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Odatto – Odatto

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Parmensi e attivi dal 2004, gli Odatto hanno già alle spalle due demo, Quelli Come Noi e Ovunque Tu Voglia Andare, e un full lenght Sanno che Ci Sei. A ottobre del 2013 hanno concluso i lavori per la loro ultima fatica, un disco che porta semplicemente il nome della band come titolo, stilisticamente a cavallo fra un Punk italiano di chiara matrice americana e il Metal che già caratterizzava i lavori precedenti. Odatto, infatti, si apre con “Finirà Così”, brano che chiarifica subito la precedente lezione metal, con il cantato spesso obbligato a dilatazioni e contrazioni per riuscire a rendere intellegibile i termini. Sono molto bravi musicalmente e variano spesso all’interno del brano, sia per quanto riguarda il dialogo degli incisi melodici sia per ciò che concerne l’orchestrazione. Non sono coinvolgentissimi nonostante esprimano tanto pathos e tanta rabbia. Anche in “Giorni” troviamo di nuovo l’ispirazione Metal -colpa delle chitarre raddoppiate – e un bel giro di basso. Ricordano un po’ i Linea 77 per la vocalità principale e il dialogo con le backvoice. Con  “Solo Andata”, però, ci si rende conto che gli Odatto hanno svelato già tutte le loro carte.

Qualcosina cambia con “La Nave”, caratterizzata da un sound più patinato e un riff anche più orecchiabile dei precedenti e meno immediatamente connotabile come genere. Esattamente come già si era notato, ci si rende conto che gli Odatto sono bravi ma musicalmente non sono niente di più che quello che hanno già detto in tre tracce. I testi, però, sono davvero meritevoli: senza essere aulici e altisonanti come certi gruppi Alternative, senza essere oscuri come ad esempio sanno essere tanto bene i Verdena, pur essendo incazzati come Ministri, Teatro Degli Orrori, Linea77 riescono a svolgere bene un filo logico narrativo. A “Un Posto Migliore”, però, le chitarre raddoppiate stancano. “Cosa C’e’ da Perdere” apre con un sospiro. La voce è più roca, il testo è puntellato di rime aperte sulla vocale e, in puro stile italiano, evitabile. L’apertura centrale del pezzo è esplosiva, costruita con solite chitarre doppie e un basso che muove in stile Crossover. Sono bravi, l’abbiamo già detto, ma a questo punto, con ennesimi ritorni stilistici e pochissime variazioni, viene da chiedersi se non fosse preferibile fare un Ep.

Dopo un po’ non riesco neppure ad apprezzare più l tecnica: il disco prosegue con “Anima” e “Le Solite Favole”, ma è solo con il ritornello di “Libertà o Schiavitù” che mi riprendo un attimo dal tepore e riesco ad apprezzare di nuovo questi ragazzi. Il disco chiude con “Come le Nuvole” e l’unica cosa che lascia è il dispiacere di non essere riuscita ad ascoltare un album tutto d’un fiato, convinta che, prese singolarmente e ascoltando due o tre canzoni, avrei potuto apprezzare maggiormente ogni traccia e l’intero Odatto.

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Chiara Jerì e Andrea Barsali – Mezzanota

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Questo che vi presento oggi è un duo, voce e chitarra, formato da Chiara Jerìe Andrea Barsali. Chiara si presenta come una pulce con la tosse… che non può impedire a se stessa di comprendersi cantando… e scrivendo le sue storie. Cantante nel trio acustico Fouve 010, interprete anche e soprattutto nel lavoro discografico Mobile Identità del 2009 e successivamente anche autrice con il brano “Notturno dalle Parole Scomposte” che la porta a vincere il concorso “Un Notturno per Faber” e all’apertura dell’album Mezzanota, uscito il 22 febbraio 2013, con la collaborazione del chitarrista Andrea Barsali, trasversale nei generi, con un bagaglio di esperienze che spazia dalla musica classica al Rock, dal Folk al Pop cimentandosi in numerosi repertori.

Quindi con Mezzanota i due musicisti si tuffano a capofitto in un mondo, quello della canzone d’autore, che entrambi conoscono molto bene. Tutto creato in un’atmosfera intima e genuina grazie anche a quei brani che fanno la storia della musica italiana da “La Donna Cannone” di Francesco De Gregori, passando per “Canzone II” di Pippo Pollina e “Fino all’Ultimo Minuto” di Piero Ciampi. Insomma grandi autori e grandi storie che le nuove generazioni certamente dovrebbero riscoprire e conoscere, soprattutto per apprezzare a pieno le innumerevoli influenze che questo album contiene. Influenze che giocano ruoli importanti nei loro brani inediti come in “Amore Mio Hai Ragione” primo brano dolce e soffuso giocato tra gli arpeggi e una voce colloquiale e molto profonda. Attese e sospiri creati dal tremolo ne “La Ballata della Ginestra” e un lungo e bell’arpeggio che apre “Notturno dalle Parole Scomposte”, brano citato sopra, vincitore di “Un Notturno per Faber”. “Innesco e Sparo” invece cambia un po’ le atmosfere, qui più cariche ma sempre piene di significato.

Insomma questo è un lavoro molto gradevole che passa a pieni voti tra il cantautorato tradizionale e la musica classica proprio come l’ultimo brano che non si chiude con un punto, con una fine decisiva ma con un lungo “Vorrei” e una chitarra che si prende spazi considerevoli per dialogare amabilmente con l’ascoltatore, che in ogni caso riuscirà a trovare un suo qualcosa nella musica di quest’album.

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Funkin’ Donuts – Funk Tasty KO

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A volte capitano tra le mani rudimentali registrazioni di band acerbe che danno un bello scossone alla spina dorsale. Nonostante arrangiamenti raffazzonati, voce traballante, e suoni grezzoni da garage putrido, i romani Funkin’ Donuts sono coraggiosi e determinati. Coraggiosi anche perché suonare Funky, cantato per altro in italiano (tre pezzi su quattro sono in madrelingua), nel 2013 è atto di purezza e onestà. La moda dei Red Hot Chilli Peppers è sicuramente passata da qualche anno e di gruppi con questo sound indistinguibile non se ne vedono molti nel nostro orizzonte.

Attenzione, nulla per cui strapparsi i capelli o gridare al fenomeno. Semplicemente una band che ben esprime il suo piacere di suonare insieme. Senza grandi pretese e con i piedi ben ancorati a terra. Piedi non per questo fermi, scossi dal ritmo già deciso dalle prime note di “Guarda Avanti”, un classico groovone ben scandito da basso e batteria da manuale e una chitarra che fa molto il filo al buon vecchio John Frusciante. Purtroppo la voce di Flavio Talamonti non sempre riesce a convincere, soprattutto nelle parti più gridate e nei testi spesso banalotti. La pecca maggiore dell’EP però viene subito fuori e riguarda la registrazione, ben lontana dall’essere professionale, e dire che in questi periodi registrare decentemente un disco a basso costo sembra non essere più così ostico. L’insieme sicuramente perde ma per fortuna la botta non viene tralasciata.

Una maggiore cura in registrazione e arrangiamenti più attenti avrebbero dunque fatto decollare un brano come “Dammi un Buon Motivo”. Le idee si accozzano una all’altra tirando fuori una poltiglia mal amalgamata nonostante i buoni propositi e il buono stato di forma della band che jamma come se non ci fosse un domani. Un po’ di ordine forse non guasterebbe anche in “J.B.”. L’unico brano cantato in inglese si presenta con stacchi storti, attitudine meno friendly e chitarre alla James Brown. Tutto contornato dal solito groove insaziabile.

Il piede continua a battere senza sosta fino alla fine, anche nell’ultimo episodio di questo breve ma intenso EP. E allora “Drop D” non riserva sorprese se non un po’ più di rabbia, che avvicina il sound a quell’immensa realtà che erano i Rage Against the Machine. La forza non manca, la proposta è buona anche se non suona di certo innovativa, ma direi che non ha nessuna pretesa di esserlo. E questo EP, nonostante tutti i difetti che presenta, suda, vive e sporca. Di sicuro, non è poco!

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Marshmallow Pies – Between Cloudy and Sunny Days

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Le Marshmallow Pies (come nella beatlesiana “Lucy in the Sky with Diamonds”, citata proprio in relazione al moniker in “Intro”, i primi venti secondi del disco) si definiscono “fairy acoustic trio” e non si fa fatica a capire perché. Il loro primo album, Between Cloudy and Sunny Days, è pieno zeppo di pezzi emozionali, leggeri e soffici, che sarebbero perfetti per accompagnare gli ultimi minuti di una qualunque puntata di un serial americano teen (vedi “Colourless”, ad esempio – mentre “Strange Belief” potrebbe essere un’ottima sigla d’apertura). Nomen omen, le tre ragazze di Como (voce, chitarra/ukulele/violino, tastiera/chitarra) producono una teoria di canzoni sognanti e zuccherose, un cantautorato in inglese molto femminile e molto morbido, che non inventa granché ma si lascia ascoltare dolcemente, richiamando alla mente, senza troppa fatica, serate da tisane e cioccolate calde in pub dai muri color rosso acceso e con tante, tante candele sparse qua e là (“Superman”).

La base sonora è affidata alle chitarre acustiche e al piano, che si accompagnano a qualche aggiunta saporita (violino in primis: “Storyboard”, o l’apertura centrale di “M.” – ma spunta anche qualche inserto di sax nella già citata “Colourless”, o di organi in “Le Parole”, unico brano in italiano). La voce di Francesca Giannella ci ricama sopra, sottile, con gusto e libertà, senza strafare, in un’economia lieve: una bella voce che non si mette in mostra ma ci accompagna gentile nell’ascolto.  Between Cloudy and Sunny Days è un disco ben scritto, che poteva essere un po’ più vario nelle atmosfere ma che anche arrangiato “al risparmio”, con un parco strumenti ben definito e per alcuni versi limitato, riesce ad emozionare: sia chiaro, si parla pur sempre di emozioni soft, di rilassatezza, malinconia suggerita, serenità, allegria sussurrata. Una torta morbida, dolcissima. Astenersi diabetici.

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December Hung Himself – Ivory

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Il suono della notte, con tutte le contraddizioni che il tramonto può provocare. Questo disco è dunque una camminata in una radura stellata, ma anche un incombente pericolo. Un lungo e intenso sospiro di sollievo ma pure un incubo ben insediato nella mente. December Hung Himself è il nuovissimo progetto parallelo di due musicisti sardi ben noti nel panorama underground nazionale, ovvero Aurora Atzeni (Thank U For Smoking) e Nicola Olla (militante nei punkers Curse this Ocean e chitarrista/tastierista dei Charun, sound più affine a questo progetto). Il loro primo EP Ivory è indubbiamente un buon biglietto da visita dove il Post Rock più classico trova la sua dimensione molto buia ma non per questo solo scura e tetra. I ragazzi riescono bene a donare al loro prodotto tutte le sfaccettature necessarie per farci apprezzare la solitudine, la tranquillità e (perché no?) anche la pericolosità della notte. Il titolo del disco è quasi un ironico contrasto, a sottolinearci come il candore dell’avorio possa integrarsi bene nel cielo stellato. Titolo freddo come il panorama che ci sta intorno.

L’ultimo fascio di luce è gettato proprio in apertura. A descrivere il crepuscolo di questa breve ma intensa oscurità ci pensa l’arpeggio di chitarra che introduce “And the Crows”, dove le voci dei due ragazzi si fondono magicamente creando melodie dilatate, in bilico tra serenità e paura. La luce scompare e i nostri occhi si devono abituare al tenue bagliore delle stelle. Le atmosfere non cambiano molto in “Galleyworm”. Già ci svegliamo nell’intro, punzecchiati dal gelido arpeggio elettrico e dalla distante voce di Aurora e poi arriva un ritmica decisa rocciosa che si schianta sul nostro viso. “Drag me Down” pare invece un cieco viaggio in abissi marini. Da sottolineare le numerose aperture melodiche che, anche se espresse da voci soffuse e nascoste, ci regalano un respiro a pieni polmoni. Infine “Alive” chiude il cerchio con una chitarra che pare un carillon scarico.

L’EP non è certamente qualcosa di memorabile, ma vanta una determinante qualità. E’ suonato per davvero e si sente, non perde mai di concretezza e di credibilità. Il tocco umano sullo strumento dona una marcia in più a brani che non spiccano per originalità. Una bella dimostrazione a tutti gli amanti del sintetico. Questo è un bel maglione di lana, forse un po’ largo e démodé, di quelli che danno un po’ fastidio punzecchiandoci al collo. Ma sicuramente è un sincero riparo in questa gelida notte.

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Runa Raido – Il Primo Grande Caldo

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Come insegna un vecchio film noir del 1953 nel gergo della malavita americana il grande caldo indica un aumento d’attenzione della polizia nei confronti dei malavitosi e delle loro attività”. Che sia per pura casualità o per recondite passioni cinematografiche il secondo album dei Runa Raido, Il Primo Grande Caldo, dopo un primo ascolto richiama in modo deciso l’attenzione, un po’ come quando una sentinella, appostata nel buio di un incrocio percepisce qualcosa provenire da poco lontano. E da quel poco lontano arrivano sei tracce che si contraddistinguono per un sound deciso e compatto, una bella dose di carattere e un approccio schietto. Leggendo la biografia della band si notano partecipazioni a concorsi, qualche premio vinto, e molte cose poisitive che rappresentano bene le potenzialità del gruppo. Il quartetto laziale non si nasconde dietro sofisticate impalcature, ma parla in maniera diretta, spesso con durezza e implacabile lucidità,come in “Michele”, apripista dell’album, impetuosa e con un riff coinvolgente. Anche il brano “Buone Maniere “si inserisce sullo stesso filone e sottolinea la scelta stilistica di un linguaggio ponderato,un songwriting impegnato che non si limita e raccontare una bella storia, ma che svela e descrive ritratti di fantasmi viventi, drammi umani e malcostumi diffusi.

Se le tematiche forti trovano nei brani  sopra citati una corrispondenza musicale, in “Estate Torna” i suoni si ammorbidiscono, la batteria rallentail ritmo, pur mantenedo salde le redini, e le tastiere ci cullano verso una ballad intima chelasciail sapore agro dolce della consapevolezza. Tra le sei tracce che compongono l’album“Al Tempo dei Fuochi “ è la più interessante al punto di vista melodico con molte variazioni e ritmi non lineari, mentre con “Il Grande Caldo” si ritorna a un immaginario a tine forti acompagnato da sonorità maledetamente Rock e da un minuzioso video realizzato in papercutting. La chiusura arriva con con una versione molto personale e in linea con lo stile asciutto dei Runa Raido de “La Domenica delle Salme”del sempre eterno maestro De Andrè. Stile, personalità, testi profondi e interessanti fanno de Il Primo Grande Caldo una piacevole sorpresa. Non c’è spazio per eccessi, grandi trasgressioni o superflui personalismi, siamo nel terrotorio del Rock tradizionale e tutto torna e funziona bene per poter anche riscuotere un buon successo di pubblico.

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La Tosse Grassa – Tg3

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La Tosse Grassa: il nome è già tutto un programma. Il titolo del suo terzo disco poi, TG3, lo è per davvero (sempre se, come me, credete che i telegiornali somiglino sempre più a dei Talk Show). Tra ricordi catarrosi di nottate insonni, febbri deliranti ed antibiotici dai colori psichedelici, mi accingo a premere play con in faccia, lo ammetto, un’ espressione di schifo per tutto quello che una tosse grassa può evocare nella mia mente.

Già dalla prima traccia la sensazione è di essere investiti da un camion in corsa. Sto ascoltando un disco Metal? Nonostante la presenza di sonorità riconducibili ad altri generi, “Veleno”  sembra volermi condurre in quella direzione. Sembra, appunto; perché la seconda traccia “la Vita È Bella (Quella di Benigni)” si presenta con un ritmo Pop Dance che si lascia ascoltare facilmente, e che subisce una metamorfosi nel ritornello passando all’Hardcore, con tanto di esasperazione della voce proprio sulle parole La vita è bella, la vita è una cosa meravigliosa. E così si procede, altalenando tra vari generi, riferimenti e citazioni, fino a quando non mi sembra di riconoscere nella melodia della terza traccia (“Hanno le Manine”) il ritornello di “Take Me Out” dei Franz Ferdinand. Una coincidenza? Chissà.

Proseguo con l’ascolto di “Santo Subito” e questa volta non ho dubbi, lo riconosco chiaro e tondo il motivetto di “Sei un Mito” degli 883, così palese, spudorato e deciso che per un attimo mi viene da cantare tappetini nuovi Arbre Magique, deodorante appena preso che fa molto chic. È stato solo un attimo, mi ricompongo subito. No, questa non può essere una coincidenza. Ed infatti non lo è, perché mi trovo davanti a Vanni Fabbri alias La Tosse Grassa, e a quello che è un vero a proprio culto, Il Culto della Tosse Grassa appunto, della quale lui stesso è il dio indiscusso. TG3 è quella che Vanni definisce la sua nuova stagione liturgica, che prevede la stessa formula delle due stagioni liturgiche precedenti (TG1 e TG2): una serie di basi realizzate con campionamenti provenienti da brani altrui. Un mix letale, ripetuto per la terza volta, ma sempre vincente: il Pop va a braccetto col Metal per recarsi a fare una visita alla Dance, passando però prima dall’Elettronica, senza dimenticarsi del cantautorato italiano (in “Ghigliottina e Lanciafiamme” c’è spazio anche per Pupo e per la sua “Firenze S. Maria Novella”).

Il tutto è poi accompagnato da una serie di testi irriverenti, dissacranti, diffamatori e violenti che trattano con cruda ironia e straziante verità la decadenza di questa società allo sbando. Suicidio, droga, disoccupazione, pedofilia, consumismo, religione, omosessualità, precarietà, vengono sviscerati senza mezze misure o giri di parole; le vergini orecchie si mettano al riparo e le signorine perbene non svengano se  travolte da alitate di Trash. Chi di voi ha mai visto una tosse grassa avere pietà del poveraccio che vi è malcapitato? Dopo le dovute cure, magari. Ma questa è una tosse grassa per la quale non farà effetto nessuno sciroppo e, sinceramente, mi sta bene così.

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Kpanic – Asylum

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I Kpanic sono una band con poco più di un anno di vita (sono stati fondati infatti nel 2012) che propongono un interessante mix di Nu Metal, Grunge e New Wave caratterizzato da un sound granitico e compatto che fa da contrasto a un cantato molto melodico, pulito ed incisivo. Durante lo scorso anno è arrivata anche la vittoria al RockAge Contest seguita dalla registrazione di questo lavoro e dall’abbandono del gruppo da parte di uno dei componenti e la conseguente sostituzione con Simone Pannacci, già cantante e chitarrista dei SI.S.M.A. col quale il progetto sta ripartendo verso nuovi live e nuovi pezzi.
Attualmente la line up vede Simone Migliorati alla batteria, Dave Tavanti al basso, Michele Tassino alla chitarra e Marco Riccio alla voce.
Asylum dimostra già però la maturità di una band rodata con chiari riferimenti ai conterranei Lacuna Coil (di cui si spera possano imitare il successo oltralpe).
Undici tracce che riprendono molto anche dagli americani Alice in Chains di Facelift e Dirt (evidenti i segni di ispirazione in “A Day for the Sun” in cui appaiono anche piccole tracce di puro Punk anni Settanta).
Un elogio particolare lo vorrei fare al bassista Davide, prezioso elemento che pur se spesso coperto dalle chitarre gioca un ruolo essenziale nell’economia del lavoro.
Le sue linee non appaiono mai banali ed è davvero piacevole sentire un suono così puramente Grunge ancora negli anni duemila e dopo aver sentito il basso distorto all’inizio di “Another Day” non potrete fare a meno di ascoltare questo disco almeno una volta al dì.
Fondamentali tuttavia anche il cantato (a volte urlato, a volte no) e il drumming sempre preciso ed incisivo in un gioco quasi perfetto di arrangiamenti curatissimi.
Difficile (o forse impossibile) quindi trovare un elemento negativo in Asylum, in cui c’è persino spazio per una ballad molto pacata ed acustica, “Be or Not to Be”.
L’autoproduzione non sempre dà frutti negativi e questa ne è la prova imprescindibile.

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Esquelito – Youwho

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È notorio e risaputo: i teschi sanno sfoggiare il sorriso più ironico e dissacrante esistente in natura. È quasi poetico, quasi commuove: il simbolo stesso della morte è, al tempo stesso, l’emblema del più importante meccanismo di difesa che possediamo contro di essa. Ne sanno qualcosa in America Latina, dove teschi e scheletri prendono vita e colore per essere memento e contrasto rispetto all’idea europea, cupa e soffocante, di una morte incappucciata e mietitrice. Lo sanno bene anche gli Esquelito, che riportano, in maniera leggera e disimpegnata, questo colore e questo divertimento nelle cinque tracce del loro ultimo EP, Youwho. La band, confesso, è riuscita a conquistarmi già dalle poche righe di spiegazione del disco, dove trapela un mondo immaginario ben costruito e per l’appunto coloratissimo, sfavillante, tra il Chiapas e i Caraibi, con il loro spirito guida (l’omonimo Esquelito) a combattere danzando (o almeno così lo si immagina) lo spaventevole e mitico Chupacabra, in un Messico da cartolina, cartone animato, sogno lisergico d’altri tempi.

Gli Esquelito ci portano in viaggio attraverso canzoni semplici, immediate, anthem ossessivi  Post-Folk (“Esquelito”), ritmiche prima esotiche, poi Punk, in un meticciato lineare ma piacevole (“Eternit Love”, dalla linea di basso infestante e l’andamento essenziale). Si toccano il Rock’n’Roll della West Coast e il Pop da canticchiare senza pensarci, per poi finire dritti in una giungla di tamburi, delay, metallofoni e… scimmie (“Monkeyz”). Si cambia spiaggia, da un tramonto sussurrato alle urla notturne di domande e risposte che si incatenano (“One Million”). E ci si ferma sulla strada battuta di un Rock leggero, acustico, e molto americano, per chiudere con nostalgia e un pizzico di malinconia (“Weekly Leaks”).

Nel complesso, gli Esquelito hanno messo insieme un disco che si regge sulle proprie gambe, anche se avrebbe bisogno di qualche osso in più: personalmente, mi convincono di più gli esperimenti con ritmiche inusuali e strutture meno ovvie – come “Eternit Love”, ad esempio – mentre gli episodi alla “One Million” mi lasciano più indifferente. Forse un maggiore focus sulle caratteristiche peculiari della band potrebbe aiutare l’incisività e la presa generale del progetto. Di sicuro, il ghigno bianco di questi scheletri potrebbe avere ancora tanto da dirci: nascondiamo la nostra maschera messicana nel cassetto e attendiamo con speranza il seguito di Youwho.

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Nemesi – La Sottile Linea Grossa

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Che cosa rende valido qualcosa di modesto? Cosa rende speciale qualcosa apparentemente normale? E al contrario cosa trasforma il buono in mediocre?
Evitiamo di affrontare inutili approfondimenti su ciò che può legare la proposta della band con il nome scelto Nemesi, che può essere visto sotto diversi punti di vista, letterario, mitologico, cinematografico, pittorico e via discorrendo anche perché il termine, che altri non è che il nome della dea atta a distribuire la giustizia nel mondo, è diventato nel corso del tempo oggetto di “speculazioni” e interpretazioni diverse, diventando sinonimo di vendetta, ma anche titolo di un libro di Philip Roth e potrei continuare con un elenco interminabile di utilizzazioni non sempre lusinghiere. Molto più semplice è parlare dell’album numero due della formazione di Como (e Lecco) composta da Alessio Gentile, Alberto Riva, Moris Colombo, Fausto Tripaldi e Daniele Ferrara ma che in line up non manca di mantenere vivo il nome di Gilberto Valsecchi, voce nel primo album, “L’Alba dei Morti Viventi”, scomparso ad agosto di tre anni fa.

Il sound che caratterizza La Sottile Linea Grossa è un po’ il sunto di quello che è lo spirito e lo stile da sempre connaturato alla band e le diverse esperienze fatte in chiave live al fianco di band come Il Teatro degli Orrori, Linea 77, Sick Tamburo e Punkreas. Un Nu Metal estremamente classico (anche se non molti sono gli esempi noti da utilizzare per aiutare i non addetti ai lavori) con cantato in italiano che spazia da temi intimi che spesso si ricollegano alla scomparsa di Gilberto (“Fenice”, Evasione”) ad altri apparentemente più sarcastici (“Io Porto Sfiga”) o di denuncia non necessariamente sociale e impegnata ma anche più spicciola come quella rivolta all’attuale panorama musicale italiano. Crossover fatto con energia e attitudine Punk ma che non disdegna le ruvidezze, la tempra e la determinazione del Post Hardcore a stelle e strisce riuscendo comunque a esprimersi con una puntualità esecutiva non indifferente. Ovviamente il cuore pulsante dell’opera resta quello stile Metal alternativo all’italiana (quindi con testi e liriche ben in risalto) che ha fatto la fortuna (per modo di dire) dei Linea77 ma l’opera nella sua interezza presenta rimandi diversi anche a generi in parte lontani che talvolta si fanno manifesti (vedi introduzione Ambient e Post Rock), altre volte si celano dietro la potenza sonica.

Cantando in italiano, i Nemesi dedicano tanta attenzione al significato della parte testuale e anche se in Italia troppo spesso si fa l’errore di stare molto attenti a cosa si dice e a far si che il messaggio verbale giunga all’orecchio dell’ascoltatore che ci si dimentica che la poesia è qualcosa di diverso dalla musica e si mette in secondo piano la parte strumentale quando invece dovrebbe essere il principale strumento che un musicista ha per lanciare messaggi. Oltretutto, spesso puntare i riflettori sui testi rivela non tanto i nuovi Umberto Piersanti o Gianni D’Elia ma piuttosto parolieri ingenui, banali, qualunquisti e non troppo brillanti. Nel caso specifico siamo perfettamente nel mezzo e le canzoni passano velocemente tra meandri di frasi sarcastiche, pungenti e azzeccate anche come resa sonora e altri passaggi non troppo interessanti. A dirla tutta, quando i Nemesi cercano di fare i seri e si lanciano in accuse strampalate e pseudo rabbiose al “sistema”, rischiano più volte di perdere credibilità ma è innegabile che i già citati più famosi Linea77 pagherebbero oro tanti dei testi scritti dai Nemesi.

Ma cosa rende ottimo qualcosa di modesto? Molto semplice. Il dettaglio. E tra il caos pazzesco delle tracklist che non corrispondono nel Cd e nella cover, titoli e testi sbagliati nel libretto con conseguente adesivo messo sul cellophane con commento atto a sdrammatizzare, Cd che (per quanto apprezzabile l’autoproduzione tramite Musicraiser) si blocca fastidiosamente al minuto uno e trentadue e una registrazione non proprio impeccabile direi che l’attenzione al dettaglio non pare qui una peculiarità. La cosa conta e tanto anche se quello che più conta è la musica.

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Il Paese che Brucia – Alta Marea

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C’era una volta in una pease lontano. Probabilmente questa recensione dovrebbe incominciare con questo incipit, ma la verità è che la storia de Il Paese che Brucia e del loro EP Alta Marea, non è una favola a lieto fine. Incomincio chiedendo venia al gruppo per aver lasciato il link del loro EP per un po’ di tempo in disparte e indiscriminatamente in coda rispetto a tutte le altre attività giornaliere, ma mai mi sarei aspettata di dover fare una recensione postuma. Il gruppo, infatti, con un laconico post su Facebook, colorito da una pallida metafora fiammeggiate ha annunciato, circa un mese fa, lo scioglimento. Ora la cosa più sensata sarebbe stato non fare la recensione, ma non mi sarei mai persa l’opportunità di scrivere il mio primo “necrologio”musicale.  Che sia ben chiaro, nonostante la tragedia non è ammesso nessun tipo di buonismo all’italiana per i giovanotti avellinesi.

Le cinque tracce che compongono l’EP, infatti, ci mostrano diverse aspetti del gruppo. Dal punto di vista contenutistico il quartetto non si tira indietro e affronta temi impegnati, a volte profondi, senza dubbio con una buona dose di critica alla società moderna e ai suoi malcostumi,come nell’apripista “Vita Elegante”. L’energia non manca e in tutte le tracce si nota una decisa impostazione musicale che predilige la sezione ritmica basso e batteria.  Diciotto minuti di alti e bassi, la stessa sopracitata “Vita Elegante”presenta un inizio e riff interessanti, per poi scivolare alla fine sulla buccia di banana di un confusionario Cross Over che invece di accentuarne il carattere fa perdere punti. “Circe”, pezzo di chiusura segue lo stesso cammino, inizio da ballad intensa, chitarra e voce tirata, finale in crescendo di ritmo ed intensità, se non fosse per un intermezzo, trenta  secondi di baratro, fatti da una batteria prepotente che spezza l’evoluzione emotiva del pezzo. “Il Sogno di Joro” e “Sono Fuori”  filano dritti senza troppi intoppi, sono decisamente brani figli del sound, e del corposo segno, tracciato nel panorama italiano dai Ministri. Alta Marea in questo caso è un titolo abbastanza rappresentativo per questo EP, anche se non vuol dire che Il Paese che Brucia fosse un gruppo di cui desiderare la morte, anzi probabilmente loro sono la perfetta rappresentazione, lo spaccato ideale della realtà di molti gruppi emergenti. Essere una band che non si limiti a diffondere la propria musica nel garage sotto casa è una sfida enorme, una vero scontro fra titani. Impegno, determinazione,  passione sono solo i punti di partenza, le stesse capacità musicali e di songwriting, spesso rappresentano la base,sono dati per scontato e  rappresentano un sicuro lasciapassare per il paradiso dei musicisti. Ci vuole un progetto, degli obiettivi, capacità di relazionarsi e qualche piccola dose di doti manageriali. Sembra brutto dirlo, ma la verità è che una band, è come una piccola impresa che deve crescere grazie alla sforzo colletivo di tutti, i rematori solitari e i Don Chisciotte de no altri hanno vita breve. Questo non significa rinunciare alla propria indipendenza e doversi necessariamente piegare a logiche commerciali o mainstream. In fondo per essere professionisti e vivere della prorpria musica devi trovare un tuo pubblico che ti apprezzi, che sia disposto a venire ai tuoi concerti e a pagare per i tuoi live.

La strada è irta, piena di insidie  tanti dolori e poche gioie. Forse i nostri avellinesi, antieroi della loro stessa storia, nonostante gli sforzi, non hanno avuto il giusto approccio, o semplicemente le loro strade personali si sono separate e gli interessi diversificati. Non facciamogliene una colpa, a volte è meglio interrompere ciò che non cresce, iniziare un nuovo progetto ed evitare di rimanere a vita nel limbo del garage. D’altrondela loro dicharazione d’intentire citava incautamente cosi: “Gruppo avellinese nato nel tardo 2011 da una casuale aggregazione di pessimi individui”.  Preveggenza inconsapevole, non lo sapremo mai. Sicuramente, come dal manuale della storia perfetta, possiamo trarre, un’amara e quanto mai attuale  morale, tra l’altro titolo di un libro che consiglio: “ Uno su Mille ce la Fa”.

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Cinema Bianchini – Qualche Santo Sarà

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La prima cosa che penso quando ascolto “Qualche Santo Sarà” è Jovanotti. La seconda è Grignani. Non perché i Cinema Bianchini siano assimilabili a quello che fanno Lorenzonenazionale o Gianlucatroppobelloperaverecervello; piuttosto perché se da oltre un decennio due riconosciuti campioni di stecca senza tavolo da biliardo, continuano a sfornare dischi che suonino, non dico vocalmente aggraziati, ma quantomeno intonati vuol dire che intonare una linea della voce anche artificialmente (con le immani possibilità del software musicale di nuova generazione) non è così poi difficile. In pratica il discorso è: se addirittura Grignani, da cui ho sentito dal vivo assassinare (oltre le sue, poco male) anche pezzi di Battisti che voleva omaggiare, può fare un disco intonato, ma perché i Cinema Bianchini danno alle stampe un buon disco e poi lo rovinano lasciando tutte le linee di voce stonate? Se è una scelta low profile o low fi, vorrei urlaglielo in modo incontrovertibile, è solo LOW. Anche perché a tratti le linee melodiche dei pezzi di questo sono anche più che accattivanti, sono interessanti e si lascerebbero ascoltare con piacere se non fossero tutte traballanti e incerte nell’intonazione.

Un misto tra Verdena, Timoria dei tempi di “Viaggio Senza Vento” e qualche tirata più Sangiorgesca. Non posso dire che tendenzialmente non possano piacere, posso dire che sicuramente se ne accorgerebbe anche Grignani che il cantante dei Cinema Bianchini stona come un ossesso. Peccato davvero perché anche gli arrangiamenti suonano benino e strizzano l’occhio alla tradizione anglosassone e americana con un batterista in gran forma che dà vita ad un groove danzereccio e non banale. I testi sono ben scritti e nascondono anche qualche bella frasetta da ricordare e sfoggiare con qualche tipa un po’ brilla: “Ci siamo innamorati delle crisi, ci siamo innamorati dell’amore, più dell’amore che della sostanza”. Certo, spero di aver sentito male,  ad un certo punto si sente uno strafalcione grammaticale, un “non smettavamo più” ripetuto due volte in “Mercurio”, che se è una svista è una svista da pennarello rosso nell’occhio; per non dire altro. Concludendo: per essere il primo disco completo, i Cinema Bianchini esordiscono benino, indirizzandosi al segmento dei piccoli adolescenti che si vorrebbero pure emancipare dai loro coetanei discotecari, pur senza grande impegno. Dovrebbero aggiungere all’organico della band due elementi: un Autotune e un correttore di bozze.

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