Terzo disco per i Fuck Buttons, duo elettronico di gran moda proveniente da Bristol. Bando alle ciance e prepariamoci ad immergere la testa in questi sette brani strumentali che promettono fuoco, fiamme, elettronica e rumore. Partiamo con “Brainfreeze”: è una cavalcata onirica, sorretta da un’artiglieria di percussioni infuocate e inarrestabili che affondano in un crescendo Noise apocalittico. È ciò che balleranno sulle ossa dei morti di domani i nostri discendenti, quando la Terra sarà un sasso abbrustolito rotolante in uno Spazio sempre più vuoto, o quando le macchine avranno vinto la loro guerra contro noi organismi al carbonio. Una roba così.
Segue “Year of The Dog”, arpeggiatori e fantasmi, cose che strisciano, case infestate, fuochi fatui nella nebbia, enormità percepibili nella distanza. Rimane, dal primo pezzo, il senso di qualcosa che incombe, sviluppato in crescendo e improvvisi vuoti. Con “The Red Wing” si torna ad una realtà più contigua. L’inizio potrebbe sembrare la base di un pezzo rap, con quel suono campionato, come di campanelli, acuto e perforante, che ci fa muovere la testa su e giù… se non fosse per i lievi spostamenti, per così dire, laterali, che fanno capolino qua e là tra la ritmica secca e ossessiva e i synth, scuri e gonfi al principio, poi taglienti e aperti, panoramici, che ci avvolgono mentre la canzone prosegue, passo dopo passo, come un Godzilla afroamericano che avanza a ritmo.
La ritmica è il lato migliore dei Fuck Buttons. Se non lo avessimo ancora capito, arriva “Sentients” ad insegnarcelo, con un intro martellante di suoni percussivi elettro-tribali e strida meccaniche. Un pezzo sul quale ballerebbe breakdance una crew di robot. Almeno finché non arrivano i synth, in un’entrata come la farebbero i quattro Cavalieri dell’Apocalisse, o le Sette Trombe del Giorno del Giudizio. L’incombenza di un Destino, di una Fine non troppo rosea pare essere un marchio di fabbrica dei Fuck Buttons, insieme all’andamento “in salita” che quasi tutti i pezzi, fino ad ora, hanno mostrato. E invece, con “Prince’s Prize”, i due di Bristol ci spiazzano e paiono, almeno all’inizio, giocherelloni e light-hearted. Quest’atmosfera playful resiste? Non troppo: prima del minuto e mezzo giungono le percussioni e l’andamento diventa più serrato, più pressante. È il brano più breve, e forse il più scorrevole: degna preparazione della combo finale, due pezzi da più di 10 minuti l’uno.
Il primo, “Stalker”, è una scalinata di pietra verso un cielo plumbeo. Synth sporchi e pesanti come piedi di golem pestano su una batteria asimmetrica e zoppicante, mentre i soliti arpeggiatori brillano nella distanza, vibrando per punzecchiarci le orecchie. Poi, eccoli: raggi di luce tagliente tra le nubi, come le dita di Dio, che avvolgono tutto in un’apertura da manuale ancora prima della metà del brano. Sono oceani di synth spalancati sul caos come archi, come onde. E la salita continua, e cresce: la scalinata diventa un serpente-drago che si morde la coda salendo, a spirale, nel confine sottile tra il buio e la luce. Concedetemi l’immagine: “Stalker” è un viaggio onirico, non c’è altro modo per descriverlo compiutamente – saremmo costretti a limitarci (ammesso che sia possibile farlo) alla fredda descrizione di ciò che percepiamo, e non basterebbe a spiegarvi davvero il potenziale di un brano di questo tipo. Quando “Stalker” si spegne, non riesco a credere che siano già passati dieci minuti. E mi tengo forte, aspettando l’ultimo pezzo. Iniziamo, come sempre, in sordina: un battere distante, graffi acuti ad altezza occhi, e poi un ringhio di synth riempie il centro della scena. Quando la ritmica arriva, la sto aspettando: Slow Focus avanza coerentemente, qualcuno potrebbe dire noiosamente, ma la forza dei Fuck Buttons sta anche in questo: se il pezzo ti prende, non te ne frega un cazzo di cosa si ripete e cosa no. Segui il flusso, la marea, la corrente, e ti ritrovi chissà dove.
E infatti, abbandonandomi a “Hidden XS”, mi trovo ad un certo punto in un vortice acido, sopra un treno argenteo che sembra un proiettile, e ad un certo punto il vortice si ferma, i binari scompaiono e il treno sembra sospeso nell’aria, immobile, a levitare al rallentatore. Aspettiamo la caduta stringendo i braccioli del sedile: ma il volo prosegue, leggero, in una sequela di accordi che sembrano suggerire un’epifania, una rivelazione; e si sale, sempre più su, sempre più veloci, sempre più in alto, quasi ferocemente, disperatamente – fino a scomparire nella luce immensa di un Sole accecante. Slow Focus è un abisso, una labirinto nel quale sprofondare, lasciandosi illuminare, a poco a poco, dalle apparizioni del subconscio. Non è esente da difetti: i pezzi seguono spesso, come dicevo, lo stesso tracciato, e l’atmosfera complessiva non è quasi per nulla variegata (il senso di progressione in crescendo, le ritmiche ansiogene e primitive, l’apertura verso la metà, la rivelazione, la chiusura rarefatta finale). Tolto questo, i Fuck Buttons ci hanno regalato la possibilità di gettarci a capofitto nelle stanze del sogno, quello vero: brutale, primevo. E noi accettiamo l’offerta, e ci prepariamo alla partenza: orecchie, cuore, cervello.