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Sixtynine – Good Trade

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Due brani per questo promo degli sloveni Sixtynine, band a quanto pare abbastanza apprezzata in patria e pronta a conquistare anche il resto dell’Europa. Due brani, dicevamo: “Good Trade”, che dà anche il titolo al promo nella sua interezza, e “Don’t Give Up”, che l’accompagna, come un lato B d’altri tempi.

E d’altri tempi paiono essere anche i Sixtynine: la title track è un rock a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, impeccabile nella produzione quanto piatta nell’ispirazione. Riffoni Rock e batteria che pesta, sì, ma con suoni alla portata di tutti: siamo nella zona Guns’n’Roses o Velvet Revolver, ma con meno grazia e con una buona manciata di anni in ritardo. “Don’t Give up” suona, se possibile, ancora più ruffiana, e paradossalmente potrebbe pure essere un bene: pezzo romanticone, con un inizio dalle parti delle ballate alla “More Than Words” degli Extreme, e uno svolgimento alla “November Rain”, della serie: se dobbiamo farvi piangere, tanto vale farvi singhiozzare.

Insomma, Rock edulcorato e fuori tempo massimo, eseguito e prodotto, bisogna dirlo, con maestria e abilità non comuni. Chissà cosa salterebbe fuori se i Sixtynine si aggiornassero sugli ultimi vent’anni di Rock… un capolavoro, probabilmente. Non è ancora troppo tardi per sperare.

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Blinding Tears – Real Life Isomorphism

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Il cantante Niccolò Fontanelli, i chitarristi Giulio Poggi e Bruno ”JC” Malevoli, il bassista Alessio Cappellini, il batterista Filippo Ceres e Francesco Cacciante, keyboards e synth, formano i Blinding Tears, nati nel 2006 ma sostanzialmente nella formazione odierna dal 2008. Fin da subito il gruppo inizia a scrivere brani originali e fin da subito il genere appare molto chiaro: Metal. Ma quel Metal particolare che grazie alla sovrabbondanza di chitarre e tastiere si potrebbe inquadrare nei generi Power e Progressive, il che rende tutto molto più interessante, ritmico e ascoltabile. Il gruppo cita anche le sue influenze più forti: Dream Theater, Tool, Opeth, Rhapsody of Fire e ascoltandoli come non si potrebbe essere d’accordo?

Il primo lavoro ufficiale dei Blinding Tears è Real Life Isomorphism, uscito nel febbraio di quest’anno. L’album oltre che a presentarsi con una grafica moderna e computerizzata, si divide anche in quattro “atti”: Course of Freedom, contenente due brani dalle tipiche sonorità Metal e con quella bella puntina di Rock espresso dalle chitarre. S.O.S (Shape of Self), seconda parte più corposa e certamente quella più melodica data la presenta di brani lenti come “Flow Away” che potrebbe far ballare due innamorati. Descent, invece contiene due brani, “Haunted Asylium” di ben 8 minuti e 41 dove i sintetizzatori la fanno da padrone e sorvolo sul minuto 3 e 39 che mi ha fatto ricordare non so come le t.A.T.u. e “HH” già a mio parere più centrata. The Circular Maze invece è la quarta e ultima parte che scorre veloce per interi quattordici minuti. Piacevole “Beyond the Cold” con le sue chitarre acustiche che dopo il terzo minuto si trasformano in elettriche con un ritmo più incalzante, che via via si trasforma in brani sempre diversi. Insomma una vera e propria suite Metal.

Real Life Isomorphism, quindi, è un buon primo lavoro con molte idee centrate, belle chitarre, buona tecnica e amalgama musicale. Un lavoro che non si chiude nella sfera del classico Metal ma che viaggia e sperimenta sonorità anche più romantiche e questo per quanto mi riguarda salva tutto l’album. L’unica pecca forse è la voce, molto Metal e intonata per carità, ma che non contiene nelle sue corde un colore predefinito e particolare che la faccia riconoscere tra mille. Insomma per gli amanti del genere è un album da ascoltare e un gruppo da seguire, poi sta ad ognuno giudicare per consacrare o distruggere. L’unica mia curiosità finale sarebbe stata quella di ascoltare qualche brano in italiano e non perché io sia una sfegatata amante della nostra lingua, ma perché certe volte la lingua madre potrebbe risultare più impervia ma più soddisfacente.

Chiudo con la frase che apre questo album e che mi ha incuriosito: “Io ho avuto due padri, uno mi ha dato la vita, l’altro mi ha mostrato il suo significato…”.

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Rocco De Paola – Distinguere di Notte EP

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Rocco De Paola è un cantante-compositore della provincia di Salerno, la cui musica e il cui stile maturano negli anni grazie allo studio di tutti gli elementi musicali. Contemporaneamente ascolta i grandi da cui trae aspirazione: Stevie Wonder, Bob Dylan, Lucio Battisti, Paolo Conte e molti altri e come tutti inizia a suonare nei locali e in giro per la terra salernitana fino ad arrivare nel 2012 all’autoproduzione, assieme ad altri musicisti della provincia, del suo mini-album Distinguere di Notte.

L’Ep è formato da cinque brani in acustico, primo tra tutti l’unico in inglese “Don’t Remember”, dolce e di quel tipico sapore musicale che mi riconduce la memoria a James Taylor, per poi continuare col brano che da il titolo all’Ep “Distinguere di Notte” simile a un melodico Jazz caratterizzato dal bel suono del duo chitarra-tromba. Il lavoro continua con  “Il Mostro” che lo stesso Rocco De Paola definisce emblema di tutto e che in poche settimane ha ricevuto moltissime visualizzazioni e condivisioni. Si prosegue con il penultimo pezzo “Paura” che ripercorre nel testo quel tipico sentimento umano che si scorge durante la notte a causa del buio ma poi arriva la musica che fa star bene e con agilità mi metterò a ballare. Il mini album si chiude con “La buona Intenzione” nel complesso formata dagli stessi elementi degli altri brani: chitarra ritmica, melodia ondulante e testo in italiano. Un finale che non impreziosisce l’album e che non aggiunge niente ad un lavoro che comunque appare ben fatto e maturo soprattutto nella parte iniziale. Un primo Ep soddisfacente nella vocalità semplice ma comunque curata, nei testi che parlano di attualità, politica e amore, e nell’arrangiamento strumentale a tratti molto maturo soprattutto nelle ballate.

Oltre ai concerti in giro, il progetto principale di Rocco De Paola è la realizzazione del secondo album, questa volta elettrico…io lo aspetto, consigliando infine di sperimentare, certo, ma anche di centrare e sviluppare soprattutto i punti di forza, che sono parecchi.

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DotVibes – Shine a Light on me

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Sarò sincera: per chi non ama particolarmente la musica Regga e l’ascolto di un intero EP riguardante il genere può diventare una vera sfida. Tuttavia, lungi da me l’idea di chiudermi in inutili pregiudizi invece di spalancare le orecchie per ampliare i miei orizzonti musicali (e culturali). Le premesse che accompagnano il disco, tra l’altro, sono delle migliori: il singolo “Now Think About it”, uscito a Gennaio, è stato infatti trasmesso in alta rotazione su Mtv Music. Incuriosita premo play e mi addentro nel nuovo EP dei DotVibes, “Shine a Light on me”. “Ring my Alarm (Last Chance)” comincia a suonare a ritmo di Reggae senza però farsi mancare alcuni riferimenti elettronici: un modo originale per far suonare la sveglia del titolo.  In “I’m Here” gli effetti elettronici continuano a persistere, anche nelle distorsioni della voce, mentre l’intero brano si colora di una tonalità più Hip-Hop.

Con “Non mi Volto Mai” arriva il primo ed unico pezzo in italiano dell’EP (negli altri pezzi la lingua utilizzata è l’inglese) ed il primo brano del disco che vede l’utilizzo dei fiati.  Con “Now Think About me” e “Where Should I go” si ritorna all’inglese, le sonorità elettroniche rifanno capolino ed il ritmo diventa a tratti più sostenuto, un’altro dichiarato tentativo di avvicinarsi in alcuni momenti all’Hip-Hop. Nel primo pezzo, in particolare, di una potente bellezza sono i bassi che si fanno sentire senza nascondersi, insieme ai fiati che ritornano a fine canzone e ben si sposano con i suoni elettronici che accompagnano tutto il brano.

“Dub a Light on me” è un pezzo che si proietta su di uno scenario ancora diverso: quasi totalmente strumentale, diventa a tratti più inquieto perdendo il ritmo spensierato del Reggae che inevitabilmente  trascina verso uno stato d’animo di spensieratezza e relax. Per questo pezzo esiste inoltre una Dub version (non presente nell’EP) che porta la firma di Paolo Baldini. Alla fine del mio ascolto posso ritenermi soddisfatta e contenta di non aver ceduto a qualsiasi forma di pregiudizio. Lo stile dei DotVibes si colora di sfumature sonore, contaminazioni di stili e pluralità linguistiche che lo rendono pienamente originale. Se l’intento del gruppo è quello di rompere gli schemi, a mio parere, l’obiettivo può ritenersi raggiunto.

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Fermoimmagine – Foto Ricordo

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Devo ammettere che non sono mai stato un grande estimatore della New Wave. Ma la frase de “La Storia Infinita” nel libretto del cd del duo romagnolo Fermoimmagine mi ha fornito sicuramente uno stimolo ad affrontare questo ascolto con un naturale sorriso. E devo ammettere che i muscoli facciali difficilmente si rilassano al passaggio delle undici tracce e il sorriso vince la noia apparente che aleggia in alcuni momenti e perfida spunta ad assopire gli entusiasmi di un progetto sincero, coraggioso e indubbiamente appassionato. Si perché chi osa oggi proporre questo tipo di sonorità “anni 80” (catalogare una musica come “anni 80” suona quasi dispregiativo, vero?) non può che essere un appassionato. E chi unisce queste sonorità a parole centellinate e intelligenti non puo’ che essere coraggioso.

Foto Ricordo porta a contatto universi lontanissimi, linee che fino a ieri credevo parallele, binari destinati a non incontrarsi mai. Due su tutti? De Andrè e Depeche Mode. Insieme per mano in un onirico viaggio a mezz’aria, pilotati da un gelido vento che ci punge la faccia.  “C’è chi si batte per tornare a casa” è l’inizio freddissimo di “Quello Che Siamo” e il preludio di un vento che non ha alcuna intenzione di scaldarci le ossa, ma nonostante questo sotto sotto ci riesce, con spirito battagliero che brucia il sangue nelle vene. Nonostante i tetri paesaggi autunnali, la resa sembra non essere contemplata. Intanto le chitarre si mischiano ai synth e ad elaborate basi elettroniche, tutto suona a dir poco anacronistico ma non per questo fuori dal nostro tempo. Arrangiamenti acuti e scelte di suoni indubbiamente azzeccatissime, con quel filo di calore che non guasta le mie papille gustative, troppo sensibili al gelo dei sintetizzatori. Degna di nota la cantautorale “Fuori Dal Finestrino Dell’Auto”, dove il tema madre del disco entra prepotentemente: dannato tempo qui non ci dai nemmeno un istante per un timido ricordo.

“Le Nuvole” è l’episodio migliore del disco colorato dalla spensieratezza della seconda voce femminile di Naima, protagonista anche nella teatrale (Capovilla anche qui?) “Ozio”, frutto più fresco della produzione dei Fermoimmagine. Foto Ricordo perde solo un po’ di smalto verso la metà adagiandosi in scelte a mio avviso (da profano?) monotone. Ma la fine è col botto e “Due Fragilità” ci regala la migliore interpretazione melodica dell’album. Il sorriso che potrebbe parere fuori luogo in un contesto del genere, per fortuna ritorna dopo qualche cedimento. E il sorriso si rinvigorisce prepotente durante l’ascolto ogni volta che mi cade l’occhio sulla frase del maestro Michel Ende, che alla decima lettura mi sento in dovere di riportare pure qui. “Puoi continuare ad avere desideri fintanto che ti ricordi del tuo mondo. Quelli che vedi qui invece hanno fatto fuori tutti i loro ricordi. E chi non ha più un passato non ha neppure un avvenire”. Questo disco sarà freddo e triste ma come si fa a non intravedere nel gelido vento un’esplosione di speranza?

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Gnac – Luna Park EP

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Gli Gnac sono un gruppo padovano, più precisamente un quartetto con una biografia stringatissima, anzi potremmo dire inesistente. Degli Gnac sappiamo i loro nomi e talvolta nemmeno i cognomi: Matteo, voce e chitarra, Mejo, batteria e percussioni, Marco Cristofori, tastiere e Fabio Gasparini, basso. Sulla pagina facebook del gruppo ci viene detto che Gnac è una figura onomatopeica (suono, rumore simile al cigolio o a qualcosa che stride), ma facendo una ricerca su Wikipedia si può scoprire che Gnac è anche lo pseudonimo usato dal cantautore  Mark Tranmer e che deriva anche dal racconto di Italo Calvino “Luna e Gnac”, quindi comunque un rumore carico di significato. Inoltre sappiamo che il gruppo italiano definisce la sua musica “da spiaggia per una città senza spiaggia”, che a giugno uscirà il loro primo ep e che su soundcloud si possono ascoltare i primi brani di Luna Park.

Cinque brani che anche se registrati non perfettamente, in produzione casalinga, inquadrano perfettamente il sound del gruppo con chitarra ritmica che apre tutti i branie testi veloci come in “Aria” che ricorda alla lontana Jovanotti, con le sue ripetizioni insistenti di parole o frasi del testo. “È Adesso” è il secondo brano, molto cantautorale, con una struttura che si ripete sempre uguale: testo e poi momento musicale, quasi d’improvvisazione. La voce appare secca, cruda nel suo parlato molto veloce anche e soprattutto nel terzo brano “Se Tutto Fosse Semplice”. “Pazienza è la Vita” racchiude in sé tutti gli elementi già citati prima, ma che mi ha fatto venire in mente i Modena City Ramblers  e non sapendo le effettive influenze del gruppo rimane comunque un paragone aleatorio. “Uomini” è l’ultimo brano che chiude l’ep un po’ nella stessa maniera in cui si apre.

Quindi un lavoro tutto italiano nella sua tradizione ritmica, un album nel quale però si sente la mancanza di un brano acustico solo chitarra voce e null’altro per raccontare la visione e i racconti che si intravedono sullo sfondo, e un disco che chi lo sa potrebbe essere già cambiato, ma per dirlo e per esprimere un vero giudizio aspettiamo il lavoro definitivo.

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Bicchiere Mezzo Pieno – Il Contrario di LOL

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Inizio col dirvi che il voto che ho appioppato a questi stramboidi del Bicchiere Mezzo Pieno per il loro esordio Il contrario di LOL è un voto gonfiato. Nel senso: prendendo le sei canzoni di questo variopinto Ep autoprodotto una per una e valutandole singolarmente, probabilmente non arriverei a tanto; e, similmente, senza aver letto la loro presentazione al disco (disponibile sul loro Soundcloud), difficilmente sarei stato così bendisposto.

Intendiamoci, non sarei sceso di molto: Il contrario di LOL è divertente, scritto e suonato bene, colorato e simpatico, pieno zeppo di cose diverse. C’è il Rock, generico e ampiamente declinato in tutte le salse; c’è il Folk, da chitarra acustica e da lunghe code parlate, quasi teatrali; c’è un’infarinatura Punk nell’anarchia totale delle variazioni sul tema. Il Bicchiere Mezzo Pieno è un frullato di spunti, di idee, di visioni allucinate (o forse anche troppo lucide).

I punti in più il Bicchiere Mezzo Pieno se li piglia per tutto l’impianto architettonico che sottende a Il Contrario di LOL: l’idea dell’arrangiamento misurato al contenuto del pezzo, o le citazioni, infilate per analogia o contrappasso, così come i sotterranei riferimenti “meta” al senso dell’Arte, e quindi della Musica e della Canzone (“Non Chiedermi ti Prego”, “Cabaret”) – un tocco sensibile che, forse, dev’essere ancora sviluppato al massimo, per centrare il punto con più efficienza, più sicurezza, più chiarezza (verso l’ascoltatore – non diciamo, per l’amor di Dio, “medio”… però ecco, se magari non fosse assolutamente necessario leggere un papiro di spiegazioni varie per capire tutto questo, non sarebbe male… no?).

Ecco quindi confessati i miei peccati: un voto leggermente gonfiato, causa intelligenza suggerita, ammiccante, semi-nascosta. Attendiamo nuovi sviluppi per poter elargire voti più sinceri, ma con gli stessi applausi.

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Mr. Furto & Lady Paccottilla – Water Blues Ep

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Un mondo acqueo e distorto, dove il blu della profondità diventa Blues, disordinato e semplice. Parlo del (piccolo) universo di Mr. Furto & Lady Paccottilla, duo di Cremona (gentiluomo lui, fanciulla lei, basso lui, batteria lei). Water Blues, questo il titolo dell’EP, contiene 5 brani, di cui uno, la title track, sta sotto il minuto e mezzo ed è più che altro (o almeno credo) una scusa per dare il titolo al disco. Si dicono curiosi di capire quale etichetta può venir loro affibbiata: secondo me fanno (per l’appunto) del Rock-Blues con una punta di Lo-Fi (la batteria, dritta e lineare, in primis, ma anche la semplicità caciarona delle linee di basso, distorte e blueseggianti, e la voce, cupa, scura, gonfia – che esce molto bene in un pezzo energico come “Endless Riot”, suona creepy quanto basta in “Stonhead”, nel resto naviga). Insomma, sono tipo i  White Stripes (e glielo avranno detto tremila volte), ma non è solo per il duo uomo-donna con lei alla batteria, è il mix di Rock/Blues/semplicità dell’insieme che porta la mente ai coniugi White. Poi, ok, non ne hanno la follia né il virtuosismo – ma vabbè, stiamo parlando del maledetto Jack White, non ci sono paragoni che tengano.

Mi ha cambiato la giornata, questo Water blues? Non molto, devo ammetterlo. Ma qualcosa d’interessante c’è: saltando a piè pari la prima parte, il disco si eleva all’arrivo di “Endless Riot”, muscolare e ficcante, per poi volare alto con “Kazakh March”, brano che chiude l’EP, e che più si discosta dal modus operandi messo in atto nel resto del lavoro. Meno Blues, più ossessivo, più intrigante (a mio modesto parere).
Insomma, stoffa ce n’è, curiosità di vederli dal vivo pure, manca forse un po’ di delirio, uno scombinare le carte più radicale, più energico. Forza, e avanti con un full lenght. Fatemi sapere.

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Il Silenzio Degli Astronauti – Moments of Inertia

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Tra le influenze che i ragazzi de Il Silenzio Degli Astronauti citano sulla loro pagina Facebook si possono leggere God is an Astronaut, Godspeed You! Black Emperor, Mogwai, Pink Floyd. Il loro primo disco Moments of Intertia (5 brani per quasi 40 minuti di musica strumentale in gran parte onirica e cullante) pesca a piene mani dal repertorio Post-Rock internazionale, dall’opener “It Doesn’t Matter What we Fought” fino alla lunga, conclusiva, sospesa “Clouds Are Indifferent”. Una chitarra, un basso, una batteria, uniti a ricamare, con semplicità e pazienza, lenti crescendo, aperti soundscape suonati (niente – o quasi – elettronica e pochi, oculati effetti) con una naturalezza e una consapevolezza quasi artigiane.

Il Silenzio degli Astronauti, come da monicker, ci prende per mano per trascinarci verso l’orbita, dove la gravità ci abbandona lentamente, per lasciarci ondeggiare e vagare nello Spazio, scuro e luminoso insieme, così vuoto eppure così prepotentemente gonfio di significati, significati da cercare nel silenzio: un silenzio riempito solo dagli intrecci vibranti di una chitarra, un basso, una batteria.

Moments of Inertia non inventa niente, non rielabora granché, non scopre nulla: regala poco più di mezzora di volo nel buio assoluto e silente. Ma se (come me) apprezzate l’immaginario stellare, cosmico, spaziale di un Vuoto da riempire con gli abissi della mente, andate a farvi staccare il biglietto per il vostro personale razzo extraplanetario e seguite Il Silenzio degli Astronauti. Il disco è in ascolto gratuito su Soundcloud: fateci un salto e fateci sapere.

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Persian Pelican – How to Prevent a Cold

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How to Prevent a Cold è il secondo album di Andrea Pulcini (in arte Persian Pelican), ed esce a quattro anni di distanza dal disco d’esordio These Cats Wear Skirts to Expiate Original Sin. Le nuove canzoni nascono tra Roma e Barcellona e fermentano durante un anno di attività live proprio nella capitale catalana. Persian Pelican è un progetto di musica Folk manipolata geneticamente in cui cantautorato, Folk e quotidianità si mescolano per creare una magica atmosfera musicale in bilico tra il freddo della morte ed il calore dell’amore.

Apre il disco “Everyone With His Own Past” di cui è facile comprendere l’argomento, per poi proseguire con il singolo “There is no Forever For us”. Un brano dal video ironico che mostra il giovane artista in abiti da sposa intento a scavare una fossa tra gli alberi di un bosco, una lei total black con tanto di maschera anti gas, ed un morto (l’artista stesso) che alla fine viene seppellito. Beh un po’ come in “Back to Black” di Amy Winehouse non trovate? Il senso è il medesimo, e anche se qui non è il cuore a essere interrato ma l’intero corpo, la questione non cambia. A parte questo è difficile collocare Andrea Pulcini all’interno di un genere preciso, le parole più appropriate che mi vengono in mente ora per descrivere il suo stile sono: fanciullezza e profondità. Si, perché la sua voce è imponente, calda e importante mentre i suoni che lo circondano ricordano la spensieratezza della fanciullezza, di un carillon e di un’arpeggiante chitarra acustica. La quarta traccia “How to Prevent a Cold” oltre ad essere colei che intitola l’album è anche un’ottima, forse la più interessante traccia dell’intero disco. Un brano che ricorda l’immagine di un raccontastorie che t’incanta con le sue parole ed il suo sorriso smagliante mentre giace al centro di una distesa verde infinita, magari una prateria irlandese. Stupendo inoltre è il mix tra pacate dolci voci e chitarre acustiche, in contrasto con una batteria incalzante e travolgente. Tutto il disco continua verso questa linea, tenendo sempre la voce in primo piano e suoni dolci e spensierati come contorno. Molto bella è l’acustica, delicata e sensibile traccia “Dorothy”, che vede la partecipazione di archi malinconici e di cui è stato girato un fantastico videoclip, dove una pallida donna sempre in nero (come a simboleggiare la morte dell’amore) è intenta a ballare, giacere, guardarsi su di un tavolo al centro di un prato.

Un disco che osserva la dualità e l’ironia che l’amore rappresenta nel profondo di ognuno di noi, tra freddezze e fiamme ardenti, tra casualità e normalità. Un disco che si sofferma a  pensare e analizzare quelle sottili contraddizioni che spesso vengono ignorate.

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Il Terzo Istante – Forselandia

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Forse esiste ancora musica da conoscere. Forse gli orizzonti da esplorare non sono finiti. Forse la terra non è già tutta battuta e non c’è bisogno di riadattare il solito ed ormai arido paesaggio, sperando che i cambi di stagione conferiscano a lui una veste nuova. No, forse c’è ancora chi indossa una muta da esploratore in cerca di terre mai calpestate, con il rischio di rimanere impantanato in sabbie mobili. Forse è caparbio e impavido, o forse più semplicemente ha fortuna, in ogni caso quello che a noi interessa è che riesce ad ottenere un ottimo risultato con la magnifica naturalezza della musica pop.

Il secondo EP dei torinesi Il Terzo Istante ha dunque un titolo azzeccatissimo. “Forselandia” esprime al meglio la scoperta di un nuovo mondo, ma anche di nuove indecisioni, di vecchi vizi e nuovi desideri e (forse?) di una società che vuole cambiare, che trova in nuovi orizzonti nuove speranze ma (forse?) non ha nessuna intenzione e stimolo nel raggiungerle. Tutto ancora molto vago e per questo tremendamente affascinante. Certo che se l’analisi si ferma al suono, la band suona terribilmente nuova e moderna e non solo perché sfrutta tutte le nuove diavolerie del caso (leggete la loro intervista a Rockambula sul crowdfunding e capirete come sono all’avanguardia i ragazzi) ma perché, a partire dallo strampalato combo batteria-chitarra-tastiera, il loro sound è molto semplicemente fresco e spiazzante.

Le quattro tracce dell’EP spaziano tra la psichedelia (sempre ben dosata e tenuta al guinzaglio), il rock più viscerale e la melodia dei classici italiani, mai ripudiati o intrappolati nel muro di suono. La voce di Lorenzo De Masi (anche alle tastiere) graffia la schiena già nel ballo storto de “Il Primo Difetto”, pezzo molto intelligente e dedicato al vizio del fumo. Il ritmo non si smorza e si continua con la danza tetra di “C’è Chi Non Muore”, a graffiare qui ci si mettono anche le strisciate sulla chitarra taglientissima di Fabio Casalegno, a dire il vero spesso fin troppo tagliente nell’economia del suono. Anche la mancanza del basso a volte lascia un po’ la bocca impastata, marcando una leggera mancanza di amalgama e di pasta sonora. “Ogni cosa è di Tutti” è spietata e cinica ma non scade nelle solite banalità da giovane disilluso. Le ritmiche storpie di Carlo Bellavia aumentano il senso di angoscia e ci portano barcollanti ad una frase epica: “di una cosa sei certo, nel 70 il rock’n’roll era già morto”. Certo che ascoltando questo pezzo mi viene da pensare che non sia proprio così.

L’EP si chiude con la ballata “Forselandia”. L’equilibrio è più che mai precario e l’idea geniale dello xilofono a questo punto del disco sembra quasi naturale. Spunta l’ombra malefica degli abusatissimi Radiohead, ma Il Terzo Istante paga il suo scomodo tributo e supera il pesante paragone facendo vincere la propria entità in un finale ricco di delay, suoni lontani e un crescendo che ci lascia sospesi in questo nuovo mondo. Attendiamo ancora qualche altra cronaca da questi abili e astuti esploratori. Abbiamo trovato qualcosa di nuovo all’orizzonte. Forse.

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Shed of Noiz – Re: Son

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Ci son voluti poco più di quatto anni per la pubblicazione del primo album degli Shed of Noiz, band fondata da Mattia Salvadori, Dario Sardi, Giulio Panieri e Luca Bicchielli che esordì dal vivo al premio “Rossano Fisoni” nel dicembre 2008.
L’impatto con “Re: Son” è davvero all’insegna del Rock anni 2000 con la titletrack che mette subito in chiaro che la stoffa del gran disco c’è anche se con la successiva “Inno Qui” il gruppo riesce persino a superarsi nella bravura e nella precisione, con un sincronismo davvero perfetto.
“Immutevole” invece inizia con tutta l’irruenza che avrebbe un pezzo dei Rage Against The Machine (molte le similitudini con “Killing in The Name of”) e la lingua italiana non limita la violenza sonora anche se rimarrebbe da porsi la domanda “ma come suonerebbe in lingua anglofona?”.

“Corri Dora” invece riprende la dolcezza dei Marlene Kuntz, quelli di “La Canzone Che Scrivo Per te” tanto per capirsi, ma lascia anche spazio a rari momenti un po’ più impulsivi ed aggressivi.
“Psico Area” se il disco fosse in vinile sarebbe l’ideale inizio della facciata b, per il suo spezzare il tutto, perfetta nel suo ruolo da spartiacque sonoro con “Aurora” altra traccia dalla delicatezza unica e dal testo molto profondo (bellissimi i versi “dentro il vento io mi trascinerò nel silenzio se ti incontrerò”).
“Senza Peso” avvicina l’ascoltatore alla fine (peccato!) con sonorità che ricordano da vicino i PorcupineTree di Steven Wilson e Richard Barbieri e si conquista il ruolo di piccolo fiore nel giardino del moderno rock progressivo.

“Infetto” chiude all’insegna del miglior Stoner all’italiana ma anche dei Queens of The Stone Age e Tool, tanto per non perdere i riferimenti esteri.
Una prova di esordio insomma perfetta in ogni singolo dettaglio con un drumming sempre impeccabile e preciso a far da padrone con basso, chitarre e voce non relegati  al ruolo di semplici comprimari come spesso succede in questi casi ma a quello di protagonisti di un’amalgama che ha davvero dell’incredibile.
Peccato solo che le tracce siano appena otto, sarebbe stato perfetto magari includere anche gli ep  Shed of Noiz (2009) e Primates (2010) anche per non perdere il filo del discorso di una maturità acquisita negli anni grazie anche a tanti concerti a fianco di band quali Ministri.

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