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The Neigers – S/t EP

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Un salto indietro nel tempo, quando la musica era divertente, facile e rumorosa: grazie al loro omonimo EP, The Neigers trascinano indietro le lancette dell’orologio e riattaccano le pagine al calendario, per farci muovere la testa, i piedi, le mani a tempo, proprio come una volta (bei tempi quelli!).
Il trio mantovano registra in presa diretta, ed è una scelta ottima, che fa passare tutta l’immediatezza di questi cinque brani sospesi tra Rock’n’roll, Proto-Punk, Garage dei tempi che furono e un pizzico di Surf qua e là. Tra le influenze che citano sulla loro pagina Facebook ciò che risalta ai miei occhi sono i Kinks, che mi pare infestino questo disco in modo sottile ma ammiccante, più che altro nell’attitudine che si respira: ironica, leggera, luminosa, ghignante.

Intendiamoci, niente di nuovo sotto il sole, come spesso accade: ma almeno questa volta abbiamo la soddisfazione di cinque brani suonati bene, energici, sorridenti, da testare ad alto volume con la capote abbassata e una bionda con tanto di foulard agitato dal vento a fianco. “Stoned by Your Love” è una canzone da high school prom, ed è quella che più mi ha convinto (quelle più Rock’n’roll in senso stretto mi garbano di meno – “I Want it All”, ad esempio, è troppo deja vu, mentre “Mary”, che mi suona molto Arctic Monkeys, già va meglio). “Monday Morning” è forse la più old school, tra i Kingsmen di “Louie Louie” e qualcosa dei Rolling Stones dei tempi d’oro (e potrei infilarcene mille altri, ma tant’è…). “Burn Like A Bomb” è un degno finale, quasi da spot (scarpe o zaini o diari divertenti, non saprei).

The Neigers EP potrebbe piacere ad un sacco di persone: agli appassionati di California e viaggi on the road, ai quelli che si scatenano sui dancefloor appena odono del sano vecchio Rock’n’roll, ai fanatici della semplicità e dell’immediatezza senza tanti fronzoli, ai nostalgici dei tempi d’oro della musica, dove bastava un “pa papapau papapau papapau papapau pa” per svoltare la serata, tutto il ballo di fine anno e, forse, anche un bel pezzo di vita. Siete tra questi? Prestate orecchio alle chitarre infuocate e retrodatate de The Neigers and see for yourselves.

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Montauk – S/t

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Altro disco che riscuote interesse già dal packaging, in cartone grezzo, tenuto chiuso da un comunissimo elastico di gomma e che contiene una serie di immagini, disegni, illustrazioni. Questa è la faccia dei Montauk, che dicono di loro, in terza persona: “[Montauk] non è i Fugazi né gli Husker Du e nemmeno i Fine Before You Came, non siamo Il Teatro Degli Orrori, Montauk è un teatro di strada, acceso sotto le insegne al neon, in una città che sembra in festa e che invece vuole solo guardarsi allo specchio”, che è come dire tutto e niente.
Andiamo quindi oltre la faccia e le parole, dentro il groviglio sporco di questo disco omonimo dai suoni taglienti e impastati, dove abbondano distorsioni e voci arretrate, che parlano, gridano e osservano le cose con uno sguardo urgente, a volte rassegnato, spesso adolescenziale (“prova tu a pensare guardando il mondo come un ragazzo”, “Il Mondo”), quasi sempre appassionato (“la rabbia è una religione”, “Song No Tomorrow”).

Il disco fila, tutto sommato: i pezzi si lasciano ricordare e ri-ascoltare volentieri, tra ritornelli da Rock italiano (“Io”) e la modernissima morbidezza violenta o violenza morbida che va così di moda ultimamente (la parlata de “Il Bruco”,“Il Mondo”, ma in realtà tutto il disco). Alcune idee sono musicalmente godibili ma, forse, fanno poco per elevare i Montauk al di sopra della media nazionale dei gruppi Indie-Rock-Pop (tipo Fast Animals & Slow Kids, per intenderci). La voce esce poco, quando esce non brilla di personalità, ma è un genere, questo, che accetta di buon grado la semplicità vocale, per cui potrebbe accadere che una voce simile, alla fine, sia la voce perfetta per i Montauk.
Insomma, un esordio sicuramente senza infamia, ma anche senza troppa lode. La speranza è che i ragazzi proseguano a testa alta il loro personale percorso e che nelle prossime produzioni facciano uscire di più le loro voci (in tutti i sensi), cosicché non si debba più dire “i Montauk non sono questo, non sono quest’altro”, ma solo che i Montauk, alla fine, sono i Montauk. E basta.

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North – Differences EP

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Inizia la primavera e a dispetto di una copertina fatta di cime innevate quello che ci voleva per caricarsi e prepararsi a uscire dal letargo di un inverno troppo lungo erano proprio canzoni come quelle contenute nell’Ep Differences dei marchigiani North. Pierfrancesco Carletti (voce, chitarre), Giuseppe Gaggiotti (chitarre), Andrea Monachesi (basso) e Gabriele Tomassetti (batteria) propongono sette pezzi, semplici, freschi ed estivi come una limonata a bordo piscina in pieno agosto. Passando tra richiami a Canadians e Weezer, attraverso tutto l’Indie delle tre decadi ormai trascorse, scelgono un suono pulitissimo ed elettrico, fatto di melodie orecchiabili, chitarre e ritmiche essenziali, classico cantato in inglese e uno stile immediato e senza troppi fronzoli o complicati artefici sonici. Nella loro elementarità sembra di intravedere la stessa ingenuità dei gruppi punk dell’esplosione flower italiana, quando la voglia di suonare e di farsi sentire era tanta e “fanculo se non siamo troppo fenomenali”. Proprio come loro i North fanno esattamente quello che sanno fare senza cimentarsi in esagerazioni inutili che potrebbero sfociare in ridicole manifestazioni di ingenua incapacità. La loro bravura sta proprio in questo. Da pochi elementi, senza strafare, tirano fuori pezzi sorprendenti e melodie sublimi, tanto che sarebbe inutile citare, distinguere o elevare sugli altri uno qualsiasi  dei sette pezzi che compongono la tracklist. Da “New Life” a “Free as You” passando per “A Song For Your Boyfriend” tutto si ripete senza sosta, tutto è uguale a se stesso e se la cosa non depone certo a favore dell’originalità, certamente non dispiacerà niente di questo Differences a chi và solo in cerca di belle canzoni Indie (chiamatele come vi pare), merce tanto banale quanto rara in questi tempi di magra.

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Miavagadilania – Fuochi EP

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Scoperti circa tre anni orsono, i milanesi Miavagadilania ritornano sulla lunga distanza con l’Ep Fuochi a reiterare quella formulazione nero torba che è la loro essenza musicale, un repertorio che rimane quasi intatto e che si rivolta dentro arrangiamenti post del post, una solennità che stringe con le sue spire lattiginose di shoegaze, fumigazioni sperimentali, tutta la patina noir dark che si possa racimolare, e che in cinque tracce diventano ossessioni cinematiche e malattia poetica nitida per tutta la durata della sua corsa d’ascolto.
Elena Capolongo e Claudio Papa – questo il nucleo dei Miavagadilania – sono al centro di un progetto psichedelico concettuale che miscela attitudini alla Born For Bliss con le “trasmissioni” sinottiche dei Bionic, pulsazioni a freddo e riverberi cosmici che si fanno largo in una forma canzone che ogni tanto riemerge dalle “disturbanze” e dagli anagramma sonori “Muoversi Muovere Muovermi” che immancabilmente accentuano i passaggi del registrato, un disco insomma che si fa approcciare dopo vari giri di prova ascolto, ma che poco dopo scioglie il muro gassoso che si trova tra l’ascolto nitido e “loro”.

È’ un design sonico che si prodiga a compattare suoni, effluvi e matrici distorte per poi coinvolgerle e convergerle in pads amniotici e senza peso specifico “Trascinami”, li raffina in velluti melodici “Fuochi” e li aspira nelle suggestioni cromatiche di stampo prog Canterburyane “Hvalur”, una materializzazione ombrosa che non faticherà molto per circuire il lato “sano” dell’ascoltatore ispirato; forti di un seguito conquistato sul campo, i Miavagadilania hanno uno spazio poetico inimmaginabile, un languore impregnato e stratificato che si eleva e romanticizza – a modo suo – un controaltare immaginario, come un viaggio moderno di Verne, su e giù verso i confini non confini di qualcosa che si muove ma non si avverte, poi se si ci si avventura nelle nebbie sciamaniche di “Il Sogno” il non ritorno è assicurato.
Amate in non eccessi e i viaggi amniotici in qualche dimensione in D? Benvenuti a bordo!

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Disorchestra – Umano Disumano

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I Disorchestra, trio formato dal cantante, chitarrista e autore Giulio Marino, dal bassista Emanuele Ciampichettie dal batterista Alessio Palizzi,che nel 2012 esce con l’album d’esordio intitolato Umano Disumano, due termini antitetici per spiegare l’umano, inteso come attenzione all’Essere, sostituito da una disumanizzazione spietata dell’individuo.

Un lavoro di tredici brani che si muovono nel Rock Cantautorale tipicamente italiano, a tratti alla Marlene Kuntz, pieno di elementiteatrali nell’uso della voce e soprattutto poetici nei testi molto fitti, come loro stessi dicono senza molte pretese, che come nella maggior parte delle volte nella sfera cantautorale esprimono il mondo interno dell’artista, con i suoi sentimenti, pensieri, passioni e preoccupazioni, confrontandosi poi con la parte oggettiva del complicato mondo contemporaneo. L’andamento del disco appare però fin troppo omogeneo, nella parte vocale sempre uguale a se stessa nel modo di cantare parlando, nel ritmo e nella parte strumentale che potrebbe esplodere in sonorità più Rock ma invece non lo fa se non ne “La Camera Elettrica” che sottolinea soprattutto nella batteria l’ansia di vivere e in “Non è Nessuno”rabbioso e dolce allo stesso tempo. Interessante è invece “La guerra dei Poveri” ultimo brano del disco che finalmente sperimenta nuovi orizzonti sonori con un country ironico sulle guerre quotidiane contro nemicisbagliati per la gioia di un potere che si ricicla e ingrassa… e brani come questo spiegano perché la musica e il cinema riescano a raccontare la realtà e la vita in modo più facile e sincero rispetto alla politica fasulla. Peccato che poi poeti musicali come Franco Battiato si siano lasciati trasportare dall’infamia e dalla lode di un mondo forse troppo lontano dall’arte musicale, facendola vergognare di espressioni sempre più volgari.

Umano e Disumano, quindi, è un lavoro “adulto” forse un po’ troppo e un po’ troppo carico del peso della vita, con i suoi riferimenti all’amore finito, alla mafia, alla tossicodipendenza, alla perenne agitazione dell’individuo nonché del popolo. Tutto questo certamente è utile per spingere la gente a pensare e a riflettere invece di farsi trasportare dalle mode, ma dal punto di vista della melodia che viene definita asciutta, sembrerebbe un lavoro che con molta difficoltà lascia trasparire qualche brivido musicale. Tutto sommato un buon esordio, ma per finire un consiglio: uscire dagli schemi e colorare il Cantautorato con altre sfumature musicali forse sarebbe una strada da imboccare, tanto male che vada si può sempre cliccare il tasto cancella.

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Acid Tales – Here Comes The Storm BOPS

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Gli Acid Tales sono un gruppo di origine molisana che vede nella sua formazione il contributo di Vincenzo Cervelli, scrittore romano. La band si forma nel 2011 e mette il Rockpiù tradizionale al centro della sua musica cercando di creare un clima da cantautorato made in USA fatto di quel mix più vario di Blues, Folk e Countryche caratterizzavano gli Stati Uniti negli anni settanta.

Here Comes The Storm è l’extended play, primo lavoro degli Acid Tales. Quattro brani di buon Rock vecchia maniera. Apre il disco “Lose… Win” chitarra ritmata e voce dura per questo pezzo di vita vissuta; si prosegue con “A New Day”, rullata e arpeggio aprono il brano che avanza in un crescendo evocativo come se cercasse di buttarsi qualcosa dietro. Sembrano la versione Rock dei Social Distortion. “Here Comes The Story” brano omonimo che da il nome all’EP è anche il brano che più lo caratterizza, una storia raccontata con assoli alla Dire Straits. Chiude questo lavoro “Lookin Truth”brano che, a mio modo di vedere,  sintetizza l’album meglio degli altri.

Nulla di nuovo sul fronte Acid Tales, un extended play ben curato che ricalca la più recente storia del cantautorato statunitense.

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Elf – Happy Seppia EP BOPS

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Cose strane succedono nel mondo di Elf, personaggio/band che ha deciso di creare un alone di mistero intorno alla propria identità. Ma Elf non esiste da solo, infatti dopo varie ricerche alla fine ho scoperto che altro non è che il progetto musicale partorito dalla mente di Samuele Palazzolo in collaborazione con Michele Colosio (drums and synth) Massimo Panella (bass) Sergio Alberti (synth, guitar, drums). Ecco dunque che questi individui hanno sfornato l’EP Happy Seppia, un lavoro che ti trasporta in un universo parallelo dove stati d’animo e suoni vengono mischiati per creare nell’ascoltatore un viaggio astrale completamente personale. Infatti se ascolti brani come “Computerspie” o “Loopstation Nation” (tra l’altro un titolo fighissimo!)provi delle sensazioni che non sai nemmeno definire a te stesso. Gli Elf osservano la vita e ci rimangono incastrati in quello che vedono, e così creano una musica in bilico tra psichedelia e sperimentazione: elettronici come i The Flaming Lips e alternativi quanto i Window Twins. L’EP è scaricabile gratuitamente, ed è un ottimo ascolto per chi ha voglia di un sottofondo musicale ricercato con cui lasciarsi guidare dall’immaginazione.

Nonostante questo sia un genere a me molto affine e trovi l’ultima traccia “Gentian” favolosa, devo riconoscere però che alla lunga questo lavoro risulta un po’ eccessivo e stancante. Paradossalmente monotono quanto sperimentale, ma andrei comunque a vedere un loro concerto ad occhi chiusi.

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Uross – L’Amore è un Precario

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Tra l’Italia e l’America c’è Uross, cantautore pugliese attivo dal 2000 con l’ep Musiche da Quattro Soldi, dopo il quale  seguono tanti altri demo e lavori non ufficiali fino ad arrivare al suo secondo album L’Amore è un Precario uscito nel febbraio del 2013, che conta dieci tracce e un omaggio a Rino Gaetano, “Il Cielo è Sempre Più Blu”, settimo brano sul quale è stato fatto a mio parere un buon lavoro di coverizzazione in uno stile molto diverso dall’originale.
Tutto il nostro mondo raccontato in questo album, fatto da bellissime chitarre, anche slide come nel primo brano, da armoniche, testi sinceri, musiche uniformi e atmosfere west accompagnate da ritmo e rime. Una miscela di Rock, Blues, Pop e Folk che per autodefinizione Uross chiama Bastardmusic, come la sua vocalità, quasi parlata e in alcuni punti urlata per esprimere il disagio e tutte quelle emozioni forti del potere cantautorale.Tutto questo anche grazie al lavoro di musicisti, come Maurizio Indolfi e Oscar Marino alla batteria, Andrea Brunetti alle tastiere, pianoforte e organo, Andrea Acquaviva e Carletto Petrosillo al basso.

Il mondo di Uross si muove attraverso quella precarietà che purtroppo è all’ordine del giorno, nella quale i cambiamenti avvengono solo grazie al duro lavoro, fatto “in giorni che passano presto in facce che si dimenticano in fretta”(“Chiedi Alla Polvere”). “Ego”, secondo brano dell’album, racconta più a fondo la visione dell’ipotetico cambiamento di ognuno, l’esistenza di ognuno di noi paragonata ad una strada, ad un viaggio visto come un’ottima esperienza oggettiva di cui la musica si fa portavoce (“Noir”) e l’equilibro critico con cui a volte la vita stranamente procede, invece, è il protagonista del quarto brano “Claustrofobikronico”, anche video ufficiale. Un richiamo a Rino Gaetano lo possiamo scorgere anche in “Cane Vagabondo” soprattutto nell’ultima frase “la sveglia lo sveglia per andare…A LAVORARE” dopo una notte passata a vagabondare per le vie di una città vuota o forse quasi spenta. Lo sconforto a mio parere si fa largo in “Sto Così Scomodo Che Resto”, sesto brano de L’Amore è un Precario, dove viene citata la corruzione, il silenzio interno con cui purtroppo procedere la vita e l’orgoglio inchiodato allo scoglio, e dove compare la seconda voce di Angela Esmeralda. All’ordine del giorno, oltre alla precarietà c’è anche e soprattutto il “Bu$ine$$” di se stessi, dei propri bisogni e sentimenti probabilmente mossi  da un “Flusso di Incoscienza”, dove per la prima volta appare la parola amore, l’amore che dopo pochissimo si scopre essere una bugia, una parola che non significa più nulla in questo mondo dove a vincere è solo la sopravvivenza (“una sola regola, DEVI respirare finché non respiri più”). “Al Mio Funerale” procede per molte rime in un’atmosfera tra blues e quel cantautorato tipicamente italiano e “Lontano”, brano che chiude il lavoro, conferma ogni pensiero e ogni sentimento della vita in generale, accompagnata questa volta dalla figura della mamma attraverso una bellissima visione romantica “Sentivo suonare nel vento carillon antichi di orologi scordati”.

Un album scambiato molte volte come un lavoro d’esordio e in fondo non sarebbe male paragonarlo ad una nuova rinascita. La rinascita sempre nuova di cantautori impegnati ed attenti all’io della propria terra e del proprio mondo.

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Electric Sarajevo – Madrigals

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L’album d’esordio degli Electric Sarajevo può essere visto come una struttura fondata su tre elementi portanti. Innanzitutto la parte plastica, fatta di synth e programmi computerizzati, gestita da Stefano Tucci. Poi ci sono le armonie classiche, date dalle chitarre di Massimiliano Perilli e Paolo Alvano e il basso di Andrea Borraccino, che plasmano di volta in volta eufonie Post Rock, Neo Folk e Dark. Infine ci sono le voci degli stessi Perilli e Alvano, che arrancano nella loro semplicità, regalando melodie semplici, immediate e soprattutto di una delicatezza molto dreamy e Pop. Questi tre elementi vanno a formare un sound molto particolare che batte a volte Synth Pop, altre Post Rock o Industrial, Pop, Rock e New Wave; in pratica sembra che suoni sempre come qualcosa che già era passato tra le orecchie in passato, tanto e cosi particolarmente che alla fine ti diventa difficile capire cosa hai effettivamente ascoltato. L’album Madrigals è la prima prova di questi quattro ragazzi che comunque non sono assolutamente inesperti (avendo già suonato con Muven, Barnum Freak Show e Kardia) e lo dimostreranno anche a voi, se avrete il buon senso di starli a sentire. Electric Sarajevo è il loro nome. Sarajevo, città distrutta dalla guerra, violentata dal male, dall’indifferenza. Una Sarajevo elettrica come metafora delle nostre vite bombardate da guerra e morte e in cui l’unico rifugio è l’amore.

Madrigals è un lavoro che trasuda un amore romantico e decadente, nostalgico e malinconico e la stessa musica contenuta dall’artwork tristemente penetrante, mette in mostra tutti i dualismi dell’umor nero del Dark Rock e del Post Rock con le ariose parti vocali e i passaggi e gli arrangiamenti elettronici vellutati e dinamici.
Non so quanto la presenza dei fratelli Soellner (Klimt 1918), voce in “Watercolours” Marco e timpano e tom in “The Sky Apart” Paolo, e Valerio Fisik (Inferno), urla e controcanti su “If You Only Knew”, possa essere stata radicale nella creazione di questo clima decadente né quanto al contrario sia il risultato che si stava profilando ad aver suggerito i suddetti ospiti illustri. Fatto sta che Madrigals riesce alla perfezione a ricreare le stesse atmosfere nostalgiche già assaporate in (con le dovute distanze tra le opere) Dopoguerra.

Come abbiamo detto, musicalmente siamo davanti ad un amalgama assolutamente particolare. La matrice è certamente un tipo di Post Rock elettronico depurato da ogni possibile esplosione sonora ma che si tiene saldamente attaccato al terreno attraverso la vocalità dal fascino ambiguo. “Lost Impero” è l’esempio evidente di cosa significhi questa commistione. La melodia vocale appare precisa e chiara e molto orecchiabile non solo nel ritornello, mentre schegge elettroniche di stampo industriale schizzano sommergendo echi di parole in italiano che fanno da sfondo al testo invece in inglese.
Derive Industrial e quasi Neo Folk che si manifestano anche nella marzialità delle ritmiche di “Watercolours”. Non mancano momenti elettronici che miscelano lo stile Röyksopp alla New Wave (“A Revelation”) e altri in cui la voce e i suoi ricami leggiadri diventano protagonisti assoluti (“City Dream”, “The Worst Lover”). Ma anche tanto Synth Pop che dipinge la vita sopra un telo di elettronica ridotta in frantumi come un cumulo di macerie (“If You Only Knew). Il punto più alto dell’album è il brano “Teresa Groisman” nel quale si fanno vivi in maniera più chiara elementi Dark e sfuriate Post Rock, mantenendo sempre intatta quella voglia e capacità di affascinare ed evocare suggestioni languide. Ovviamente non tutto è riuscito alla perfezione. “The Sky Apart” o “The Madrigal”non convincono pienamente, venendo a mancare tutto l’incanto creato sia dalla corposità del sound, sia dalla sua difficoltà d’inquadramento. Proprio la title track si mostra come un brano di Post Rock elettronico senza alcuna variante rispetto alle proposte dei nomi più noti del genere (Mogwai, God Is An Astronaut, Explosions In The Sky o chi volete voi) con l’aggravante di mantenersi su ritmi piuttosto blandi.

Come ho già fatto notare non è facile descrivere quanto ascoltato e nello stesso tempo non potrei certo dirvi che quello che udirete è un sound assolutamente innovativo. La problematicità di catalogazione è la stessa sua forza tanto quanto la sua energia sta proprio nell’essere un cocktail di Post-Rock, Electronic, addirittura Trip Hop, se vogliamo azzardare, Experimental Rock, Synth Pop, Indietronic, New Wave, Post-Punk, Dark e Gothic Rock. Combinazione che però non ha mai il sapore di un beverone indecifrabile e indigesto. Se l’obiettivo era di raccontare la natura eclettica e poliedrica dell’amore, con Madrigals, gli Electric Sarajevo hanno trovato uno dei modi migliori, una delle strade più affascinanti per uscire dalle macerie di una città che piange calce e cemento.

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Monday – Smooth Phase Ep BOPS

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Questo ep mi è arrivato proprio di lunedì. Sarà stata una coincidenza? Strano. Comunque dopo svariato tempo ho capito che c’è chi adora il lunedì e chi invece lo odia fortemente, da Snoopy a tutti quelli che vedono davanti a se una lunga settimana interminabile, sognando il week end magari dal mercoledì. E su tutto questo pensiero quattro ragazzi di Rimini fondano il loro gruppo: i Monday, all’attivo nel 2013 con il loro ep SmoothPhase. Un lavoro di sei brani, in inglese, dove la voce di Stefano Spada, la chitarra di Marco Pandolfini, il basso di Andrea Muccioli e la batteria di Davide Quadrelli si fondono con sintetizzatori e musica digitale per creare un ottimo Dark-Rock, pieno di atmosfere e visioni moderne e un po’ malinconiche. Tutto questo abbracciato da un ritmo presente, molto anni 80, che porta l’ascoltatore sulla pista di una discoteca darkettona, piena di capelloni e ragazze dalle creste viola. Un cliché? E’ molto probabile. Uno stereotipo che mi serve, però, da complimento al gruppo riminese, per il sound e la scelta di non imprigionarsi in un genere sostanzialmente Dark, che poteva allontanare molti ascoltatori, aprendosi invece ad atmosfere più ritmiche e Rock, rendendolo gradevole anche a chi è abituato ad ascolti più classici. Infine, le tante ore di sala prove che delineano gli ultimi due anni dei Monday si sentono eccome, e proprio questa ricercatezza dovrebbe essere la base per tutti coloro che vogliono fare musica. La ricercatezza del proprio sound, delle proprie visioni e del proprio essere, che rende i Monday un gruppo da tenere sott’occhio.

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Barranco – Ruvidi, Vivi e Macellati

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Sanno come presentarsi i Barranco, band folk sui generis dalla bassa padovana. Artwork ricercata, ma soprattutto prodotta in 300 copie numerate in legno fatte a mano (!). Vi dico solo che me n’è arrivata una omaggio per la recensione ed è effettivamente fatta bene, intrigante quello che basta, e chissenefrega se risulta un po’ scomoda per trasportare il disco di qua e di là: se i Barranco volevano incuriosirmi, ce l’hanno fatta.

Ruvidi, Vivi e Macellati è un disco molto strano. Si parla di Folk, ma non la rivisitazione indie da Mumford & Sons a cui siamo abituati ultimamente: proprio Folk, atavico, ancestrale, fatto di chitarre, ukulele (?), concertine, mandolini, più Branduardi che Modena City Ramblers. Quasi medievale, direi: l’uso della voce, particolarissimo, così come le armonie vocali, e l’andamento generale delle canzoni, tutto porta indietro nel tempo, in un immaginario pittoresco e affrescato da liriche spesso cupe, quasi mai banali (che però non ho trovato da nessuna parte. Un peccato: avrei volentieri approfondito la questione).

Tornando ai Barranco: il disco procede dritto, senza troppi scossoni. La maggior parte delle canzoni sono ballate sospese, tra ritmi mordenti di chitarra, percussioni pungenti e un impianto vocale da cantastorie d’altri tempi, con qualche episodio che si discosta un po’ dal sentiero (“Astenia”, “Milite”). Un po’ più di varietà non avrebbe guastato, però come full lenght di debutto non mi sentirei di chiedergli altro. Piuttosto, la produzione: si sarebbe potuto fare meglio. Ruvidi, Vivi e Macellati gira, non si può dire altrimenti, però a volte suona troppo frizzante, troppo alto, e poco definito. Niente di male: bisogna sempre lasciarsi qualcosa alle spalle, come scusa per tornare. E noi aspettiamo molto volentieri il futuro ritorno dei Barranco, guitti sanguinari.

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AnotheRule – AnotheRule

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Lo ammetto, sono un nostalgico. Subisco tutto il fascino del supporto fisico: rimuovere l’involucro, aprire il cofanetto, sfogliare il libretto leggendomi i nomi di chi ha collaborato, di chi ha suonato e prodotto e, infine, prendere tra le mani quell’ambita circonferenza sono parte di un rito a cui difficilmente riesco a dire di no. E quando questo capita per un lavoro che mi è chiesto di recensire non posso che esserne felice.La band in questione sono gli AnotheRule, giunti al loro omonimo debutto discografico dopo un’esperienza di palco e di live che si sente e fa la differenza. Ufficialmente nati nel 2008, in realtà radicano la propria storia nel 2002 quando, con il nome di Mayday, fanno il botto nella Londra underground firmando per la Fire Records e condividendo il palco con mostri sacri del calibro dei QOTSA. Tornati a Roma alla fine degli anni zero ripartono all’attacco con questo rinnovato progetto.

Un sound caldo, maturo, denso, sospeso tra il grezzo e il sognante pervadono questo lavoro. I nostri oscillano tra il caldo rock di matrice Soundgarden e fugaci visioni di psichedelia, in un connubio che vive di un’anima unica e sorprendentemente definita, costellata qua e là da qualche divagazione di chiara origine stoner. Il tutto magistralmente diretto da una formazione che sa fare il proprio mestiere, che mostra un’ottima preparazione ed una capacità di rendere i brani dovuta sicuramente all’intenso lavoro live.Si inizia con un mid tempo sognante, giocato sui tom, su un giro ipnotico di chitarra ed una voce onirica ed evocativa: “Power Trip” ci catapulta direttamente all’interno dell’aspetto più psichedelico dei nostri, ripreso in brani come “Overboard”, “Thinking on” e “Wizen Up” e sapientemente diluito in altri momenti del disco. “Chew Your Pain” e “Who I Am (I Am Not)”, seconda e quarta traccia del disco, rientrano tra i brani più sfacciatamente hard rock. Riff d’impatto, groove sostenuto: la band romana convince anche su lidi più tradizionali.

AnotheRule” è un disco solido, interessante dall’inizio alla fine e ben suonato. I nostri passano a pieni voti questa prima proposta in studio, presentandosi già come una band matura, con un proprio sound e una propria direzione musicale. Ottimo anche il lavoro in fase di produzione. Sicuramente degna di nota è la capacità di aver impresso un marchio sonoro sul disco, rendendolo personale ed inequivocabile, aspetto che a molte release di questi tempi manca, rendendo molti lavori piatti ed anonimi. Tutto in questo lavoro parla la lingua degli AnotheRule e non ci si può sbagliare, non ci si può confondere con altri gruppi: la personalità concreta e importante dei trio romano si fanno sentire. E sicuramente non dovreste ignorarli.

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