Da quando il chitarrista solista della mia band, nonché compagno di liceo, mi passò ormai molti anni fa una cassetta con sopra scritto Joe Satriani pronunciandomelo come un Dio sceso in terra, il mio rapporto con il Rock strumentale ha subito avuto un rapporto difficoltoso. Virtuosismi a parte, il fastidio di non ritrovare parole e melodie vocali in un brano di 5 minuti scatenava in me noia e una leggera incazzatura nel riconoscere grandi riff sprecati in assoli che, benchè orecchiabili, risultavano di esagerata lunghezza. Facile dire che gli strumenti parlano il loro linguaggio. Io sono onesto con me stesso e mi tengo le mie tare mentali. E con questi pregiudizi attacco la recensione dei miei concittadini Ronny Taylor. La band nasce nel 2010 a Torino in mezzo ad altre realtà della zona (i ragazzi hanno militato in Oh No Its Pok, Into My Plastic Bones) che portano a mischiare sonorità e un bordello sempre sapientemente ammaestrato. Sprazzi di Funky, riff Heavy Metal vecchio stampo, synth e tastiere che aprono universi paralleli. Indubbiamente anche un cervello limitato come il mio non può che riconoscere già da subito una potenza inaudita in questo quartetto.
Copiano la copertina di Songs For the Deaf dei Queens of the Stone Age e jammano come dei dannati in questa mezz’ora di musica pura e cruda che è il loro primo vero lavoro in studio: Dateci i Soldi. L’intro dal sapore demenziale introduce al Rock duro di “Power Rangers”. Il basso simula uno spietato senso di vertigine mentre la chitarra macina licks e assolazzi (anche questi molto orecchiabili) senza mai scadere nella trappola del tecnicismo. Il perfetto incastro degli strumenti si ripete in “1945”. Le atmosfere si dilatano in un perfetto viaggio che nulla ha da invidiare agli anni d’oro del Progressive. Stortissima è invece “Clouds” con in mezzo anche un piccolo pseudo-rap che fitta benissimo con le ritmiche serrate dell’instancabile Mario Rossi. Non mancano ironia, fantasia e (senza farne abuso) tecnica. Sopra tutto però sta una nutrita dose di follia che porta a scrivere un brano come “My Chemical Orecchioni”. La follia non si ferma al bizzarro titolo ma fa sfociare un giro di basso funkeggiante in un assolo di tastiere che ricorda il compianto John Lord e le sue magie tra Classica e Blues. Per chiuedere il pezzo in bellezza, la chitarra di Giuseppe Franco si infila con un epico assolo. No, la mia tara rimane sconfitta. Siamo al sesto brano e la noia qui non riesco proprio a percepirla. Forse perché questa è una vera band e sa suonare live, anche su disco. Senza scadere in artefatti o in produzioni esagerate, solo quattro ragazzi bravissimi col loro strumento che suonano ore e ore in sala prove e escono con pezzi che li fanno divertire e che divertono (stranamente) pure l’ascoltatore in questione. Sinceramente, date le mie tragiche premesse, non potevo proprio aspettarmi di meglio.