindro di cera di Edison: è solo una perdita di tempo. Il tempo speso bene è capire dove si va. Ovviamente rimane il mercato dei collezionisti, un mercato di nicchia, che può essere anche di parecchie migliaia di copie a disco, ma per quello basta la vendita e la produzione diretta. Il disco come prodotto di massa è finito per sempre e non credete agli articoli sul ritorno del vinile o altre scemenze: le vere cifre dicono tutt’altro.

Marco Lavagno (Waste Pipes)
Indubbiamente per una band come la nostra il download è un aspetto chiave della promozione. Una persona in più che scarica il nostro disco è potenzialmente una persona in più ad un nostro concerto, che (se è dotata della mia stessa filosofia) alla fine il cd magari lo compra pure. Non siamo i più indicati per parlare di “bilancio”, abbiamo tutti un altro lavoro e la nostra musica è e sempre sarà in promozione. In ogni caso i nostri spiccioli nel salvadanaio non ammontano con i dischi ma con i live nei barucci a somme di poche centinaia di euro. Se poi fossimo una band famosa o una meteora probabilmente non faremmo storie, rimarrebbe la nostra entità di live band. E ci basterebbe sentire il calore di migliaia di aliti addosso. O semplicemente gli occhi di ormai attempate ragazze ancora arrapate per i nostri vecchi e gloriosi successi.

Come avrete capito, c’è ancora tanta confusione in merito. Spesso non si riesce a distinguere il danno eventuale subito dalle major (che dovrebbero comunque capire che un ventenne che scarica 100 dischi, senza download non avrebbe speso certo duemila euro per gli stessi dischi) dal vantaggio dei piccoli autori indipendenti che non avrebbero modo di diffondere le loro opere se non gratuitamente. Sono pochi quelli effettivamente danneggiati dalla pirateria ma hanno tanto potere il quale resta abbastanza saldo attraverso i canali radiotelevisivi ma si frantuma sotto l’imponenza del web. Le major non lottano per i soldi ma per non veder svanire il potere di decidere cosa farvi ascoltare, chi far diventare famoso e chi dovrà essere il prossimo a riempire gli stadi. Stanno combattendo una guerra che non potranno mai vincere, la stessa guerra combattutta contro Napster prima e Megaupload poi, senza comprendere che, per mantenere intatto il loro potere, basterebbe lasciarsi trasportare dal cambiamento, magari abbassando a dismisura i prezzi dei dischi, ricondiderando quelli dei biglietti e del merchandising e liberalizzando la diffusione dei formati di medio-bassa qualità in streaming gratuito. Invece continuano la loro guerra lasciando che altri squali nuotino nel mare di internet in cerca di un facile pasto.

Nel frattempo i “piccoli” musicisti si apprestano a guadagnare qualche soldo gettandosi a capofitto sullo strumento più antico a disposizione di un artista. Il Live. Almeno loro hanno capito che il futuro della musica è un ritorno alle origini ben più antiche di un 33 giri.

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Retrospettive radiofoniche di un moderno speaker.

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Era digitale, smaterializzazione dei supporti, streaming e share sono ormai le parole che più frequentemente associamo alla musica, eppure la radio, mezzo longevo e alleato fedele nel corso del tempo, rappresenta da sempre un’incubatrice speciale per la musica e la sua diffusione.  Aldilà delle grosse emittenti, che come da consuetudine si adagiano nel corso tranquillo della musica mainstream,  c’è un folto sottobosco di piccole e medie radio e webradio che ogni giorno si fanno in quattro per diffondere musica e intrattenerci. Vista le premesse mi sono chiesta che cosa significasse fare radio oggi, soprattutto in piccole realtà slegate dalle grosse logiche commerciali e  come fosse il doversi confrontare con lo scenario musicale odierno. A un primo impatto e senza grandi informazioni l’idea iniziale che mi si è palesata è stata la seguente: grande difficoltà a barcamenarsi in questo scenario. Come concorderete non era un’idea così geniale o  una prospettiva così interessante per poter sviluppare un’opinione ben definita e soprattutto articolata. Ed è  per questo che mi sono rivolta a  chi poteva darmi un punto di vista che andasse più in profondità sull’argomento dato che per passione ogni settimana si scervella per portare avanti un programma fuori dal coro: Ivano on air da CiaoComo Radio. Pensatela come un’ intervista alla vecchia maniera, volutamente senza smarthphone o device tecnologici, ma fatta di chiacchiere tra amici, ad un tavolino di un bar, in una Milano con la prima aria frizzantina dell’autunno alle porte e un paio di daiquiri per alleggerire la solennità dell’argomento. Dopo i canonici saluti, benvenuti e ringraziamenti sono partita dal classico, conoscere meglio chi avevo davanti, il suo programma radiofonico e come è cominciato il suo percorso in questo ambiente per poi andare a snocciolare più in profondità diversi argomenti. Si è parlato di web e digital e dell’impatto che essi hanno, ma anche di musica in purezza. Dopo due ore di chiacchiere le idee e le considerazioni non si contano e il quadro che emerge, e che prima sembrava alquanto fumoso si va comporre e definire in maniera sempre più chiara. Il sottobosco musicale di chi scrive su webzine, parla per radio e si adopera in molti altri modi per la musica che esce dalla grande mamma mainstream è ricco di persone volenterose di offrire un prodotto di qualità che possa spaziare, dare voce ai giovani ma al tempo stesso raggiungere buoni livelli di credibilità. In questa continua definizione di se stessi e del proprio operato e anche di lotta per un po’ di spazio diventa fondamentale il mezzo e l’editore per cui si lavora. Una linea di azione che consenta libertà di esprimersi e di fare le proprie scelte, è sicuramente un buon punto di partenza per uscire dalle classiche logiche buoniste e rimanere incasellati in qualcosa di troppo stretto, e per evitare che atti di censura che rendano zoppicante anche il miglior prodotto. Il web e social network, sono un altro tema scottante in quanto per definizione armi a doppio taglio. Facebook, Youtube, WordPress, Soundcloud e via dicendo sono strumenti utilissimi e fin troppo potenti per chi ne conosce i segreti e li maneggia con sguardo strategico, suppellettili di superficie per i meno esperti alla stregua di corollario poco sfruttato di una grosso romanzo di appendice. Non voglio dire che manchi la consapevolezza della loro utilità, ma che spesso l’approccio è troppo amatoriale e poco strutturato. In fondo il digitale rappresenta il principale strumento di lavoro e di circolazione della musica, a cui è indispensabile non rinunciare,  in termini di velocità di diffusione, flessibilità si utilizzo nonché di riduzione dei costi.  Altro tema è il famigerato budget, che incombe sulle teste dei grandi capitalisti così come su quelle dei piccoli perché in fondo molte cose girano ancora in base a logiche prettamente commerciali. Possiamo però tirare un sospiro di sollievo a sapere se forse questo è il punto meno dolente per chi dedica tempo e passione ai proprio interessi e alle proprie idee. Insomma un calderone di chiacchiere e di spunti su cui riflettere di cui preferisco non svelare tutto e lasciarvi incuriosire dalle risposte che il nostro interlocutore, di cui non ci siamo dimenticati, ci ha dato. Riprendiamo le fila dall’inizio, da  Ivano e il suo programma IndieCircus e tutto quello che ci ha detto.

Ciao Ivano, benvenuto su Rockambula. Ti va di raccontarci come hai incominciato in radio e presentare il tuo programma Indiecircus?
Ciao a voi e grazie per avermi contattato per questa intervista. La mia passione per la radio è nata fin da ragazzino, prima per gioco con gli amici, con le classiche demo fatte in casa e in qualche serata amatoriale presso locali di musica live, in pratica come iniziano tutti. Solo qualche anno più tardi è diventata una realtà più consistente, quando due amici in cerca di una terza voce per il loro programma mi hanno incluso nel progetto. Dapprima con una piccola rubrica, poi in maniera sempre più attiva. Dopo tre anni di gavetta, le nostre strade si sono separate e ho colto l’opportunità per realizzare un nuovo progetto, che potesse essere un ponte con le esperienze fatte, ma che avesse un format e uno stile di conduzione differente. Il risultato è Indicircus, che già dal nome fa intuire il parallelismo voluto tra il mondo musicale e quello del circo, con la volontà di giocare e fare un po’ d’ ironia nei confronti del mondo “Indie”, o meglio dell’immaginario e tutto il corollario di contorno di chi si autodefinisce Indie. A questo aggiungiamo anche un po’di sana irriverenza verso le logiche commerciali che sostengono gran parte della musica di oggi. Tutto questo, senza mai dimenticare la qualità della musica che per noi resta fondamentale. Se vogliamo dirla tutta, anche il mondo del cinema ci ha dato molti spunti per elaborare queste idea di “freak” o mostro e la relativa presa in giro di una certa tipologia di status quo. Insomma abbiamo cercato di fare un programma che avesse una forte personalità e soprattutto fosse sorretto da delle idee.

Siamo alla seconda edizione ci dobbiamo aspettare delle novità sullo stile di conduzione o pensi che la formula vincente non si debba cambiare?C’è qualcosa che vorresti realizzare durante questo nuovo anno?
Sono molto contento che il format sia andato bene e sia piaciuto al pubblico. Fortunatamente anche quest’anno è in programmazione come sempre il mercoledì sera, a partire del 2 ottobre, per un’oretta dalle 22 alle 23. Mah, squadra che vince non si cambia vale solo in parte nel senso che senza dubbio l’impostazione generale e i miei fidati partner Coccia e Mauro rimarranno gli stessi, mentre il nostro intento e impegno sarà raccogliere i frutti della precedente stagione, imparare dagli errori commessi per migliorarsi e offrire qualcosa di ben fatto, che avvicini sempre di più la gente alla buona musica. Anche solo una persona in più che apprezza un disco o un artista da noi proposto è per noi una grande soddisfazione.

Il format del programma prevede la presenza di ospiti. Come avviene il contatto con le band? E facile riuscire a instaurare un rapporto con loro? Riuscite ad uscire da una certa territorialità o preferite scegliere solo ospiti locali.
Il format del programma, per chi non lo conoscesse, è composto di due parti: la prima parte vuole essere simile ad un talk show con classifiche e approfondimenti sulla musica che traggono spunto dall’attualità o da avvenimenti curiosi. L’obiettivo è impostare subito un tono colloquiale e scherzoso. La seconda è quella in cui interagiamo con gli ospiti, che sono sia gruppi sia persone che hanno a che fare con il mondo della musica come musicisti, addetti alla produzione o persone che si occupano di booking o di promozione degli artisti. Direi che a grandi linee le puntate in percentuale si dividono 50/50. La scaletta si adatta a questa distinzione e solitamente passiamo in un’ora sette pezzi , di cui tre sono del gruppo ospite. Per il contatto onestamente la parte più difficile non è trovare gruppi disponibili, non ti dico il numero di richieste che giornalmente riceviamo soprattutto tramite Facebook, quanto selezionare quelle veramente interessanti in termini di qualità. Ed quello che a noi interessa, per questo ci prodighiamo per cercare in ogni modo, ovviamente secondo mezzi disponibilità, di uscire dai confini prettamente territoriali e di offrire varietà di ospiti in termini di genere e attitudini. Ti faccio un esempio nell’edizione precedente abbiamo ospitato una band che fa Alternative Rock da Malta i No Snow No Alps, L’Urlo in quanto band con molto seguito e anche un cantautore italiano di livello come Fabrizio Cammarata.

Parliamo dell’emittente che ti ospita Ciao Como Radio. Quali sono le difficoltà e l’importanza di una radio locale come la vostra? Pensi che volumi e budget impattino sulla qualità del vostro lavoro e sulla musica che proponete?
CiaoComo è un portale d’informazione e musica con due anime: quella legata al sito web fortemente localizzata in termini di contenuti e quella musicale con l’emittente radiofonica. Nella parte in cui mi trovo e con cui interagisco, ammetto di sentirmi ed essere molto fortunato. Rispetto a molte altre realtà locali noi abbiamo a disposizione un’ottima struttura e ottime attrezzature, anche se la cosa più importante, aldilà degli aspetti tecnici, è la grande libertà di parola e opinione di cui disponiamo. Non siamo vincolati, non siamo politicizzati e a parte qualche autocensura sul linguaggio non subiamo nessun tipo di pressione esterna. In questo caso una dimensione più piccola e forse più umana riesce a concedere quello spazio di espressione che le major non hanno. Mi sembra un buon parallelo con quello che succede anche nella musica, spesso i più piccoli sono anche quelli più indipendenti. Per quanto riguarda i mezzi, che dire?, lo facciamo tutti per passione e facciamo in modo che budget quasi inesistenti non abbiano alcuna ripercussione sulla qualità del nostro lavoro, rimanendo comunque consapevoli dei limiti.

Altro tema caldo nel campo musicale è quello legato al digitale e al web. Tu e il tuo team come vi ponete nei confronti di questo tema. Siete tra i nostalgici del supporto fisico o favorevoli alla sua smaterializzazione? E con i social network?Amici o nemici?
Siamo dei grandi nostalgici del supporto fisico, chiediamo sempre ai nostri ospiti un loro cd. Credo che sia davvero un peccato che se ne producano sempre meno, anche se per me questo non ne sminuisce il valore. La sensazione piacevole nel maneggiare un cd, nell’inserirlo nel lettore non ha prezzo. Io personalmente sono uno di quelli che compra ancora molti dischi, soprattutto quando ne vale la pena. Il digitale è l’attualità e per quello che facciamo non potrebbe funzionare altrimenti, pensa che la maggior parte degli ascolti lo facciamo come webradio e attraverso i podcast. Quindi ci proclamiamo pro per necessità e possibilità del canale. Con i social network il rapporto è complesso, passami il termine, è una sorta di tregua forzata. Abbiamo la nostra pagina Facebook sulla quale promuoviamo il programma, i brani che passiamo e ovviamente i nostri ospiti, ma non siamo dei fanatici dell’interazione e non siamo intenzionati a creare una community. Ci stiamo attrezzando, però, con Spotify per la realizzazione delle playlist, perché comunque nonostante sia un’arma a doppio taglio siamo consapevoli di non poterne fare a meno.

Spostiamoci un po’ sulla musica, da speaker e quindi da ascoltatore privilegiato qual è la tua opinione sullo scenario italiano “Indie” attuale? Si parla spesso di nuovi volti, si ascoltano tanti dischi validi, ma alla fine chi fa numeri interessanti sono sempre gli stessi.
So che è un termine forte ma trovo lo scenario Indie italiano disarmante. E’ un discorso un po’ lungo e complesso, ma provo a sintetizzare. Per me la situazione odierna nasce da un problema culturale: mediamente il livello d’istruzione negli ultimi anni è aumentato e di conseguenza molta più gente ha avuto accesso ai mezzi culturali e non, e si è messa a fare della musica. Il risultato è tanta quantità scarsamente interessante intervallata da pochi picchi di reale qualità e soprattutto di novità. Ascolto tanta musica, ma veramente poca riesce a sorprendermi.  Per questo sentiamo sempre gli stessi nomi, perché in fondo sono gli unici che riescono a reinterpretarsi e produrre cose nuove. Tra l’altro quest’affollamento musicale rischia di far passare inosservate, o meglio inascoltate, band o album che sono davvero meritevoli. Quindi, mio malgrado, ritengo giusto che i numeri li facciano i soliti Afterhours e Teatro Degli Orrori poiché sono gli unici a riuscire a evolvere. Prendiamo lo Stato Sociale o i Cani sono usciti con album che possono piacere oppure no, ma che hanno riscosso un discreto successo di pubblico, cosa ne sarà di loro, riusciranno a fare il bis?Difficile fare una previsione, staremo a vedere.

Prima si salutari e farti un grande in bocca al lupo per la nuova stagione abbiamo le temibili ultime domandone. Non ti chiediamo del peggiore, ma ti va di raccontarci qual e stato il tuo ospite preferito?
Difficilissimo, io preferisco gli ospiti divertenti e che sanno prendersi in giro. Ci piace, durante quell’ora insieme, poter istaurare un dialogo e non dover vendere a tutti costi. Insomma l’ospite che funziona è quello che partecipa, ride, si diverte e non si limita a dare risposte secche alle nostre domande e provocazioni. Ti faccio un paio di nomi in primis i Black Beat Movement davvero simpatici e ironici si sono prestati ai nostri scherzi senza batter ciglio e i No Snow No Alps, che nonostante i problemi di lingua cercavano in tutti modi di parlare italiano, un po’ imbarazzante ma siamo sopravvissuti. Aggiungo che mi piacciono anche gli ospiti che hanno un buon background musicale e sanno dire cose intelligenti e interessanti ai nostri ascoltatori.

La tua personale 5 top list delle migliori uscite Indie del 2013?
–  Cantautore italiano Appino con Il Testamento.
–  Gruppo Fast Animals And Slow Kids con Hubrys
– Stranieri i Franz Ferdinand
Nemesi  con La Sottile Linea Grossa e Paletti con Ergo Sum, che in maniera diversa sono qualcosa di nuovo anche se non rispecchiano a pieno il mio gusto.
-Menzione d’onore per l’album a Woodkid con The Golden Age

Siamo giunti alla fine, ringraziamo Ivano per averci parlato della sua esperienza come speaker radiofonico e ascoltatore di musica e mostrato una diversa prospettiva sulla musica di cui si nutre la stessa Rockambula. Speriamo che queste righe e le premesse possano essere uno spunto per tutti e uno stimolo a non smettere di ascoltare buone radio, buona musica  e anche di continuare a leggere Rockambula.

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I 10 peggiori personaggi incontrati ai live estivi! Ci sei anche tu?

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Ed è finita un’altra stagione di concerti e festival, nonostante i tagli siano stati numerosi e abbiano ridotto di molto i live “delle grandi occasioni”. Non resta che programmare i concerti al chiuso che vorremmo andare a vedere nell’interminabile autunno-inverno e, nel frattempo, ricordarci la spensieratezza dell’estate. I pantaloni corti, le tipe in bikini e stivali anche a luglio perché gli stivali fanno Rock, le zanzare, la birra sempre sciacqua e sempre cara, il sudore del barbuto metallaro di fronte a noi, perché c’è sempre un metallaro a qualsiasi concerto, di qualsiasi genere e i rompicoglioni. E già… perché sì sì, che bello il live come momento di condivisione di una passione, sì sì che bello ritrovarsi lì, nello stesso posto, noi e centinaia di altre persone comenoi. Cazzate. Non ce la meniamo. A ogni concerto che si rispetti c’è sempre qualcuno con cui ciascuno di noi pensa di non avere proprio niente a che spartire. Esattamente come quando siete nella vostra spiaggia libera a leggere l’ultimo saggio che vi appassiona e di fianco a voi c’è quella che legge i romanzi Harmony o Novella 2000. O proprio come quando al mare siete lì a cercare relax e pace al largo, pensando a quanto sia bello farsi accarezzare dalle onde leggere e dal sole ma sentite dal bagnasciuga gente che impreca, starnazza o semplicemente passeggia con musica improponibile, a un volume improponibile che esce dal proprio smartphone, rigorosamente senza cuffie, così che tutti gli astanti possano compartecipare al cattivo gusto artistico del soggetto in questione.  Ai concerti è uguale. L’inopportuno, il rompicoglioni, quello che crede d’essere nel posto giusto e che magari si atteggia anche a grande frequentatore, grande appassionato, grande cultore e non ha mai imparato un minimo di etichetta. O quanto meno il vivere civile. Vogliamo ricordarli con voi, stilando un breve elenco che non vuole essere una classifica, ma solo una carrellata di macchiette da live con cui sicuramente vi sarete imbattuti anche voi. Così il quadro dei ricordi della nostra estate musicale può essere veramente completo. Eccoli:

1)      Il fotografo o cameraman raffazzonato che invece di guardare il concerto passa tutto il tempo con la macchina fotografica o il cellulare alzato impedendo anche a te di godere dello spettacolo. Nelle situazioni di scarso pubblico, alcuni s’improvvisano fotografi ufficiali piazzandosi nei posti più improbabili sul e vicino al palco.

2)      L’organizzatore di eventi che a fine concerto, palesemente ubriaco, blocca il cantante e ufficializza con contratto verbale una data a costo zero nel suo paesino, il prossimo anno, per la festa del patrono.

3)      Il fan che le sa tutte, le canta tutte, le canta male e, nelle pause, urla come una groupie di Justin Bieber in preda a crisi d’overdose. A fine concerto si lamenterà perché non hanno fatto il suo pezzo preferito nonostante per tutta la durata del live avesse suggerito la scaletta alla band, urlando il nome delle canzoni.

4)      L’indifferente e/o infastidito che dà le spalle al gruppo, rompe i coglioni chiedendo come possiamo apprezzare certa “roba”, sbuffa, si annoia ma dentro sta male perché vorrebbe scatenarsi anche lui. Non lo fa perché distruggerebbe la sua immagine di indie snob. Tende a sviare quando gli si chiede che cazzo ci sia andato a fare al concerto. Al limite risponde di aver avuto un accredito o di aver accompagnato qualcuno.

5)      Il giornalista. Ha avuto l’accredito stampa. Sta lì impassibile, passando il tempo a guardare ogni minimo movimento delle dita del bassista e giudicando ogni nota. Scatta al massimo un paio di foto che allegherà a un articolo, non balla, non ride, non può divertirsi. Lui sta lavorando. Ovviamente gratis.

6)      L’ubriaco che non ha neanche idea di chi stia suonando. Urla a caso, canta a caso, balla e poga a caso, litiga con quelli vicino, inveisce contro la band, sputa, suda (rigorosamente in canotta o a petto nudo) e ogni tanto vomita. Qualche volta è portato via dai buttafuori o da un’ambulanza.

7)      Lo spaesato. Ce l’hanno portato. Non voleva venire. Spesso è la ragazza o il ragazzo del fan. Non sa chi stia suonando e non sa nulla di musica che vada oltre Tv Sorrisi e Canzoni. Di solito ascolta la Pausini, Emma o Malika Ayane ma gli amici o il/la fidanzato/a non volevano lasciarlo/a solo/a di sabato.

8)      Quello che ci deve stare. Mocassino firmato viola, calzino leggero, pantaloncino lungo bianco, cinta a riporto, camicia di lino slacciata, petto abbronzato e depilato in bella vista, barba finto incolta e sorriso da piacione con cocktail in mano, per tutta la sera. Poteva suonare Gg Allin o i Pooh, lui sarebbe stato col gomito appoggiato a quel bancone.

9)      Il reduce degli anni 80 (anche 70). È sempre il più vecchio della serata, leggermente in sovrappeso; indossa una t-shirt di una vecchia band abbastanza nota ma senza esagerare. Ramones, Dinosaur Jr, Joy Division. Di solito è solo perché i suoi amici hanno famiglia, non beve troppo, non balla troppo, non si diverte troppo.

10)   Il commentatore. Ce ne sono di due tipi. Uno che parla bene di tutto e uno il contrario. Ti si piazzano di fianco e ti raccontano tutto sulla band, sulla serata, sul gruppo spalla, sulla loro vita, sulle loro passioni. Intervallano i momenti di semplice cronaca a considerazioni su quanto sia figo l’ultimo disco del gruppo, su quanto siano stati innovativi i riff del chitarrista o al contrario, si lamenta per il costo della birra, per l’assenza di parcheggi. Comunque, non sta mai zitto.

Sono anche loro che rendono speciale l’esperienza di un live che sia di un supergruppo o di una sconosciuta band Indie di Pavia. Ma inutile fare tanto i superiori, se leggi tra le righe, uno di questi dieci sei tu. Che numero sei? Io un misto tra cinque e nove.

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Crowdfunding: questo sconosciuto. Analisi di un fenomeno -musicale e non- in evidente espansione e intervista al team di Musicraiser e alla band Il Terzo Istante

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Il crowdfunding è una forma di autofinanziamento che gli artisti utilizzano per realizzare i loro progetti. Sembra molto chiaro, detta cosi. Non è un’idea nata in Italia, ma da qualche tempo si sta diffondendo fortemente nel nostro paese. Per dirla in breve e molto semplicemente, il meccanismo è questo. Una band decide di realizzare un album, un Ep, un video oppure di andare a suonare all’estero (come nel caso dei Christine Plays Viola) ma non ha soldi per realizzare questo progetto. Prima del crowdfunding la band, generalmente emergente, cosa avrebbe fatto? Si prova a suonare nei locali della zona, cercando di mettere da parte qualcosa, magari vendendo qualche gadget. Si risparmia in proprio o si chiedono i soldi a papà o a chiunque abbia la possibilità di elargire dei mini prestiti senza fare lo strozzino. C’era da sudare, insomma. Ora invece, le stesse band possono presentare il loro proposito a piattaforme specializzate che valuteranno la validità dell’idea. Una volta che il progetto è scelto, il gruppo realizza un video, dove può spiegare le proprie ragioni, promuovere il materiale in vendita oppure semplicemente far ascoltare la propria musica. Alla band è quindi assegnata una pagina all’interno della piattaforma, dove è presente quel video. Si fissa un budget da raggiungere che chiunque può visionare tramite un apposito contatore, un tempo massimo e vengono elencate tutte le offerte della band. L’utente potrà quindi acquistare uno dei prodotti e, alla fine del tempo indicato, se la somma prefissata è raggiunta, la band incasserà il tutto, meno una percentuale che resta nelle casse della piattaforma ospitante. Come vi dicevo è tutto molto comprensibile ma solo all’apparenza. Tale sistema ha generato un’infinità di polemiche legate a diversi aspetti. Chiariamo una cosa. Le band non si limitano a vendere Cd, file audio, T-shirt e spille. Possono far pagare un euro in più un Cd autografato, commercializzare una loro telefonata a casa o la presenza a cena con voi. Cose che non c’entrano molto con la musica. Tutto questo, per alcuni, somiglia a una disperata elemosina web. Inoltre, pone le band in un atteggiamento antipatico (dovresti essere te sconosciuto, a essere felice di farmi un autografo e non io a pagarti) nei confronti del pubblico. Inoltre, molti progetti mirano alla realizzazione di un disco che è anche l’oggetto in vendita. Quindi il pubblico paga qualcosa che non esiste ancora, in realtà. Insomma, la cosa non è proprio cosi naturale e sul web potete leggere infiniti articoli contro. Io ho le idee molto confuse. Non vedo nulla che riporti al concetto di elemosina perché, in fondo, si vende qualcosa. E anche quando si chiede un semplice sostegno economico, non vedo perché debba essere chiamata elemosina, visto che in chiesa si chiama offerta. Le parole sono importanti. In merito al rapporto col pubblico, anche qui non penso che possa essere il crowdfunding elemento di allontanamento. Primo perché, trattandosi di band spesso sconosciute ai più, chi partecipa al progetto è di solito già fortemente fidelizzato con il suo piccolo pubblico. Inoltre, molte delle cose (in senso ampio) in vendita sono proposte in maniera ironica (vedete la pagina dei Twiggy è Morta, ad esempio) e divertente, senza arroganza. Anche sul discorso dell’acquistare qualcosa che non esiste, non è certo pratica nuova. Succede con le case, le auto e in fondo, se il progetto non si realizza, mi sono restituiti i soldi. Nessun rischio. Su questi punti sono riuscito a farmi un’idea ma evidentemente non ho ancora molto chiara la visione generale. Inoltre ci sono altre questioni che non vi ho posto e che, tra gli articoli che ho letto, nessuno ha sollevato fino ad ora. Ho fatto quindi la cosa migliore che potessi. Mi sono rivolto direttamente all’agenzia italiana più importante del genere: Musicraiser. Ecco cosa mi hanno risposto.

P.s. Il crowdfunding non è un concetto applicato solo alla musica, ma a Rockambula questo interessa

Crowdfunding. Di cosa si tratta? E Musicraiser?
Il crowdfunding é la web resource culturale, finanziaria e politica che permette a qualunque cittadino di poter contribuire a una causa in cui crede o di proporre il proprio progetto al vaglio della rete al fine ottenere finanziamenti in cambio o meno di un corrispettivo proporzionato all’impegno economico sostenuto da chi partecipa alla campagna che può consistere in:
–           Quote societarie (nel caso di una società di capitali) o percentuali di guadagno su un progetto che ha l’obiettivo di conseguire profitti. (Equity based crowdfunding)
–           Ricompense che possono consistere in qualsiasi bene materiale o immateriale, fisico o digitale che i creatori dei progetti offrono in cambio del contributo a chi crede nella realizzazione del loro progetto. (Reward based crowdfunding) Questa tipologia di crowdfunding riguarda prevalentemente progetti di carattere artistico (cinema, musica, fumetti, design, editoria etc.)
–           Nulla di materiale se non la soddisfazione di aver contribuito ad aiutare una causa che riguarda una situazione di difficoltà di un singolo o di un gruppo di persone (Donation based crowdfunding). Progetti di raccolta fondi per lo più lanciati da ONLUS, associazioni no profit o cittadini privati appoggiati da piattaforme dedicate.
Il crowdfunding può essere “diretto” ovvero se lo si crea sul proprio sito autonomamente, oppure può essere “ospitato” su una piattaforma che offre il servizio di raccolta. Il crowdfunding può prevedere un obiettivo economico che, solo se raggiunto, da diritto a ricevere il finanziamento (altrimenti i contributi vengono restituiti a chi li ha versati) il cosiddetto “All or nothing model”, oppure può prevedere che, nonostante il non raggiungimento dell’obiettivo di raccolta, i fondi restino al creatore del progetto, il “Flexible model”.
Esistono al mondo circa 600 piattaforme web di crowdfunding di cui il 60% negli USA e il restante 40% nel resto del mondo. In Italia sono una ventina circa.
Le piattaforme di crowdfunding possono essere “orizzontali”, nel caso in cui ospitano progetti di diversa natura (dalle cause umanitarie alla lista di nozze a progetti creativi), oppure “verticali”, cioè focalizzate in un settore specifico. Es. cinema oppure musica oppure sport etc.)
Il presidente degli USA Barack Obama ha usato il crowdfunding per finanziarsi la campagna elettorale del 2008 attraverso una campagna di crowdfunding.

Musicraiser è una piattaforma di crowdfunding di tipo reward based verticale sulla musica che adotta l’All or nothing model. Musicraiser offre il servizio di raccolta fondi ai musicisti e agli altri operatori del settore musicale (case discografiche, promoter, festival, agenzie di booking, videomaker etc.) e non detiene alcun diritto intellettuale né d’autore sui contenuti ospitati sul sito.
In questo momento ospitiamo sul nostro sito un numero di campagne di crowdfunding attive per progetti musicali che ci colloca tra le prime tre piattaforme in Europa per raccolta in valuta Euro.

Chi garantisce al pubblico che i soldi raccolti saranno spesi interamente per il progetto indicato? Coloro che creano un progetto su Musicraiser, che noi chiamiamo Creators, cosi come quelli che lo fanno in qualunque altro sito di crowdfunding, s’impegnano a onorare i propri impegni. Se il progetto riceverà più fondi di quelli richiesti, sarà cura del creatore del progetto comunicare ai finanziatori come utilizzerà le ulteriori somme ricevute.

Ad esempio ho visto una band che cercava di finanziarsi la partecipazione a un festival in Austria. L’acquisto del disco e del merchandising è legato direttamente a questo?
Vorrai dire che cercava fondi per sostenere le spese di viaggio per partecipare a un festival in Austria… In ogni caso la risposta è sì, se vuoi contribuire alle spese di un importante step di una band che crede in se stessa e soprattutto in cui TU credi, puoi contribuire al progetto per avere in cambio una copia del loro disco o quello che hanno destinato come “ricompense”. Si tratta di un finanziamento con destinazione d’uso in cambio di una ricompensa.

Se la band, per un motivo o per un altro, non può più andare a quel festival, deve restituire i soldi, anche se in realtà ha venduto il prodotto?
Premettendo che per fortuna (soprattutto per le band) una cosa del genere non è ancora capitata, ti dico che in queste estreme eventualità sarà l’artista che provvederà a contattare i propri finanziatori e a chiedere loro se pretendono un rimborso o se, avendo ricevuto la propria ricompensa, saranno soddisfatti in ogni caso.

Alcune band propongono, in cambio di soldi, la possibilità di scegliere, ad esempio, abiti di un concerto oppure la scaletta. In questo caso chi garantisce che la band mantenga le “promesse”?
Ogni artista è libero di offrire le ricompense che vuole (l’unico limite è la legge e la propria creatività) in cambio dei contributi dei suoi sostenitori così come i suoi sostenitori sono liberi di contribuire al progetto o meno. E’ una questione di fiducia e ne risponde sempre il creatore del progetto che si assume l’onere di provvedere alla consegna delle ricompense una volta che il progetto è stato finanziato con successo. Musicraiser é solo uno strumento e il rapporto legale, fiscale e fiduciario che lega il creatore del progetto al proprio finanziatore è deputato all’artista che crea il progetto. Tutto questo è indicato chiaramente nelle F.A.Q. e nei Terms of use della nostra piattaforma.

Tra le diverse critiche, quella che mi ha colpito di più non è tanto di chi ha definito il crowdfunding “l’elemosina del terzo millennio”, ma piuttosto di chi afferma che qualche anno fa, se chiedevi a una band emergente un autografo, la stessa ne era entusiasta mentre con questo sistema un gruppo di sconosciuti ti fa pagare anche una telefonata. C’è il rischio che le band si allontanino dal pubblico invece che il contrario?
Sarebbe elemosina se in cambio del proprio sostegno i finanziatori non ricevessero nulla in cambio del proprio contributo. Ma se con il crowdfunding impegni € 10 per ricevere l’album di una band che ami, sapendo che nel caso il progetto non raggiungesse l’obiettivo economico prefissato, i tuoi soldi ti saranno restituiti, non è esattamente come comprare in prevendita una copia del loro prossimo album?  Che c’è di strano in questo?
Quanto all’atteggiamento di alcuni artisti dipende solo dalla loro personale maturità umana.  Non siamo attrezzati per effettuare controlli in merito alla dose di egocentrismo dei musicisti che si propongono sulla nostra piattaforma, ma assicuriamo uno scrutinio scrupoloso sulla credibilità artistica e professionale prima di accettare i progetti. E poi anni fa noi non c’eravamo, la piattaforma è on line da appena cinque mesi.

Mi pare di aver capito che l’artista si tiene i soldi solo se viene raggiunto l’obiettivo.
Esatto, in caso contrario l’artista non riceve nulla, Musicraiser non guadagna nulla e i finanziatori del progetto verranno interamente rimborsati della cifra impegnata. Zero rischi. Come dicevo prima il nostro sistema si basa sul modello “All or nothing” (tutto o niente).

Voi vi tenete il 10%. Quindi una band che non raggiunga l’obiettivo avrebbe vantaggio ad autofinanziarsi, cosi da intascare quanto versato fino a quel momento dalla gente. Obiettivo 1000€, la gente versa 500€, manca un giorno. La band aggiunge i 500€, piuttosto che fallire lo scopo e restituire tutto. Meccanismo un po’ ipocrita e pericoloso, forse?
Ci teniamo il 10% più iva. È il minimo indispensabile per reggere le spese del sito. Inoltre addebitiamo anche le spese di transazione tramite carta di credito (che a nostra volta ci sono addebitate da paypal). Pensiamo che sia una percentuale onesta e che può non incidere economicamente sull’esito di una campagna. Aggiungo che tre campagne finanziate su quattro terminano la raccolta con percentuali di riuscita superiori al 110% (il record è stato fatto dalla campagna di Gianni Maroccolo che ha raggiunto il 304% raccogliendo più di € 27.000, la maggior parte si attesta intorno al 130%) quindi se l’artista è bravo a promuoversi può ripagarsi in parte o del tutto le competenze di Musicraiser. Considera che il nostro servizio prevede anche una promozione on line e off line che permette a una campagna di crowdfunding di diventare anche un’ottima occasione per far parlare di se e acquisire immediata visibilità soprattutto sul web ma anche sulla carta stampata. Molti artisti che sono passati da Musicraiser hanno raddoppiato i loro contatti social alla fine della campagna. Questo grazie anche al nostro widget gratuito, un’applicazione che permette di replicare la campagna di raccolta fondi direttamente sulla pagina facebook degli artisti. Inoltre Musicraiser promuove a proprie spese i progetti che reputa più interessanti o più originali.
Per quello che riguarda l’ipotesi che un creatore di progetto che si auto finanzi la campagna per la parte residuale della somma che gli serve a centrare l’obiettivo e ricevere così il denaro, posso dire che ciò non accade spesso ma può capitare e non possiamo impedirlo tecnicamente né noi di Musicraiser né qualunque altro sito di crowdfunding. Questo perché le piattaforme di pagamento on line (tipo paypal, che ci fornisce il servizio) sono costruite con codici di programmazione che non prevedono eccezioni di tipo etico purtroppo.  Potrebbe essere discutibile centrare l’obiettivo versando soldi propri ma potrebbe anche essere che il creator li abbia raccolti off line o li abbia anticipati per qualcuno e li versi a suo nome per chiudere la campagna. In questi casi non ci vedo nulla di pericoloso o d’ipocrita.

Sicuramente la situazione è migliorata rispetto a qualche giorno fa, ma per chiudere il cerchio ho chiesto a Marco Lavagno di fare qualche domanda in merito ad una band che ha deciso di utilizzare questa forma di finanziamento (che io preferirei chiamare vendita). Quello che ci hanno risposto lo leggerete giovedì prossimo, nella seconda parte del nostro articolo.

to be continued…

Ecco un esempio di video di presentazione:

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