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Sixty Drops – Zodiac

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I Sixty Drops sono un collettivo abruzzese che in tempi di auto-tune, casse dritte o distorsioni cattive ha deciso di andare controcorrente tornando alle pacate sonorità Trip Hop di una Bristol anni 90. C’è da dire che sono passati un po’ di anni da quando “Teardrop” dei Massive Attack (1998) ha colonizzato anche le orecchie dei più sordi, ed anche se successivamente Tricky ha aggiornato il genere introducendo elementi elettronici più movimentati, comunque l’essenza di quell’atmosfera sonora opaca e al confine tra tristezza/speranza è rimasta la stessa; e soprattutto sembra rivivere ancora nelle note di Zodiac. L’EP d’esordio di questi baldi giovani si compone unicamente di tre tracce, poche forse direte voi, ma in fondo si preferisce la quantità o la qualità? Io opto per la seconda e ribadisco che qui la qualità sonora non manca. Si inizia con “Nelumbium”, cinque minuti tra beat Hip Hop, suoni Dark, delay ed un botta e risposta tra Jacopo Santilli e Ludovica Mezzadri, due voci che danno il meglio di sé quando risuonano all’unisono. “Down the Light Zone” si lascia invece l’oscurità alle spalle per dare spazio a sonorità Jazz e Chillout, creando una traccia pacata che mette in risalto il basso di Lorenzo Lucci. Si finisce con la strumentale “The Japanese Sundance” che di giapponese ha ben poco (se non dei synth/campana che appaiono sporadicamente), ma che invece di Dance o meglio di “dolce” Industrial ha molto. Il cerchio di Zodiac si chiude in modo incazzato e turbolento, quasi a voler ribaltare la pace dei sensi con cui si è aperto, ma, anche se la traccia è realizzata egregiamente, purtroppo il risultato è quello di lasciare l’ascoltatore spiazzato da un brano che poco centra con il resto dei suoni e le emozioni suscitate in precedenza.

Mettetevi delle buone cuffie, oppure dotatevi di due ottime casse per ascoltare i Sixty Drop perché la fatica e l’impegno messo nella ricerca dei suoni e nel mixaggio si devono poter sentire ed essere ripagati. Quindi per favore lasciate nel cassetto le cuffiette da cinque euro e godetevi questo viaggio con coscienza e magari perdetevi nell’inquietudine umana intrinseca in ognuno di noi.

Qui sotto, ed in esclusiva per Rockambula trovate l’EP in streaming. Buon ascolto!

Nelumbium

Down The Light Zone ( Ft. Lorenzo Lucci )

The Japanese Sundance ( Instrumental)

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7Years – Psychosomatic

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Non è semplice fare qualcosa di nuovo nel panorama musicale nostrano e non solo. Spesso sembra che tutto sia stato detto, spesso non si hanno i mezzi tecnici per andare oltre, spesso si manca di creatività o ci si accontenta di suonare qualcosa che piaccia senza chiedersi se possa piacere ad altri o se possa aggiungere qualcosa a quanto tanti hanno già detto prima di noi. E quest’ultimo punto sembra riguardare i 7Years che si sono coraggiosamente autoprodotti il loro Psychosomatic, disco di tredici tracce e tanta energia, che fin da subito si colloca a gamba tesa in un genere più che quotato, il Punk Rock, e non si schioda mai da lì se non, in parte, sull’ultima traccia.

“Run Away” apre le danze (o meglio il pogo): super tiro, cazzutissimo un po’ alla Backyard Babies, vien subito da chiedersi come dev’essere un concerto di questi ragazzi. Segue “Kill me Now” e neanche mi ero accorta che avessero cambiato traccia, grossa pecca, che già dovrebbe far riflettere sul poco margine che il genere lascia tra i suoi stilemi e sulla poca personalizzazione dello stesso da parte della band. “Breeding Grounds” è velocissima, tiratissima e sempre portata avanti: sicuramente molto bravi dal punto di vista tecnico, sarebbe facile a questa velocità tirare indietro i pezzi e perdere gradatamente di tensione e invece non mollano mai la presa. “Drown” è più ariosa e orecchiabile, con un bel riff alla Hardcore Superstar, “Still Lake” suona iper iper americana, mentre la title track “Pychosomatic” è caratterizzata da un palm muting delle chitarre che si alterna ad accordi pieni e giochi di voci, a tratti con qualche reminescenza dei Soundgarden di Superunknown. Quando si arriva a “Just You and I” bisogna proprio riconoscere che non hanno smesso un secondo di tirare mitragliate di note senza sbavature e incertezze, pur tra tutti i cliché del genere, che alla lunga possono annoiare chi non è proprio uno sfegatato cultore. “A Reason to Smile” è ben fatta, sicuramente, e dal vivo probabilmente rende molto di più che in studio; “Sons of a Beach” bel riff che gioca sulla modalità, ma il discorso resta: ormai abbiamo capito tutto dei 7Years e non c’è più niente da scoprire già da qualche traccia. “Never Alone” inizia con una voce registrata, un dialogo tra una madre e un bambino piccolo, e poi parte durissima, cattivissima e distortissima, quasi accelerata per tutta la strofa. “Remove” prosegue sulla falsa riga della precedente, mentre in “Animals” c’è la registrazione dell’intervento di Silvio Berlusconi sulla bandiera americana, in cui sfodera un inglese più che maccheronico. “Faith” ha un intro stranamente diverso da tutto il resto del disco, sonorità molto più meditate e atmosfere ariose e aperte, che, naturalmente, cedono subito il passo alla distorsione e all’energia, questa volta più in stile Foo Fighters.

I 7Years sono dotatissimi dal punto di vista tecnico e sguazzano ormai nel loro genere, padroneggiandone bene tutti i tratti stilistici caratterizzanti. L’augurio è di non accontentarsi e sapere andare oltre, chiedendosi cosa possono aggiungere di proprio e trovando una dimensione più personale. In bocca al lupo.

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Secret Colours – Peach

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Cover semplicissima a sfondo bianco, con un bel frutto sopra (peach, pesca), iperrealistico, niente di sfumato o stilizzato e al centro una scritta, secret colours, dai colori caldi e dallo stile liquido e deforme. Tutto questo non può che stimolare un accostamento con la gigantesca band di Liverpool più famosa di Gesù Cristo che chiamano Beatles. Ovvio che la prima cosa che ci si immagina, una volta pigiato quel maledetto tasto play, sia un vortice di beat e psichedelia poppettara la cui illusione però presto sarà risucchiata da ritmiche devastanti e un sound molto più sporco e sessuale del previsto. Con i Fab Four faremo i conti solo alla fine.

Il primo passo, quello che darà il ritmo e il tempo a tutte le canzoni, sarà disegnato sì dall’aspetto psichedelico (“Blackbird (the Only One)”, “Legends of Love”), grazie primariamente all’uso peculiare della sezione ritmica e a una vocalità galleggiante di effettistica, eppure questi elementi s’insinueranno in tutta l’opera senza dare mai precisa immagine di sé, riconoscibile e manifesta, come la copertina appunto poteva lasciar vagheggiare, cavalcando l’onda generata nei 90 da band come gli Spaceman 3 (i riferimenti principali del disco) anch’essi capaci di mescolare Blues e Psichedelia in chiave moderna. La psichedelia dei Secret Colours guarda agli anni Sessanta senza volerne depredare le esaltazioni chitarristiche, sposando invece piuttosto alcune eteree linee di chitarra in perfetto linguaggio Raveonettes, quasi Dream Pop se vogliamo.

La vera potenza di Peach, però, sta nella prestanza del suono e nella sua purezza che riesce a sfruttare con totale meticolosità le convenzionalità del Blues (“Euphoric Collisions”, “World Through my Window”, “My Home Is in your Soul”), adattate ora a minimi aspetti Neo Gaze, ora soprattutto al Brit Pop nineties (“Peach”) oscillando tra Blur e Gorillaz del tipo non rappeggiante (“Me”).  Dunque chitarre Blues (oltre a Evans, c’è Dave Stach) e ritmiche morbose e lisergiche dettate da Justin Frederick (batteria) ed Eric Hehr (basso), unite alla voce fluida e fusa di Tommy Evans, tutto offerto su di un’altalena che oscilla tra intimità e potenza, facendo risaltare i vertici compositivi  proprio ad alcuni dei suoi estremi, nelle sfuriate Garage Revival (“Faust”, ”Lust”) e soprattutto nel ricordo labile di certi Primal Scream, memoria che quando si fa più impetuosa regala un brano che da solo vale l’intero ascolto del disco (“Blackhole”) e che potrebbe fare la fortuna di tanti Dj Rock della penisola proprio per la sua capacità di sfruttare i beat ballabili con le note del Rock.

Poi c’è da fare i conti con i Fab Four, non mi sono dimenticato di loro e allora arriva a sprangare Peach la struggente “Love Like a Fool” e il cerchio si chiude, con sessanta minuti di musica che forse sono troppi solo perché fuor di misura sono le tredici canzoni che li compongono. Almeno quattro sono i brani inutili che danno come risultato solo un seccante senso di indigeribilità. Qualche brano in meno e avremmo avuto tra le mani uno dei migliori dischi dell’anno, considerando che l’album è uscito in Europa solo il 10 Febbraio, mentre cosi ci tocca, dopo averlo ascoltato una decina di volte e avere ancora la voglia di farlo, premere skip più del dovuto/voluto e di cambiare quel bel voto messo di pancia sulle note di “Blackhole”, in un modesto sette messo di testa.

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Le Chiavi del Faro – La Furia degli Elementi

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La Furia degli Elementi: il titolo di questo primo lavoro degli umbri Le Chiavi del Faro è azzeccatissimo. Partiamo subito con il dire che in questo disco c’è veramente tanta (troppa?) roba. I tre definiscono la loro musica Free Funk, ma diciamo che l’accento va messo, senza dubbio, sulla parola free. Il disco infatti miscela di tutto, dall’elettronica giocattolo, fuori posto, di “1-2 (IN)” (che prosegue nelle successive “3 (CON)”, “4-5 (SCIA)” e “6 (MENTE)” – scelta che mi sento di non condividere, sembra un EP piazzato forzatamente dentro ad un disco che è tutt’altro), al sax in salsa progressive di “Tentativo Numero Uno”, al “Post-Funk” con cui aprono le danze, nei sette minuti e rotti di “Tormentati alla Ricerca dell’Obbiettivo Comune”.

A Le Chiavi del Faro va dato atto di non risparmiarsi su nulla, e di seguire le loro inclinazioni con una libertà rara, che permette loro di arrivare veramente ovunque. Il rischio (che qua è certezza) è di creare un prodotto magmatico, “furioso”, per l’appunto, dove si fa fatica a trovare capo e coda, le tracce, almeno, di un discorso, di un percorso. Musicalmente il trio gira, sa inventare e re-inventare, suona anarchico e spaziale, con attimi di quasi Post-Rock atmosferico (“Cambiamento”) da un lato e groove virtuosistici dall’altro (“Le Macchine Straordinarie”, “La Morte del Fuoco”). Manca una direzione, ma può essere una scelta, e se di scelta si tratta, è solo (!) questione di arrivare alle orecchie (e alle teste) giuste. Discorso a parte per il cantato, che sembra sempre un po’ fuori luogo, messo lì a caso, con linee melodiche che sanno di vecchio, tra accenti dislocati, un suono troppo neutro sopra la follia strumentale, e testi che non riescono proprio ad arrivare. Forse ci voleva più coraggio (poco, pochissimo in più di quello che già c’è – ed è tanto!): fare un album strumentale di musica infuocata, tempestosa, devastante, senza parole ad interrompere questo flusso inconscio, questa esigenza psicofisica, come la chiamano loro, dove comunque appare chiara e lampante la necessità, l’ansia, l’urgenza di fare, di creare. Un po’ di controllo in più, qualche ingenuità in meno e il disco avrebbe acquistato spessore e importanza. Così sembra un’eruzione vulcanica caotica, un maelstrom senza direzione. La capacità c’è, si può fare di meglio, senza la necessità di voler stupire a tutti i costi. Aspettiamo il seguito.

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Euphorica – La Rivelazione

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Indubbiamente è quasi impossibile comprendere e percepire la distanza tra il mondo reale, quello dei megastore, dei dischi venduti, dei passaggi televisivi, dei video su Mtv e volendo anche Rock Tv o altri canali radiotelevisivi pseudo alternativi come quello XXX (mi autocensuro perché non abbiamo necessità di un’altra denuncia) di Virgin Radio e ciò che è il mondo di noi rincoglioniti che incurvati sul pc divoriamo recensioni su sfigate webzine, inseguendo una next big thing che in realtà non avrà mai un futuro, ascoltiamo migliaia di dischi e brani sconosciuti, provando a scorgere estro e genio, con la sottesa idea che magari saremo i primi a penetrare la grandezza dei futuri nuovi Joy Division. Se i nostri Have a Nice Life sono dei mostri d’inarrivabile talento, dobbiamo ammettere con disincanto che quelli cui frega sono veramente pochi. A questo punto, se proprio dobbiamo rotolarci nel fango del (quasi) anonimato, ci sia concesso quantomeno di godere di una qualità e un talento che mai proverà il pubblico dei suddetti canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui sopra. Se proprio voglio essere tra quelle duecento persone che ascolteranno il disco di una oscura band di una depressa provincia italiana, che mi sia concesso di origliare l’ostentazione dell’alternativo e non le brutte copie, o anche solo copie, di una delle band promosse da uno di quei canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui ho parlato prima. Come dire, se vuoi farmi provare del caviale da diecimila euro il chilo, fa che quella merda di uova abbiano un gusto fantastico perché di pagare solo il fatto che siano rare non mi frega molto.

Mi spiace che gli Euphorica e l’ascolto del loro secondo Lp La Rivelazione arrivi puntualmente dopo quello del nuovo lavoro di Kozelek, Current 93 e Have a Nice Life perché non posso negare che la cosa abbia fatto germogliare in me una discreta irritazione verso la musica italiana e la sua incapacità sia di azzardare e sia di promuoversi al di là dei canali di nicchia e ostentarsi a un pubblico che non sia solo appassionato di un certo specifico genere.  Mi infastidisce perché La Rivelazione, dopo diversi ascolti, si rivela un album di buona fattura, soprattutto se paragonato a quel tipo di Pop Rock nostrano i cui principali artefici preferirei non nominare. Piacciono molto le intromissioni del Folk (“L’Equilibrista”, “La Terra”) anche se ogni cosa, dalla sezione ritmica alle chitarre acustiche fino alle linee melodiche hanno lo scopo principale di intraprendere una strada Pop che vuole essere impegnata senza esserlo veramente. I testi, rigorosamente in madrelingua, raccontano secondo le più disparate sfaccettature, d’identità e maschere, di essere e apparire. Parlano di vita sfruttando riferimenti colti (“Demone”) ed episodi reali (“Il Predicatore”), raccontano la paura (“Shangri –La”) affrontando immancabilmente il sinonimo più poetico di vita stessa e cioè amore (“L’Ultima Danza”, “Tu”).

Il disco degli Euphorica spazia dall’Indie Pop accurato negli arrangiamenti (“Visione”) e dai riferimenti al Pop da classifica che però non si affanna dietro la ricerca ossessiva e ansimante di una melodia banale ma di successo, un po’ come il Niccolò Fabi meno noto (“Giuda”), fino al Rock attento a testi e armonie dei Tre Allegri Ragazzi Morti (“La Rivelazione”), con le quali le affinità vanno anche oltre le ovvietà delle linee vocali, che nel qual caso fatico ad apprezzare anche ben oltre gli aspetti puramente tecnici. Anzi, arriva a infastidirmi particolarmente quando insiste sulle vocali finali tanto che il pezzo che più riesce a emozionarmi non ha testo, né titolo e tuttavia non brilla neanche per originalità. La Rivelazione è un disco che ti fa arrabbiare quando poco prima hai ascoltato il mondo innaturale di una band del Connecticut ma che riesce anche a farsi perdonare, man mano che la musica si scioglie come neve nelle orecchie, magari lasciandoti nel cuore anche quel brivido di una goccia gelida che scorre sul collo. Non mi piace troppo quello che fate, non mi piace per niente anzi ma se proprio dovete farlo, per favore fatelo cosi.

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Sam Mickens – Kayfabe: Laamb of G.O.D.

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Chi diavolo è Sam Mickens? Un oscuro figuro trasferitosi da Seattle a NY, che da anni rimescola le carte in tavola, tra Post Punk, Soul, Indie Rock, R’n’B, e tutto ciò che la sua malata testa cresciuta tra spirito Garage e afflato da musical gli fa sputar fuori.  E il marasma prosegue in questo suo nuovo Kayfabe: Laamb of G.O.D., progetto autoprodotto su Kickstarter con una presentazione barocca (“a baseline cosmically aware majestic production”, “an old-school concept record marrying charged glam rock with left-field R & B and the wide terrain of guitar-based rock music”, “a great and timeless pop record to make the hills alive”): quindici brani dal suono grezzo, ma nel senso di primordiale, con organi e chitarre a copulare nelle stanze ombrose di riverberi e delay, e un falsetto leggero, vibrante e sincero a collegare i tasselli del mosaico, come calce pronta a rapprendersi al primo vento. 

È strano a volte come le cose ti capitino proprio in quel momento, e non in un altro. Ultimamente mi è successo, per vari motivi, di ragionare su cosa forma il nucleo di una canzone, e di iniziare a contemplare (o approfondire) il concetto di sintesi estrema di una produzione musicale, anche come riutilizzazione di stili, riappropriazione di concetti sonori già utilizzati, nell’ottica di un risparmio, di un’economia del processo creativo. Perché comunque, come un amico mi faceva notare, ogni canzone, per il suo stesso esistere, porta comunque novità (in senso lato); o, nel peggiore dei casi, una variazione sul tema, che è poi è lo stesso. Sta al quid, all’insieme di suggerimenti e spunti che la canzone dà, cercare di darci un appiglio per poter definire quanto ci ha saputo muovere, e, insomma, quanto funzioni il prodotto finale. Questo per dire che i quindici brani di questo Kayfabe: Laamb of G.O.D. si collocano proprio in una prospettiva di risparmio estremo, di sintesi, da un lato: penso alla produzione, all’insieme organico degli strumenti (tastiere, chitarre, cori, batterie, tutti esperiti con un gusto a metà tra il vintage e il lo-fi spinto), alle strutture dei pezzi, alla durata del disco (breve). Dall’altro, si respira una voglia gustosissima di spaziare, di stupire, di cambiare la combinazione degli elementi sempre diversamente, con un impianto che porta a denudare, di ogni pezzo, un piccolo dettaglio sempre differente (passare da “Ballet of the Night” a “Tyrant Sun” – nella tracklist del disco sono in sequenza – è vero bungee jumping).

È un disco da ascoltare più volte, che non cambierà la storia e che magari non sarà timeless, come vorrebbe il nostro Sam Mickens; ma di certo ci può arpionare e trascinare nel suo mondo a scala di grigi, per farci fare un rapido e vorticante viaggio tra il freddo e il caldo, tra il dolce e il salato, tra il chiaro e lo scuro, con pezzi che parlano un loro linguaggio e sanno farsi capire (“False Lion”, “The Demon Star”, “The Fate of Kings Unmade”). Un percorso da mezze tinte che potrebbe anche riservare qualche inaspettata epifania.

Sam Mickens’ Sexual Madness from Kayfabe: Laamb of God from sue-ling braun on Vimeo.

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MalaScena – MalaScena

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“MalaScena è una lotta tra bui intimistici e le luci della ribalta.”

Come in una scena oscena, t’illudi ma rimani distesa di schiena,
Questa è una mala-scena, se credi all’intesa allora scordati l’impresa,
Infondo tutto è una catena come la musica in cancrena che scema,
Ad ogni intenzione corrisponde una discussione, un clima di tensione.

Scusate, ma il gioco di parole tra Mala e Scena mi ha dato alla testa, ora ritorno in me e ve li presento: loro sono Tiziano Cicconetti, Alessandro Renzetti e Felice Roberto, un trio tutto Rock che dal 2009 è in giro a suonare e ricercare nuove sonorità per trovare una propria identità. Ora sono convinti e consapevoli del loro sound e finalmente sfornano il loro primo ed omonimo EP, MalaScena appunto, un mix tra disillusione Grunge e aggressività Hard Rock rigorosamente in lingua italiana.

Partono in quinta e si presentano con il brano “Essere”, in cui descrivono l’insostenibile leggerezza dell’essere come una strada senza ritorno fatta di illusioni che svaniscono e rimangono stagne in un “potrebbe essere”. Un po’ come il mood degli italiani: vogliono fare, vogliono fare, ma poi non concludono mai nulla per un motivo o per l’altro, o forse solo per pigrizia. “Illudimi… di Lunedì” è uno sfogo che suona come David Grohl in “Smells Like Teen Spirit” e continua con “Madida” (che significa bagnato/sudato), dove si aggiunge però una voce più melodica e meno guasta. Finalmente un basso in primo piano ed una voce radiofonica per l’intro di “Alice” ed una fine in pieno stile Invasioni degli Omini Verdi che consacra questa ragazza in piena crisi esistenziale. MalaScena si conclude con un altro gioco di parole: “MalaIdea”, un pezzo acustico e introspettivo in piena linea con il resto delle argomentazioni espresse in queste cinque tracce. Beh che dire se non buona fortuna a questi baldi giovani, anche se ripensare e musicare in lingua inglese non sarebbe male.

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Virgo – L’Appuntamento

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Non è mai facile sposare uno stile Rock Blues potente con testi cantanti in lingua italiana. Ebbene con questa prima opera totalmente autoprodotta, i Virgo ci riescono positivamente. Nati nel 2008 con il nome Papataci arrivano ad oggi  con un diverso nome e qualche cambio di formazione, tra cui l’arrivo del cantante Daniele Perrino. Un sound d’ispirazione americana, duro ed avvolgente, fatto di chitarre elettriche  sempre in primo piano e da basso e batteria precisi e puntuali che dettano il tempo di una musica che dimostra come il Rock cantato in italiano non sia una semplice utopia od un semplice ricordo del passato. I testi delle canzoni si presentano semplici ma molto diretti, introspettivi e con sprazzi di esistenzialismo.

Elemento di non poco conto, per quanto riguarda la struttura dei testi, è la mancanza di particolari espedienti per incastrare frasi e parole il più “onomatopeiche” possibili (seppur in italiano ce ne siano ben poche, non abbiamo la facilità dell’inglese e su questo argomento potrebbe aprirsi un dibattito infinito tra rock italiano, all’italiana,  turco, esiste o no il rock non inglese etc etc.. lasciamo stare) per cercare di seguire il sound. C’è, poi, Daniele Perrino. Il cantante, già noto sulla scena nazionale per collaborazioni con Mario Biondi, dotato di una voce profonda ed intensa accompagna l’ascoltatore lungo tutto l’album in un percorso fatto di disagio, spesso malinconico, e rabbia. L’elettricità del Rock dei Virgo regala impeto e vigore senza mai perdere l’inquietudine dei toni oscuri che traspaiono dai testi, grazie proprio alle interpretazione ed alle doti canore del cantante.  Tra i pezzi più significativi da sottolineare la track d’apertura “Non ti Sogno Più”,  un brano ipnotico con un ottimo groove e tanta energia, la più esistenzialista dell’album “Il Tempo della Memoria” e “L’Appuntamento”, traccia che dà nome all’album, caratterizzata da un clima cupo fatto di nostalgiche chitarre acustiche e prepotenti sonorità elettriche dove la voce del singer si diverte giostrare tra alti e bassi.

Dieci le tracce totale di cui una soltanto in inglese “If It’s Love”, dove tra l’altro se la cavano egregiamente, e questo è un altro punto a  favore  del lavoro.  Un lavoro ben riuscito e da premiare, soprattutto per la personalità, con un buon voto e con tanti ascolti.

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Le Fate Sono Morte – La Nostra Piccola Rivoluzione

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Non saprei se farne un problema generazionale. Ma sicuramente il decennio 90 ha lasciato qualche suo residuo anche sulla mia pelle. Il suono della decadenza e dei muri sgretolati, delle incertezze, delle grida di rabbia, di oppressione. Un suono da cui difficilmente si scappa se sparavi Alice In Chains nelle cuffie del walkman, a testa bassa e sulla via del liceo. Questo scenario è infatti ritratto alla perfezione nel primo LP dei milanesi Le Fate Sono Morte. Combo Rock dal 2008, capitanato dalla attraente e dimessa voce di Andrea Di Lago. La setlist è proprio un esemplare preciso dei pezzi scritti in solitaria seduti per terra nella stanza da letto a macinare arpeggi, ritmiche nervose e testi di confusione e sorda ribellione. La musica è avvolta da una fitta nebbia già nei primi versi della ballata “A Parte il Freddo” dove il violino deciso di Daniele Pezzoni rimanda senza mezze misure agli Afterhours più melodici e diretti. “Ipnotica” e “Arriva la Neve” danno invece una sferzata più americana, con un Grunge classico e grintoso dove però la sezione ritmica (colpa forse di alcune timide scelte in fase di registrazione) non spinge abbastanza, non dando il giusto groove a due pezzi che meritano comunque di essere considerati un buon esemplare di Rock all’italiana. La voce di Di Lago è espressiva, graffiante, sofferta ma poco dinamica e pecca in monotonia. In ogni caso rimane una splendida timbrica, di quelle che riconosci alla primo verso che esce dall’ugola.

Grande pecca il singolo “È già Settembre”. Non rende proprio giustizia all’intero album, ritmica di chitarra e testo banalotti. Sicuramente non un’ottima scelta per rappresentare un disco che ha perle di maggior splendore, sebbene un grosso nuvolone sembra sempre contornare il suono delle Fate. Ben più ispirata “Anime Artificiali”, con una bella lirica di sentimenti ammaccati: semplice ma d’effetto la frase “a Milano l’amore è un’illusione, tu non scordarmi mai. Sei il fiore nel mio burrone, quando non ci sei”. Nel finale troviamo ancora spazio per una stanca e depressiva “Senza Pace”, dove spicca solamente il bel suono di basso distorto, costante e presente, poi per ultima arriva “Niente (nondiventeremoniente)”, finalmente un pezzo sui generis dove la voce quasi parlata dona intensità e spessore a un dinamico tappeto Post Rock degno dei migliori Massimo Volume. Non saprei dire se la nebbia si alzi o si abbassi, ma almeno si muove e non rimane anonima a mezz’aria. Ed è di movimento che questo gruppo ha bisogno. Attendiamo la prossima prova speranzosi di vederci qualcosa di più. O di meno.

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AliceLand – Pensieri Raccolti

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Pensieri Raccolti è il titolo del primo album di Alice Castellan, in arte AliceLand: una raccolta di brani scritti dalla stessa Alice ed arrangiati dal bassista Andrea Terzo. Ma procediamo con ordine, partendo dal nome, che mi evoca all’istante Alice’s Adventures in Wonderland (Alice nel Paese delle Meraviglie, per farla breve) di Lewis Carrol; la mia fantasia galoppa. Il titolo dell’album, Pensieri Raccolti, mi porta invece alla mente la visione di pensieri intimi e profondi, raccolti in sé stessi, rannicchiati in posizione fetale; tanti piccoli embrioni cerebrali che possono crescere e diventare progetti, sogni che si avverano, futuro, ma che possono anche rimanere là dove sono, e spegnersi lentamente in vaghi ricordi. A questa visione però ne segue subito un’altra, ed è quella in cui un’Alice spensierata e saltellante raccoglie pensieri in maniera un po’ distratta e li mette in un cesto a forma di disco che si porta dietro, riempiendolo. La mia fantasia galoppa ancora più forte. Premo play, e neanche a farlo apposta, il primo brano si intitola “Immagina”, e si dichiara subito in uno stile Pop gradevole, almeno fino al ritornello, almeno fino a quando la voce di Alice (voce che tra l’altro non mi dispiace affatto) non si accanisce sull’ultima nota di ogni verso con un virtuosismo eccessivo, con un suono simile ad un gemito, che si ripete per una, due, tre, quattro, n volte. Solo alla fine del disco potrò affermare che il mio dubbio è in realtà una certezza: quel suono è presente in tutto l’album. Aiuto.

I riferimenti ad Elisa li colgo subito, soprattutto nel brano “Pianeti”, forse tra i più interessanti. Interessante anche l’utilizzo delle percussioni etniche in “Stronger (ovunque)” e “Sacred Mountain”, dove diventano veri e propri elementi caratterizzanti che valorizzano il brano. Solo in rarissimi casi mi hanno colpito i testi, che non ho trovato così intimi e profondi come il titolo dell’album mi aveva fatto immaginare. La parte musicale invece, interamente suonata in acustico, mi è sembrata essere più vicina al concetto di intimità espresso dal titolo. Altro elemento costante per tutta la durata del disco è il tema amore, preferibilmente nella sua variante che fa rima con dolore. Premetto che non ho nulla in contrario a questa variante, ma è davvero così grande il dolore di Alice da meritarsi tutto questo spazio nel disco? Oppure bastava semplicemente dare maggiore importanza ai Pensieri Raccolti di cui sopra, quelli rannicchiati in posizione fetale, più intimi, e non accontentarsi di raccoglierne alcuni in maniera distratta per riempirne un disco? (Traduzione: non conveniva magari ridurre il numero dei pezzi, attualmente quattordici e scegliere in maniera più opportuna quelli da inserire?). La musica per me ha l’effetto terapeutico di mettere a tacere, anche se temporaneamente, gli interrogativi che mi porto dietro da sempre.  Questa volta sono troppi quelli che mi restano alla fine dell’ascolto.

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Caligo – Fragili Ossessioni

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Ammirati dal vivo appena qualche settimana fa, non ho certo potuto esimermi dall’ascoltare il lavoro dei liguri Caligo anche su disco, quantomeno per controllare la resa del loro Pop cosi regolare, in un contesto meno triviale e casinista come può esserlo un live contest in un piccolo locale a cinquecento chilometri da casa. Innegabile che il mio desiderio di sviscerare abbia dato parecchie risposte convincenti ai miei dubbi. Se live l’ottima timbrica e lo stile di Marco Ferroggiaro erano spesso in contrasto con qualche imperfezione di troppo sia alla chitarra di Marco Maccianti, specie negli assoli, sia di Matteo Moggia alla batteria e se lo stesso Marco non era in grado di rendere complici gli altri musicisti, come Danilo Solari al basso, in quel fervore ineluttabile per suscitare empatia col pubblico, su disco, tutti questi limiti sono colmati e quello che resta in superficie sono le qualità di una band che ha ancora tantissima strada da fare ma che si dimostra prontissima a mangiare polvere e sudore e a macinare miglia. Il disco è autoprodotto e, com’è comprensibile che sia, il livello qualitativo della cover e del package non sono certamente il massimo. Allo stesso modo non convince troppo la registrazione, che, in alcuni brani ad esempio, sembra tenere troppo bassa la voce rispetto al resto (“L’Abitudine”) e non è l’unico difetto in cui ci si imbatterà.

Una cosa, però, sanno fare bene i Caligo; hanno ben chiaro come scrivere canzoni, riescono a scribacchiare quei pezzi di Musica Leggera che hanno fatto la fortuna di tanti colleghi in Italia. Brani come “Espiazione” o “Voce15” sono hit potenziali dal garantito successo se solo qualcuno le includesse nello spazio che meritano e che più si confà loro, ma anche i brani meno ordinari (“Eccomi”), più potenti musicalmente o anche solo fuori dagli schemi canonici del Pop tricolore, hanno degli scheletri melodici da far invidia ai più grandi. Quello che difetta ai Caligo per fare breccia è qualcosa che idealmente possiamo dividere in due parti distinte, poiché ho avuto la fortuna di osservarli anche in chiave live. Sul palco dovrebbero mostrarsi con maggiore trasporto e, soprattutto i chitarristi e non tanto il cantante e il batterista, dovrebbero assecondare Marco Ferroggiaro nella sua incisiva teatralità passionale. Troppo ancorati e l’idea di chi guarda è quella di una band occasionale messa al servizio del singolo artista, come fosse fatta da spogli turnisti. Inoltre i troppi strafalcioni trasmettono una difficoltà nell’esecuzione di certi brani, per cui sarebbe forse il caso di adattarli e arrangiarli in maniera più consona alle proprie attitudini.

Su disco questi grattacapi sono buttati alle spalle, anche se emergono altri limiti sostanziali. Escludendo il discorso su artwork e registrazione (siamo costantemente in contatto con le autoproduzioni e quindi non ci sentiremmo mai di condannare per qualche imperfezione di questo genere, se non troppo marcata) c’è da dire che i Caligo non possiedono certo una tecnica fuori dal comune, non sono provvisti di una voce che possa reggere da sola tutta la proposta artistica, non hanno un prodotto alternativo al resto da farci ascoltare. Sanno scrivere canzoni, questo sì, ed è su questo che possono e devono lavorare. Elaborano belle composizioni, con buonissime melodie, ma se questo vuole essere il loro punto di forza, si deve adoperarsi il doppio, con una ancor più meticolosa ricerca melodica e magari, creando una struttura dolce che possa fare da impalcatura alla musicalità più curata e che vada oltre l’esecuzione strumentale didattica di oggi.

In aggiunta, anche ai brani più buoni scarseggiano dei ganci utili a rapire immediatamente l’ascolto ed è su questo che devono lavorare, sul sound, su hook subito avvincenti che rapiscano l’orecchio di chi magari ascolta distrattamente per poi aprire la strada alle armonie vocali di Ferroggiaro, oltretutto avvantaggiato dalla lingua italiana usata con dedizione, visto che parliamo di ambienti popular. Una volta fatto ciò, le canzoni potranno suonare in mille modi diversi, più naturali come le hit già citate o più cariche come “Pioggia sulle Ossa” (che contiene una pseudo citazione di Bob Marley), non importa. Perché una volta che un brano ha un gancio, una melodia d’impatto, una buona voce, un discreto arrangiamento e una degna registrazione, tutto quello che serve è solo un posto dove far girare il disco, il resto viene da solo. Il Pop non è Musica Leggera ma molto di più.

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Sine Frontera – I Taliani

Written by Recensioni

Sine Frontera. Senza confini. Il loro nome è già un invito a superare di ogni forma di barriera fisica e mentale, concetti che vengono ampliamente espressi con la loro musica, anch’essa senza confini, appunto, libera dalle restrizioni geografiche e svincolata dall’appartenenza ad un determinato genere musicale. Contaminazione è la parola chiave dei Sine Frontera, e I Taliani, il loro ultimo album, ne è pieno. Un viaggio su un’ipotetica linea ferroviaria che passa confini e raccoglie, strada facendo, storie e musiche di posti lontani: è così che definiscono il loro progetto musicale, e quest’ultimo lavoro non si discosta dalla loro idea di fare musica. Se di generi musicali si vuole in ogni caso parlare, il viaggio avviene tra Folk Irlandese e Ska, tra musica balcanica (“La Ruota”) e Country, fino a sfiorare il Rock con “Io Sono Io”; geograficamente parlando ci spostiamo invece tra Nord e Sud America (“No Soy Borracho”, brano interamente in spagnolo dal ritmo Ska, racconta di una storia d’amore ai tempi della rivoluzione messicana di Zapata), per poi saltare dall’altra parte del mondo e toccare tutti i punti cardinali dell’Europa. Qui il viaggio prevede anche una sosta in Spagna ed una collaborazione con Albert Ferrèr, voce del gruppo barcellonese Malakaton,  nel brano “Hombres”, un’esortazione agli uomini a pensare con la propria testa, cantato in italiano e spagnolo.

La meta principale del viaggio resta comunque l’Italia, il titolo dell’album non mente; sono numerosi infatti i tributi al Bel Paese. La title track “I Taliani” canta a ritmo Ska vizi e stereotipi del popolo italico, che non di solo vizi e stereotipi, però (fortunatamente) è fatto: di ispirazione letteraria e cinematografica è la ballata Folk Irlandese “Camillo e Peppone”, mentre di ispirazione teatrale è il brano “Il Villano”, Tarantella che si rifà ad un’opera di Dario Fo. Non manca nemmeno un tributo al “Marchese del Grillo” di Alberto Sordi nel brano “Io Sono Io” (e voi non siete un cazzo!). Di diversa tendenza è il brano “Dietro il Portone”, una ballata Folk (che mi fa tornare alla mente la malinconia di “Remedios la Bella” dei Modena City Ramblers), cantata per metà in italiano e per metà in dialetto mantovano, dedicata a tutte le vittime dell’Olocausto, e che riprende le parole del celebre libro “Se Questo è un Uomo” di Primo Levi.

I Sine Frontera sono la dimostrazione che la musica può davvero abbattere le barriere fisiche e mentali, e condurre l’immaginazione in luoghi impensabili; fondamentale è dunque il suo ruolo come mezzo di trasporto emotivo. Un po’ meno rilevante è, a mio parere, l’importanza che viene data ai testi, che rimangono a volte sospesi sul pelo dell’acqua, senza andare troppo a fondo, nonostante l’importanza di alcune tematiche trattate (penso a brani come “La Ruota”, una riflessione sul senso della vita che si riduce alla nota metafora della ruota che gira). In ogni caso, mi è piaciuto viaggiare con i Sine Frontera; mi è piaciuto sedermi intorno ad un falò di suoni e parole ed ascoltare le loro storie provenienti dal mondo. Durante una navigazione nell’oceano sconfinato del web, mi ha colpito un incontro accidentale con una frase che diceva più o meno: scrivere è come viaggiare senza la seccatura dei bagagli. Credo che la  musica abbia gli stessi “effetti collaterali”.

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