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Remains in a View – Elegies
Written by Salvatore Carducci• 16 Novembre 2013• Recensioni
A distanza di quattro anni dall’ultimo lavoro i sulmonesi Remains in a View tornano sulle scene con Elegies, album che affonda le sue radici più intime e profonde nella seconda ondata Metalcore di metà anni novanta, i cui esponenti di spicco (Killswitch Engage, Trivium, Avenged Sevenfold, Atreyu) cristallizzarono le proprie sonorità filtrando l’esperienza Punk Hardcore degli archetipi (Agnostic Front, Biohazard, Suicidal Tendencies) attraverso la tormentata e struggente esigenza melodica mutuata dal Death Metal di area scandinava (più precisamente, svedese: In Flames, Dark Tranquillity, At the Gates). I Remains in a View, incanalandosi perfettamente in questo filone, propongono con Elegies nove tracce in cui una brutalità primordiale e selvaggia trova la sua ideale controparte nella costante rappresentazione di schemi armonici sognanti, rifuggendo tuttavia la seducente tentazione di incedere, come troppo spesso accade, nell’agevole sentiero del romanticismo più melenso. Un calderone sonoro coerente (e perciò credibile), da cui emerge nitidamente un’invidiabile perizia tecnica ed una fervida capacità compositiva (esplicitamente influenzata dal prolifico songwriting di band come Darkest Hour, August Burns Red, Texas in July), il tutto suggellato da una produzione cristallina e possente, estremamente curata nel cesello di ogni minimo dettaglio, in grado di conferire ad ogni singolo momento dell’album la giusta connotazione estetica e formale, l’adeguato posizionamento all’interno di una struttura armonica in continua evoluzione/oscillazione.
Elegies si configura come una discesa dantesca nel baratro della schizofrenia più contorta e disperata – luogo remoto, inaccessibile e segreto dove i turbamenti, le angosce, le ipocrisie dell’umana quotidianità vengono costantemente scarnificate e messe a nudo dal monolitico drumming di Giacomo Ficorilli (particolarmente letale nei sanguinolenti blast beats di “Shipwreck of Existence”, “So Far from the Truth” e “The Deepest Black”), dalla camaleontica versatilità dell’impianto chitarristico, perfettamente a suo agio nel destreggiarsi tra complesse partiture al cardiopalma (vedi “Crossing the Line”, “Left Undone”, “Travelers”) e rappresentazioni pittoriche di immagini indistintamente nostalgiche, quasi svanite (come nell’evocativo incipit di “Sleepwalker Blues”, ad esempio), dai continui stupri vocali perpetuati dal singer Davide Mancini, (oggettivamente impeccabile nell’improvviso alternarsi di growl, scream e clean vocals).
Probabilmente un paio di assoli non avrebbero guastato, così come una maggiore attitudine introspettiva (sulla scia della già citata “Sleepwalker Blues”, per intenderci) e magari qualche sproloquio matematico di scuola Meshuggah. Tuttavia, come si suol dire, “Roma non é stata costruita in un giorno”, e indubbiamente i nostri quattro sulmonesi ne hanno di tempo da spendere.
“Fin qui tutto bene”, direbbe Hubert.
Continuate così.