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Luomoinmeno – Quel Filo Sottile Che Chiami Voce

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Dopo l’ascolto di Quel Filo Sottile Che Chiami Voce, EP tremendamente Lo-Fi dell’evanescente Luomoinmeno, dire che mi trovo interdetto è davvero troppo, troppo poco. Le otto tracce, rigorosamente chitarra acustica e voce, dai titoli amorfi come “001”, “002”, ecc., fino all’ultima, che invece diventa, plot twist, “Alba Distrutta”, presentano una scrittura che è quasi litania, un cantato più che flebile, sottile al limite della trasparenza, e un suonare asciutto, lineare, diretto.

C’è del materiale anche interessante, passaggi orecchiabili e immagini accese, quasi crudeli, spesso curiose. Ma la presentazione è delle più povere possibili: stonature che rimangono, rumori di fondo, una registrazione particolarmente scadente (con persino il suono di play e stop ad ogni cambio di brano). Va bene, la forma non è tutto: ma bisogna avere rispetto per le cose che si fanno, e tranne rare eccezioni, in cui la povertà della messa in scena è parte integrante dell’opera d’arte, fare in questo modo è un rischio davvero troppo elevato, per lo meno rispetto alla facilità odierna di accedere alla possibilità di una registrazione decente. Quel Filo Sottile Che Chiami Voce, o almeno così pare leggendo tra le righe, ha cose da dire e uno stile proprio nel farlo. Sfiora spesso il rischio di far confondere un brano con l’altro, ma potrebbe darsi sia anche colpa della povertà degli arrangiamenti. Di certo, speriamo che la prossima volta Luomoinmeno sia pronto a spendere più tempo e più risorse per dare alla sua musica una pulita e un bell’abito nuovo.

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Years Without Days feat. Athonal – DJ Set #1

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Dj Set#1 nasce dall’incontro di due emergenti della musica elettronica: Years Without Days e Athonal, rispettivamente Luigi Calfa e Simone Giudice. Insieme per la prima volta sul palco del Color Fest (8 Agosto 2013) a Lamezia Terme, nel cuore della Calabria che per ventiquattr’ore di fila ha ballato sulla musica de I Ministri, Nobraino, Giorgio Canali & Rossofuoco ecc. Una festa di colori e musica soprattutto per riscattare una terra troppe volte martoriata e sottovalutata.

Un primo featuring che lascia intendere almeno l’idea di un secondo incontro per costruire ancora quegli universi paralleli ma similari, fatti di infiniti loop e pensieri metafisici creati su idee e passaggi semplici che rendono l’elettronica minimale ma soprattutto chiarissima all’ascolto di ogni singolo piccolissimo passaggio che apre inesorabilmente un mondo fatto di sensazioni tattili in paesaggi futuristici e lontani dall’immaginario odierno. Ma anche un’elettronica che guarda ai suoni più contemporanei e atonali presenti all’inizio del Dj Set, utili a definire mondi popolati da creature misteriose e silenziose che riportano l’uomo verso il suo passato ancestrale, verde e vuoto e su una terra incontaminata che fa pensare a 2001 Odissea Nello Spazio e all’inconfondibile monolito di una nuova e inarrivabile generazione. Un lavoro semplice ed elegante che ad alto volume sprigiona una potenza che non nasconde niente. Una potenza fatta di tempi enormi, scanditi da infiniti giri di vinile. Ma soprattutto più di un’ora riempita da una tracklist invidiabile, partendo da Alva Noto, la cui musica è arrivata nei centri d’arte contemporanea più importanti del mondo, dal Guggenheim di New York alla Biennale di Venezia, passando per Ramadanman, Marcel Fengler, i Radiohead con“Good Evening Mrs Magpie” e Apparat con la Noise version di “44”.

Un Dj Set che loro stessi definiscono “fine e mirato. Samples tenuti in vita mentre breakbeats variano a suon di 2 Step e Garage con innesti di Techno. Beat-maker di professione. Il sequencer è un’utopia. Il crepuscolare si unisce al minimale, il risultato al primo EP sa un po’ di malinconico e un po’ di misterioso”. Insomma un Ep non invasivo e utile anche per immergersi in questo mondo per la prima volta.

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InSonar/Nichelodeon – L’Enfant et le Ménure / Bath Salts

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L’ultima cosa che avrei voluto fare è pronunciami su un prodigio di tale portata. Avrei preferito solo godermelo ma inevitabilmente è questo il modo migliore per farvi sapere che, in Italia, (già proprio nell’Italia de I Cani, Lo Stato Sociale, Vasco e Liga), qualcuno è capace di tirare fuori opere d’arte di pregevole fattura e totalmente slegate dalle logiche di mercato anche minime. Dietro tutto ciò c’è Claudio Milano nelle vesti della neonata creatura chiamata InSonar e di una vecchia conoscenza dell’Avant Prog, i Nicheloden.

Andiamo per ordine cercando di racchiudere in meno parole possibile tale progetto che in realtà avrebbe necessità di un tomo di oltre mille pagine per essere raccontato in modo esaustivo.  Lo split è composto di quattro cd per due parti. La prima è intitolata L’Enfant et le Ménure (il bambino e l’uccello lira) ed è realizzata dagli InSonar. il potere dell’immaginazione infantile che trasforma l’orrore in meraviglia. Sono i bambini a raccontarci delle fiabe per aiutarci a non avere paura del buio, dentro e fuori. Questo il tema. I due cd sono avvolti in un booklet per la prima metà in bianco e nero contenente alcune opere di Marcello Bellina (in arte Berlikete) e quindi mosaici di Arend Wanderlust. Il progetto di Claudio Milano e Marco Tuppo vede la partecipazione di sessantadue musicisti da tutti i continenti tra cui Elliott Sharp, Trey Gunn & Pat Mastellotto, Walter Calloni, Paolo Tofani, Ivan Cattaneo, Nik Turner, Dieter Moebius, Thomas Bloch, Ralph Carney, Dana Colley, Graham Clark, Richard A Ingram, Albert Kuvezin, Othon Mataragas & Ernesto Tomasini, Nate Wooley, Burkhard Stangl, Mattias Gustafsson, Werner Durand & Victor Meertens, Erica Scherl, Michael Thieke, Viviane Houle, Jonathan Mayer, Stephen Flinn, Angelo Manzotti, Roberto Laneri, Vincenzo Zitello, Elio Martusciello, Thomas Grillo, Pekkanini, Víctor Estrada Mañas, Eric Ross, Takeuchi Masami, Gordon Charlton, Francesco Chapperini, Luca Pissavini, Fabrizio Carriero, Andrea Murada, Andrea Illuminati, Max Pierini, Lorenzo Sempio, Andrea Tumicelli, Nicola De Bortoli, Francesco Zago, Michele Bertoni, Alex Stangoni, Michele Nicoli, Stefano Ferrian, Alfonso Santimone, Luca Boldrin, Andrea Quattrini, Beppe Cacciola, Simone Zanchini, Paola Tagliaferro & Max Marchini, Raoul Moretti, Pierangelo Pandiscia & Gino Ape.

Il primo disco intitolato appunto L’Enfant è un tripudio di sperimentazioni Progressive e vocali che partono da atmosfere giocose e fanciullesche per svilupparsi in arie più languide, tenebrose e inquietanti. Si passa da cantati in latino, alla lingua italiana, dall’inglese al francese, dal Progressive più classico, alle digressioni psichedeliche e cosmiche, passando per motivi fiabeschi e lisergici o melodie più Pop, sempre alla maniera di Milano. Tutta la prima parte è dedicata ai membri familiari, per poi rivolgersi a Dio o agli amici e la resa musicale è rifinita da una strumentazione variegata e, a volte, inusuale. Pensiamo al marimba (una specie di xilofono di legno), al theremin, la fisarmonica, la tabla, l’arpa, il didgeridoo (una specie di lungo e grande flauto), il glockenspiel, altri strumenti fatti in casa, altre bizzarrie etniche, oltre ovviamente a cose più consuete, per modo di dire. Si passa dai testi del compositore francese Charles Gounod, a brani totalmente originali targati Claudio Milano e/o Marco Tuppo; da citazioni del compositore Umberto Giordano a collaborazioni importanti; da prestiti illustri da autori celebri come Agatha Christie, Federico Garcia Lorca o la Bibbia fino a una cover assolutamente degna di “Venus in Furs”, dei Velvet Underground.

Il secondo cd, intitolato Ashima, si apre subito nella più totale inquietudine, rafforzando ancor più quel legame tra improvvisazione jazzistica, canto sperimentale ed elettronica. La citazione tratta dai sottotitoli italiani del capolavoro di David Lynch, Twin Peaks, sarà il presagio dell’atmosfera che ci accompagnerà in questo secondo tempo dell’opera mastodontica che stiamo ascoltando. Altro indizio importante sarà la cover di “Song to The Siren”, probabilmente il brano più noto del genio Tim Buckley che è anche tra i suoi componimenti più struggenti. Oltre a sviluppare leggermente il discorso di sperimentazione musicale, evolvendo in suoni più moderni ed etnici, il secondo disco regala l’aggiunta della lingua spagnola, d’idiomi infarciti di babelica confusione (in questo senso, perfetta la scelta di realizzare una cover di “Warszawa”, brano scritto da David Bowie e Brian Eno, dal linguaggio immaginario e prettamente musicale) di nuova strumentazione, kargyraa, buste di plastica opportunamente tagliate, eccetera, eccetera, eccetera. Il disco si chiude con la versione number  two di “Gallia”, questa volta con testo in italiano (nel disco uno era in francese) e poi un pezzo strumentale volto ad allentare l’atmosfera. La prima parte cessa cosi. Vi ho detto tanto e invece non vi ho detto quasi niente di quello che c’è dietro ai due dischi che formano L’Enfant et le Ménure ed è già ora di mettere sul piatto un altro cd. Da questo primo tempo quasi giocoso e bambinesco si passa alla seconda parte, targata Nichelodeon e quindi su un terreno più battuto, vista la vecchia conoscenza con il supergruppo di Milano (anche geograficamente parlando) ormai in circolazione da circa sei anni e all’attivo piccoli gioielli di Avant Prog e Free Improvisation (come No o Il Gioco Del Silenzio), che narra motivi come il cannibalismo nei rapporti interpersonali nell’epoca contemporanea, non dimenticando gli orrori che guerre passate, come fantasmi, hanno lasciato sedimentare nelle nostre coscienze. Il booklet in questo caso contiene i dipinti e le poesie visive di Effe Luciani e le foto di Andrea Corbellini. Claudio Milano è affiancato da Raoul Moretti, Pierangelo Pandiscia e Vincenzo Zitello, Michel Delville, Walter Calloni, Paolo Tofani, Valerio Cosi, Fabrizio Modonese Palumbo, Alfonso Santimone, Stefano Delle Monache, Elio Martusciello, Paolo Carelli, Lorenzo Sempio, Max Pierini, Andrea Breviglieri, Andrea Murada, Massimo Falascone, Sebastiano De Gennaro, Giorgio Tiboni, Laura Catrani, Valentina Illuminati, Ivano La Rosa, Luca Pissavini, Alessandro Parilli, Francesco Chiapperini, Andrea Quattrini, Fabrizio Carriero, Anna Caniglia, Marco Confalonieri, Simone Pirovano, Simone Beretta. I dischi che compongono Bath Salts sono due capitoli della stessa pellicola. Il primo, sottotitolato D’Amore e di Vuoto e il secondo Di Guerre e Rinascite. Si tratta di una miscela spettacolare d’improvvisazione jazzy, sperimentazioni vocali, testi criptici ed evocativi, atmosfere incantate ed inquietanti che sembrano spaziare tra le pieghe della fantasia umana. Anche in questo caso non mancano pezzi presi a prestito da Bertold Brecht, cover di Peter Hammil e tanto altro. Le sonorità Progressive sono ora dilatate, ora liquefatte, ora attorcigliate e deformate, ora ricomposte in forme più consone lasciando alla voce gran parte del palcoscenico e della luce. Il canto di Milano si avventura verso i suoi limiti invalicabili ma non disdegna le tenui passeggiate nelle nuvole della melodia più popolare figlia della tradizione cantautorale tricolore. Nel secondo disco la voce si attesta su tonalità più gravi e le situazioni si fanno più crude, feroci. I temi essenziali, quali l’amore, la spiritualità, la vita lasciano il posto a freddi riecheggiamenti bellici, a temi come la morte, la guerra, la sofferenza fino alla rinascita, anche musicale, alla quale si assiste a partire da “L’Urlo Ritrovato”, forse il punto più alto dell’opera.

Il capolavoro è una beatificazione sonica delle arti che vengono nei quattro cd rievocate e mescolate, elevate e sporcate le une dalle altre; l’arte visiva è messa egregiamente in mostra all’interno dei booklet, con foto di pregiatissima fattura ritraenti le opere di diversi, già nominati, artisti. La poesia è sia raffigurata dai testi dello stesso Milano ma si sposa anche con le arti visive e con la musica e le rievocazioni delle opere di altri grandi autori del passato, più o meno recente. Il teatro è parte integrante del cantato di Milano e diventa uno dei tanti protagonisti di tutta l’opera. Pittura, scultura, poesia, teatro, cinema, musica, fotografia. Musica Rock Sperimentale, Jazz, Progressive, Pop, Cantautorato, Ambient, Psychedelia e poi una moltitudine di autori, strumenti, ricordi ed evocazioni.

Per chiudere il cerchio sarebbe opportuno gustarsi anche dal vivo le performance di Claudio Milano e di tutti i diversi pezzi da novanta che lo accompagnano nelle sue svariate avventure, ma non ho la possibilità fisica di farlo nell’immediato e quindi non mi resta che sigillare questo mio scritto, più un consiglio per appassionati che una vera recensione. Dovrei ora aggiungere la classica frase a effetto, che riassuma l’opera tutta, le emozioni suscitate e vi lasci la voglia di ascoltare i quattro dischi. Non ci riesco perché letteralmente mi ritrovo ancora bocca aperta, con un sorriso ebete, a bearmi di quanto ascoltato e di quello che L’Enfant et le Ménure / Bath Salts rappresenta anche ben oltre i significati artistici e le chiavi di lettura fornite dai sensi e dall’intelletto. Vi lascio allora alle parole di Claudio Milano, tratte da una sua vecchia intervista. Forse vi aiuterà a capire cosa c’è dietro tutto questo:

Nell’attuale idea di arte, sostanza e forma collimano così come creatività, professionismo e peso economico. Non è possibile intendere l’artista come qualcuno che non appare ripetendo alcune dinamiche ed essendo immediatamente riconoscibile. Arte oggi coincide con specchio, è manifestazione di una società che ci dicono, si “autocrea”, ma che in realtà è sottilmente “facilitata” da abili venditori. Per me, arte rimane invenzione di nuovi linguaggi di contenuto e forma significante, capaci di spostare, anche solo di un passo più in là, la nostra capacità di visione e percezione. Esistono tanti musicisti che lo fanno tutt’oggi, che trovano tristemente pochi mezzi per arrivare a un pubblico più vasto. Sarebbe bello che la critica musicale avesse percezione della sua storia, così come fa la critica che si occupa delle arti visive”.

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The Letter Yellow – Walking Down The Streets

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Solo poche settimane fa mi sono io stesso ritrovato a parlarvi del lavoro di un duo di Brooklyn chiamato Live Footage, per metà rappresentato dal batterista e percussionista Mike Thies. Ora lo stesso Mike torna a farsi sentire con il debutto di The Letter Yellow, al fianco di Randy Bergida (voce, chitarra e synth che con l’altra metà dei Live Footage, Topu Lyo, forma gli Skidmore Fountain) e Abe Pollack (basso, lap steel e synth) per non dimenticare la special guest Beck Burger (piano, rhodes e organo).

Un debutto che vi anticipo carico di armonie e melodie malinconiche come passeggiate tra i viali di una New York colorata d’autunno e che racconta tutte le micro storie che questi letti d’asfalto rivelano ogni giorno. Una lunga camminata che parte da Greenpoint Brooklyn (quartier generale della band) attraversa le case di Bleecker Street, Hope Street, Harlem, Coney Island, lambisce quartieri nascosti, sorvola le linee ferroviarie di vagoni dipinti dalla strada, racconta dialoghi banali, innamoramenti, solitudine e ci porta dritti a scoprire la propria, di strada, dentro il caos della grande mela. Un album che va ascoltato con attenzione, anche nella sua parte testuale, perché proprio le parole saranno l’amplificatore emozionale di questo piccolo gioiello che, sotto l’aspetto musicale, presenta la stessa freschezza degli esordi di band ormai affermate del panorama Indie Pop, come Grizzly Bear o Fanfarlo. Eccezionale il trio iniziale “Changed”, “Hold Me Steady”, “I’ Can’t Get A”, meraviglia melodica, con spruzzate di tradizione Folk. Tre pezzi che, se approfonditi, perfezionati, e addobbati, specie nei crescendo pseudo orchestrali, sarebbero stati la chiave per inserire questo disco già nel limbo dei migliori dell’anno. Convincono meno invece i momenti più “neri” (“Hope Street”, “I Got You”) dove basso e voce prendono la testa della carovana. Per quanto apprezzabili le doti cantautorati di Randy Bergida, proprio la sua voce non sembra poter reggere sulle spalle lo scheletro di certi brani che dovrebbero trovare in lui la loro forza. Cosi come suonano inutili le ostentazioni Rock’n Roll di “14 Bar Blues”, che, per quanto sia solo un episodio sporadico dentro la tracklist, non ha il merito né di fare da intercalare a due tempi dell’album, né di allentare le tensioni soniche.

Meglio allora i pezzi in cui Randy Bergida si mantiene su binari più consoni, a metà tra il Folk Rock più popular che quasi ricorda gli Arcade Fire (“Hooray He’s Not Dead”), pur senza la magniloquenza e l’energia dei canadesi e derive quasi Chamber Pop. Molto meglio quando la musica abbraccia e danza con la sua timbrica (che troverete certamente familiare) scivolando senza patemi d’animo e inutili ridondanze stilistiche (“It’s Monday And I’m Dreaming”) in un Indie Folk ora più potente, quasi in stile british morrisiano (“Out on The Streets”) ma non solo (“In The Sun Making Waves”), ora più compassato e romantico (“Window”, “Southern Bound”).  Se dentro i dodici pezzi, le cose da cancellare sono veramente poche è anche vero che le cose che potremmo definire sopra la media sono anch’esse esigue e si limitano alla parte iniziale. Nulla è troppo originale o geniale ma quei tre brani che danno il via al cammino per le vie di New York suonano perfetti, melodiosi, evocativi, gradevoli, semplici ma mai spartani o grossolani e questo basta perché possano essere considerati come un ottimo inizio. Tutto ciò che viene dopo la traccia numero tre è pioggia e tuoni, schiarite, sole accecante dritto nelle pupille e vento freddo sulla faccia. Per non gettare tutto del tragitto basta guardare, come fossero foto, solo le cose più belle e sognare che il prossimo viaggio possa essere tutto come l’inizio di questa passeggiata.

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ESMA – Rivoluzione al Sole Vol.1 Impossibile è Solo Una Parola

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Dicono che le grandi rivoluzioni comincino sempre dal basso. Bisogna toccare a piedi uniti e fermi il fondo per potersi dare uno slancio verso la superficie, verso la luce, verso il Sole. Dicono anche che non vi è altra via per l’alba se non attraverso la notte. Forse questo concetto era ben chiaro nella mente di Enrico Esma quando si è trattato di impugnare penna e chitarra per la realizzazione di Rivoluzione al Sole Vol.1 – Impossibile è Solo Una Parola, prima tappa di un lavoro di più ampio respiro, organizzato in forma di concept album, che prevede, a breve, l’uscita del Vol.2.

La rivoluzione di Esma comincia a notte inoltrata, quando l’orizzonte è solo una linea immaginaria, ma non tutti sanno che quello è solo l’inizio. Scorrono le lancette dell’orologio, ed in lontananza si palesano luci fioche che aumentano man mano d’intensità, fino a trasformarsi in raggi solari. È questa la metafora che accompagna l’intero album, che si evolve in un crescendo dal buio alla luce: le sonorità ruvide del Grunge più primordiale, le distorsioni del Rock più duro, crepuscolare a tratti, vanno scemando man mano i toni fino ad arrivare a sonorità Alternative Rock decisamente più melodiose. Avrei dovuto intuirlo dalla copertina del disco che la parola Sole del titolo non avrebbe fatto alcuna allusione a sonorità caraibiche: di sole si tratta, certo, in primo piano, ma stampato su sfondo grigio, il colore che forse tinge troppo spesso il cielo di Orbassano, perché è in provincia di Torino che quest’album ha visto la luce. Se il filo conduttore che accompagna lo sviluppo del disco è abbastanza evidente nella parte strumentale, lo è meno nei testi, ancora troppo acerbi ed alla ricerca di allucinazioni oniriche in stile Verdena che talvolta risultano forzate, soprattutto nella prima parte.

“Faraon” è la prima traccia del disco. È questo il fondo dal quale comincia la risalita, la notte che si deve superare. Il suono è rude, graffiante, essenziale; un’operazione a cuore aperto senza “Anestesia” (secondo brano). “Dente di Drago” e “Resto Abile” smorzano un po’ i toni duri ed introducono i primi bagliori di luce all’orizzonte, ma i primi veri raggi luminosi si vedranno solo con “Pianoforte in Fiamme Sulla Spiaggia” ed “Universo”, dove le chitarre distorte lasciano il posto a quelle acustiche. Ed infine il Sole, lontano ed infuocato, avvolto in una luce tutta sua, “Come Una Stella”: ecco che spunta  l’alba, ecco la fine del disco. Un finale che non è un vero finale, ma apre lo scenario verso un nuovo inizio. Non ci resta che attendere l’uscita del Vol.2 per sapere come andrà a finire.

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Le Strade – In Fuga Verso il Confine

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Le Strade, un nome molto comune ma che accomuna le vite di quattro musicisti, Alessandro Brancati, voce e testi, Davide Baldazzi, chitarre, Gigi Fanini, basso, e Alessandro Soggiu, batteria e percussioni, che nel 2013 escono con il loro primo lavoro ufficiale. Un esordio quello de Le Strade dal titolo sincero e in questo periodo molto veritiero In Fuga Verso il Confine. Un confine oltre il quale si sogna la libertà, la dignità e soprattutto la consapevolezza di un popolo in declino come quello italiano.

Un Ep che percorre le strade dell’Indie Rock Alternativo, da tutti definito ottimo per il grande potenziale sonoro. “In Fuga Verso il Confine” è anche la prima traccia del disco. Una traccia energica, ritmica, condita da cori e giochi armonici che la rendono la più interessante dell’intero lavoro. Secondo brano è “Aperti al Moralismo” che oltre a confermare quello già detto in precedenza sottolinea maggiormente la via intrapresa che svincola in “T.H.Y (Tell Him, You)” sempre ritmico, travolgente, con cori che non disturbano nella maniera più assoluta, aggiungendo quel quid in più in un brano cupo e notevole nel quale si urla il presente. Suoni arabeggianti fanno capolino nel penultimo pezzo “La Mia Ricerca Della Felicità” che risulta interessante soprattutto nelle parti strumentali che desiderano essere sviluppate. “Il Pezzo” chiude questo lavoro in un modo marcatamente malinconico da definirlo, come già è stato fatto, una sorta di requiem finale che chiude una vita già piena.

Un esordio assolutamente soddisfacente per il gruppo bolognese che dimostra una buona propensione al Rock classico per immergersi totalmente in quello Indipendente italiano, una maturità non indifferente sia per quanto riguarda i testi definiti più e più volte impegnati e sia nella coniugazione tra gli strumenti che risulta ottimale. Un buon inizio, risultato di un lavoro ben fatto e di una propensione comunicativa ben coltivata. Parecchi complimenti a Le Strade che dovrebbero servire a continuare con più forza il percorso intrapreso, senza sedersi sugli allori.

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Eternauti – Il Vuoto è Segreto

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Gli Eternauti sono un giovane gruppo pugliese formato da Dario Bissanti, voce e chitarra, Giuseppe Carucci, basso, Antonio Attolini, batteria, con l’aggiunta nel 2013 di Claudio Giuseppe Fusillo, tastiere e seconda voce. Il loro percorso inizia nel 2009 quando incidono la loro prima demo casalinga assieme alla mini demo La Majorité C’est Vous del 2010, continua sui palchi della Puglia e dei più svariati festival (Controfestival, Festival Fuori dal Comune, Dirockato, Giovinazzo Rock Festival) e anche grazie al crowdfunding. Infatti in Puglia si è sentito parlare degli Eternauti proprio perché sono stati il primo gruppo ad affidare la promozione del loro disco alla piattaforma MusicRaiser, avvenuta grazie alla più tipica raccolta fondi ricambiata poi con svariati regali (una foto, un autografo ecc).

Nel 2013 finalmente esce il loro disco d’esordio Il Vuoto è Segreto, registrato e missato a Milano, con copertina e disegni di Claudio Losghi, fotografie di Nicola Boccardi e grafica interessante di Giuseppe Carucci.L’album è formato da undici brani registrati dalla band esclusivamente in analogico e al riparo dal “gelo” dei supporti digitali, il che è assolutamente apprezzabile. Naturalmente in tutto l’album si sviluppano testi che vogliono raccontare, come loro stessi dicono, riflessioni, storie personali, rapporti passati e futuri, visioni, ostacoli e omaggi come per esempio nel secondo brano “La Fotografia Dei Led Zeppelin” interessante e piacevole soprattutto nel ritmo. Ritmo che si sviluppa in quasi tutto il disco anche mediante un approccio Pop-Rock (“Senza Fine”, “Carro Armato”), Cantautorale (“Malinconica Giornata”, “Essere Meraviglioso”, “Solo tu”) e dissonante (“La Formula”, “Voglio Diventare Come Te”).

Se si ascolta più attentamente si scopre anche come un album di protesta, come già detto prima contro i supporti digitali che appiattiscono il suono facendolo diventare quasi finto o contro qualsiasi forma di oppressione (Protesta se vuoi per la libertà, nessuno lo fa è una questione di priorità). Al centro inoltre c’è il significato del vuoto in senso metafisico e sociale come loro stessi dicono “siamo circondati da tonnellate di orpelli inutili. Ma basta grattare in superficie per scoprire che dietro questi orpelli c’è solo un grande vuoto, di cui dobbiamo liberarci, rendendolo palese”. Insomma un album che si conquista la sufficienza grazie a certe idee espresse, al ritmo e a qualche brano interessante, ma che non va oltre proprio per la mancanza di particolari pregi vocali o colori strumentali. Inoltre nessun brano o parte di esso risulta emozionante in senso stretto o talmente particolare da essere catturato dalla memoria orecchiabile nei giorni successivi agli ascolti. Questo è certamente un vuoto che andrebbe colmato con lo studio, la costanza ma soprattutto la bravura e la voglia di esprimere qualcosa di emozionante e degna di essere ricordata.

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Velvet – La Razionalità

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Spesso nella vita come nella musica ci si basa sulle proprie esperienze e si è vittima di preconcetti e pregiudizi, la cosa piacevole è quando in entrambe la situazioni tutti i pre del caso scoppiano come bolle di sapone. I Velvet, spauracchio delle boyband anni 90, dopo 5 dischi e alcune radio hit di successo escono con il loro terzo EP intitolato La Razionalità. Ultimamente la forma EP sembra essere la modalità espressiva preferita di molti musicisti, forse perchè meno legato ai vincoli e alle aspettative che si creano intorno agli album. Io, ascoltando le cinque tracce proposte, un’idea me la sono fatta. Ammetto di non essere mai stata una fedele ascoltatrice e una seguace pedissequa, ma sicuramente schiacciando il tasto play non mi aspettavo un’evoluzione di tale proporzione, distante anni luce dal 1998. I Velvet senza dubbio hanno lasciato dietro di sè il passato e hanno intrapreso un loro percorso che li ha portati ad esplorare nuovi mondi, neanche troppo sommersi. Insomma La Razionalità è un istantanea che fotografa lo stato dell’arte del momento vissuto dal gruppo. Dicevamo cinque tracce, il primo ascolto non è stato il migliore: ciglie aggrottate e naso arricciato, ma la sfida per me era persevarare e a posteriori sono contenta di aver scoperto un viaggo  variegato e  fatto di momenti distinti tra loro. Prima tappa l’elettronica, che rappresenta in maniera decisa l’influenza più prepotente a livello sonoro, un fiorire di tastiere e suoni distorti e coretti che strizzano l’occhio ad esperti del genere come i Subsonica. L’elettronica non è per tutti e come un arma a doppio taglio il rischio è quello di sembrare un lontano parente di Sandy Marton, piuttosto che un bravo musicista; per fortuna la tracklist e primo singolo in uscita, “La Razionalità”, sorprende per il carattere pop, ritmato, ballabile e con quel pizzico di ironia testuale che nel giro di pochi viaggi in metro mi ha catturata nel loop del tormentone dal quale non sono più uscita. Mi vedo già trasportata su di una spiaggia a ballare come non ci fosse un domani sorseggiando cocktail. Il mood elettronico si ritrova in “Le Case D’Inverno” anche se qui l’amtosfera si fa notturna e languida e tutto suona più morbido. Finisce il primo giro e ne comincia un altro nel quale atterriamo nel mondo delle colonne sonore, terra amica al quintetto, nel quale ha iniziato a sguazzare amabilmente già da un po’,“I Cento Colpi” e la sua versione estera “I’ve Dream About You Love”, lato A e B della stessa cassettina, si fanno notare per la loro attitudine, pacata, privata di eccessi, di accompagnamento, appunto, a una scena fatta di canne al vento che ondeggiano. Probabilmente la A version italica riesce a essere più suggestiva di quella inglese. La terza  e colclusiva tappa del Velvet tour approda in un mondo contemporaneo, forse troppo, fatto di parole recitate su basi ricche di suoni digitali ed effetti da smanettoni e privè Rock And Roll,  “L’evoluzione “ vorrebbe negli intenti essere un brano provocatorio ma le frasi celebri e  le citazioni che ne compongono il testo non riescono ad avere sapore e potenza espressiva. Una moda, forse, della quale potremmo fare a meno. Ritornati al punto di partenza possiamo quindi raccontare un bel viaggio fatto di momenti alti e qualche intoppo fuori programma. Non ci troveremo di fronte all’uscita dell’anno, ma nemmeno alla solita minestra riscaldata che molti propongono, e sicuramente nemmeno ai soliti Velvet, per una volta mettiamo al bando i pre e lasciamo parlare solo la musica.

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Midnight Faces – Fornication

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Le due facce di mezzanotte che stanno dietro a questo progetto arrivato direttamente dalla capitale dello stato capitalista per eccellenza sono Philip Stancil e Matthew Warn. Warn inizia ben presto a fare musica con un amico d’infanzia, Jonny Pierce, poi voce dei The Drums (con lui Jacob Graham, Adam Kessler e Connor Hanwick), band Indie Pop in orbita dal 2009, con all’attivo due full lenght, l’omonimo esordio e “Portamento” del 2010, oltre a numerosi singoli, Ep e partecipazioni a compilation. Dopo un primo album pubblicato con l’amico Pierce, Warn fonda insieme a Josh Tillman (dall’anno scorso ex batterista dei Fleet Foxes, oggi più noto come Father John Misty), i Saxon Shore, formazione Post Rock di buonissimo livello.

I Midnight Faces nascono dall’incontro di Warn con Philip Stancil, anche lui cresciuto con la musica intorno, giacché la sua è proprio una famiglia di musicisti. Warn aveva già realizzato le parti strumentali e invitò quello che ne è il compagno artistico ad aggiungere le sezioni vocali. Prese cosi vita questo Fornication.

Dieci tracce, dieci canzoni melodicamente Pop ma dai mille retrogusti. Si passa da alcuni momenti più oscuri, quasi Darkwave, specie nella sezione ritmica e negli echi delle chitarre (“Fornication”, “Kingdome Come” “Turn Back”), ad altri nei quali la vocalità e l’approccio cantautorale di Stancil prendono il sopravvento (“Identity”, “Heartless”). Tanti sono i passaggi nei quali l’Alt Rock (“Crowed Halls”) si addolcisce per seguire strade più popolari e di più facile ascolto (“Give In Give Out”, “Now I’m Done”), grazie anche a un’attenta e puntuale ricerca melodica e moltissime sono le congiunture nelle quali tutta la vita di Warn e quindi le sue conoscenze personali, più o meno dirette (abbiamo detto The Drums, Fleet Foxes, Saxon Shore), sono riportate in musica. I brani più riusciti sono quelli nei quali il Dream Pop particolarmente sintetico si sposa con l’elettronica creando suggestive ambientazioni filmiche, a tratti danzereccie quasi eighties (“Feel This Way”, “Give In Give Out”, “Kingdome Come”) in uno stile perfetto che richiama il grande Anthony Gonzales (M83) ma anche, volendo ampliare il proprio spettro di vedute, i Depeche Mode (“Holding On”), cosi come gli Slowdive, ovviamente con ritmi più dinamici.

Un disco che miscela quindi atmosfera e melodia, con cura ed eleganza, puntando forte sulla voce ma senza tralasciare l’aspetto strumentale, elettronico soprattutto. Sceglie melodie orecchiabili e non calca troppo la mano su artifizi di alcun tipo finendo però per sprofondare nell’altro versante della questione. Eccessiva semplicità che si trasforma in povertà d’appeal e melodie che, per quanto gradevoli, finiscono per essere di facile oblio, perché troppo simili le une alle altre. Dieci episodi che si presentano, in linea di massima, tutti ugualmente apprezzabili e facilmente godibili, senza però riuscire a suscitare un interesse che vada oltre la semplice amabilità sonora. Per chiudere, se avete difficoltà a trovare mezze misure, questo è il disco perfetto per affibbiare la vostra sufficienza, niente di più, niente di meno, almeno per questa volta.

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Ard – NeurodeliRoom26

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La Campania, si sa, è un territorio difficile come lo è la Sicilia, la Puglia ma infondo tutta l’Italia (e tutto il mondo) mangiata dalla mafia. La mafia, detta in parole povere, è un potere più forte che schiaccia quello più debole, infiltrandosi dappertutto e anche nella musica che diventa veicolo pulito attraverso il quale far passare i messaggi del clan. Questo ce lo dice Roberto Saviano in alcuni suoi racconti ma anche il rapper Lucariello che, fortunatamente, fa parte di quella schiera di musicisti davvero puliti, cui fa parte anche il salernitano Ard, protagonista di due altre autoproduzioni e varie collaborazioni.

NeurodeliRoom26 di Ard è l’album d’esordio ma anche, come descritto dall’artista stesso, “un viaggio onirico, tra le paure e i deliri della stanza 26 (stanza ispirata al film “Eraserhead” di D.Lynch)” a cui si accede attraverso una breve intro di poco più di due minuti denominata “Deja Vu pt.1” che ha il compito di aprire la strada a “Deja Vu pt.2” che parte con un rap sparato ben strutturato nelle liriche e nelle basi sonore. “P’ cena” rinforza quanto detto prima, evidenziando le qualità di rapper di Ard, anche se ha un outro che si discosta molto dal resto del brano e soprattutto dalla successiva “StendhArd” che comincia simulando i Portishead per poi allontanarsi e in pochi secondi dirigendosi verso spazi musicali totalmente opposti. Il gioco di parole sul titolo fa capire che forse il brano in questione vuol essere quasi il manifesto sonoro di Ard ma forse la successiva “Passpartout” (complice l’uso della lingua italiana) secondo me lo identifica maggiormente grazie anche a un uso massiccio di scratch ed elettronica. “Ndr26” presenta rime interessanti e mai troppo banali invece “Hotline dei Suicidi” è un insieme di campionamenti ben incastonati tra loro ma in maniera forse un po’ troppo ardita che difficilmente potrà essere recepita da un ascoltatore in Italia ma probabilmente troverebbe apprezzamenti di critica e di pubblico soprattutto in Inghilterra e negli Usa. “Krmstr” inizia con l’intro di “Lullaby” dei Low, brano contenuto nel capolavoro Slowcore I Could Live in Hope ma poi “Ruorm’ ca è Meglio” attenua le atmosfere conducendo alla fine del disco.

Un lavoro che in linea di massima presenta molti buoni spunti e idee soprattutto nell’impasto musicale e nei testi che sembrano ben studiati ma la struttura dei brani rimane sempre statica con effetti e campionature sia all’inizio che alla fine di ognuno e per quanto riguarda le cifre stilistiche non sembrano esserci riferimenti alla scena rap italiana, quanto più che altro a quella americana, che tuttavia presenta testi più incisivi e violenti. Infine, forse con un mastering migliore e con un produttore, questo lavoro avrebbe guadagnato anche qualcosa in più in suono, stile e volume che se alzato al massimo distorce i suoni.

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Distinto – In Genere

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Daniela D’Angelo, voce e chitarra acustica e Dani Ferrazzi alla chitarra elettrica formano, dal 2011, i Distinto, giovane duo italiano che dopo tantissimi cambi di formazione ha raggiunto la sua stabilità nel numero due. In Genere invece è il titolo del loro primo album ufficiale, autoprodotto, registrato in presa diretta senza sovraincisioni anche grazie al lavoro di Paolo Perego (Amor Fou) e stampato nei primi mesi del 2013. Come loro stessi scrivono In Genere non è un’idea perfetta ma un’ idea imperfetta ed in continua evoluzione come i nostri pensieri. Quindi un continuo divenire, un continuo evolversi lontani dall’idea della perfezione esecutiva e sonora, ma sempre vicini al loro modo di sentire e provare emozioni.

L’album si apre con “Benda Rossa”, primo brano acustico con qualche distorsione elettronica che sottolinea la purificazione attraverso il dolore. “Il Mondo Non Aspetta”, invece, mette al centro il passare inesorabile del tempo, come l’idea di una donna ferma davanti allo specchio mentre il tempo ingoia e poi rigetta. In “Ci Sarà” si scorge, invece, un piccolo cambio di rotta (ci sarà una bella luce) minimamente ottimista ma sempre incentrata sulla verità, dove la musica è piacevolmente scorrevole. “Email@me“ sembra che ritorni nel cantuccio autobiografico (chi se ne frega dei miei vestiti ammucchiati, quando un corpo non sta bene come sta) con un andamento da ballata lenta, nel quale il connubio voce e chitarra è totale; cosi come in “Mi Hai”, brano sospeso tra amore e verità  come se accarezzarti vorrebbe dire avvelenarmi e tutto ora dorme in un angolo come acqua fresca nel fango.

L’autobiografia continua anche in “Disfunzione Sentimentale” sesto brano in cui la forza butta in faccia tutte le parole e le visioni più scomode (inferno o paradiso sono interscambiabili, a volte mi vergono per gli altri) e in “Fiori Acidi” che, musicalmente, rimane fedele a tutta la linea dell’album, una linea Rock, forte nonostante il connubio voce e chitarre e costante nei testi fitti e pieni di storie e significati.  “Lacrime Rosse” è l’ottavo brano e anche video ufficiale dei Distinto che attraverso le immagini, lo sfondo nero, le luci soffuse e le ombre aiuta ancora di più a raccontare l’atmosfera Noir di questo mondo che sembra sospeso e lo rimane anche negli ultimi due brani “Rivelazioni” e “Ci Sono Cose Che” ben incastonati nel percorso di tutto l’album. Infine questa atmosfera potrebbe rappresentare sia la forza di questo lavoro che il suo punto debole nel non diversificarsi in ritmi, generi e visioni un po’ diverse magari più ottimiste, ma questo dipende da molti fattori, dalla veridicità e dalla profondità di ogni artista, in fondo questa è musica.

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Live Footage – Doyers

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Un album imponente. Questo è più di ogni altra cosa il secondo lavoro del duo di Brooklyn Topu Lyo (cello, sampler) e Mike Thies (drums, keyboards). A distanza di tre anni dal buonissimo esordio di Willow Be, tirano fuori un’opera costruita su ben diciassette tracce, rigorosamente strumentali, per la durata limite di quasi settanta minuti. Un disco che vi permetterà di godere pienamente del loro estro e vi giustificherà le parole di una certa critica che li pone tra i migliori compositori di colonne sonore surreali in circolazione. Corde ed elettronica, batteria e tastiere, realtà e sogno si mescolano alla perfezione per creare una suggestione sonica indimenticabile, resa ancor più umana dall’aspetto dell’improvvisazione esecutiva.

“L’assenza di limitazioni è nemica dell’arte”. Parte da quest’aforisma di Orson Welles il duo statunitense per mettersi a realizzare Doyers. Sono queste parole del genio della regia (ma non esclusivamente) che fanno da mantra al lavoro dei Live Footage, durante le registrazioni e la creazione delle diciassette (numero che in terra di Obama non genera gli stessi gesti scaramantici) gemme in questione.
Le limitazioni amiche dell’arte, in questo caso, possono essere tante e riferite a una miriade di diverse questioni tecniche, creative e non solo, ma quelle che saltano più all’orecchio, sono quelle dirette delle note, che sembrano spaziare e volteggiare nell’infinità del cosmo ma in realtà, alla fine dell’ascolto, vi renderete conto essere parte di una precisa galassia, uniforme e delimitata, pur se enorme. Tutto ha limite, anche se nella sua apparente illimitatezza e sta solo nel punto di vista dell’osservatore che tali limiti si rendono in parte visibili.

La musica dei Live Footage passa con disinvoltura da eteree e riverberate atmosfere lisergiche e Psych Rock (“Broklyn Bridge”, “Asian Crane”, “Lucien”) a un sognante Dream Pop più stile Beach House che Sigur Ròs utilizzando spesso le stesse forme del Post Rock mogwaiano, fatto di crescendo continui e muri di chitarre, o dello Slowcore Glitch (“Purgatory (The Storm Has Passed)”, “Broklyn Bridge”). L’ossessione ritmica dell’inizio di “Foresight” anticipa altri punti di vista, tendenti al Jazz e non mancano divagazioni addirittura nei territori della Dub Music (“Mortality”), della Drum’n Bass (“Going Somewhere”, “New Breed”), della musica sudamericana (“Caipirinha”), dell’elettronica di chiara matrice Kraftwerk (“Korean Tea Shoppe”, “Computer is Free”) o anche il Rock alternativo contaminato da ritmiche Funky, ovviamente sempre in combutta con un liquefatto e caldo Ambient (“Secret Cricket Meeting”) o il più fumoso e oscuro Trip Hop (“Ant Colony”). Eccezionali i passaggi più spiccatamente Film Score/Soundtrack (“Just Moving Parts”, “Airport Farewell”) nei quali si rende ancor più palese e chiaro il concetto di surreale applicato all’opera dei Live Footage.
Ovviamente, se ancora non avete ascoltato Doyers, vi starete chiedendo come possa io parlare di limiti ma poi tirare in ballo una quantità di generi musicali sconfinata. Come già vi ho detto, dovete ascoltare per capire. Ogni influenza sembra schizzare qua e là, apparentemente senza controllo ma in realtà, se provate ad allontanare per un secondo l’anima dalle note, noterete che la musica dei Live Footage, si ammorbidisce, quando deve suonare più forte e s’indurisce quando invece mira alla leggiadria. In questo modo, si crea una linea imprecisa che, come il volo d’un uccello, apparirà più armonica, con l’allontanarsi dello sguardo.

Per chiudere, non posso che rinnovarvi le mie promesse. Ascoltate e poi ditemi, basta leggere le mie parole, o impazzire dietro ad esse. Citando Welles, le promesse sono molto più divertenti delle spiegazioni. Quindi, buon divertimento.

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