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Balagan – Nonostantetutto

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Da Vicenza passando idealmente per gli States, i Balagan ci regalano questo disco, autoprodotto, di blues scuro, folk strascicato, con qualche incursione jazz e samba: un album notturno, da bar gonfio di fumo, col biliardo in un angolo e un barista scontroso oltre il bancone.
I Balagan sono chiari fin dal principio: figli di Tom Waits, basano la loro musica crepuscolare e ruvida sul binomio “voce di carta vetrata” + “atmosfere retrò”. E il connubio è vincente: tra cantautorato da strada e un tono colto, come da concerto a teatro. Strumenti folk, perlopiù, dove comandano i pianoforti e le chitarre, i primi leggeri e sognanti, le seconde ondivaghe e tremolanti.
È bellissimo farsi trasportare in questo mondo di buio con poche, incerte luci a segnare la strada. Davide Ghiotto ci culla sussurrando rauco nelle nostre orecchie, mentre il resto della banda lo accompagna, tra arrangiamenti sapienti e un gusto che si percepisce studiato e di classe.
Il fantasma di Tom Waits è sempre presente, così come il suo emulo italico Capossela (Gatti = Contrada Chiavicone?), insieme a qualche eco da cantautore nostalgico (leggi: Francesco De Gregori in Meste’), fino ad arrivare al recital di USS Constitution, brano che chiude il disco.Sono proprio gli “inciampi” (se così vogliamo chiamarli) a rendere questo disco un piccolo scrigno di perle (penso a Venere, così cantautorale, o a Samba blue, così… samba).
I testi, sebbene alla prima lettura possano sembrare nudi, scarni e poco ispirati, vengono totalmente stravolti dalla voce di Ghiotto, che riesce a far passare, attraverso versi che spesso sembrano filastrocche in rima baciata, una passione e un sentimento che non avremmo creduto potesse abitarli.
Un disco onesto, sincero, suonato e arrangiato bene, forse troppo appoggiato su questa voce così particolare, e che allo stesso tempo ci ricorda (molto? Troppo?) spesso qualcos’altro. Un disco da ascoltare in auto viaggiando nel buio, o seduti in poltrona bevendo da un bicchiere senza fondo, ad occhi chiusi.

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PornoVarsavia – [O]

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Di traverso o negli angoli meglio celati dell’underground patriottico, i novaresi PornoVarsavia  meritano un posto di eccellenza alla voce ”AmplificatIndomitIndie”, perché attraverso il complesso groviglio di ispirazioni elettriche di cui si dotano, tracimano esplosioni e dilatazioni psicotiche che nel loro – per il momento – piccolo around fanno avvertire gli spostamenti d’aria di chi è oggetto destinato a piccolo culto per iniziati.
Con Cristiano Santini (Disciplinatha) alla produzione, [O], questo il monogramma del disco, è un intenso pathos rabbuiato in dieci tracce che drizzano il pelo, catturano e movimentano una scena uditiva che va dall’indie venato di wave “Bla bla NYC”, “Luz Mala”  al rock con inflessioni grunge “Odilia”, “Fango e polvere” senza schifarsi per nulla di colorare qua e la citazioni psichedeliche “Il fronte è lontano” ma giusto un accenno per restare sopra ogni sospetto; il quintetto si carica liricamente di un social-poetry che penetra molto nell’ascolto, un’espressione che apre veemenza e criticità, lasciandosi accostare nella sua imprevedibilità, nella sua stesura elettrica con volontà e attenzione.
Non mancano percorsi da sviluppare ulteriormente, da “raddrizzare” dalle loro pendenze anonime e fuori riga come l’indigenza strutturale che caratterizza la pretenziosità Ferrettiana di “Sei gradi di libertà” o il barocchismo prog epico che annienta “Il giorno che fugge”, ma sono solo piccoli nei che nella trama generale del disco passano via senza demonizzare, poi al passaggio della spiritualità Disciplinathesca che rimbomba in “Carogiulio” il valore di questi pezzi è messo al sicuro ed il senso “tirato” del pathos generale altrettanto. I PornoVarsavia devono ancora mettere a nudo quel 5% che gli rimane per mostrarsi in tutta la loro opalescenza grigia, per tutto il resto già una formazione spigolosa e cerebrale pronta per arrancare qualche gradino più in su dei gironi calienti dell’underground.

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Lorian – Demo BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Vito Solfrizzo, voce e basso, Cristian Fanizzi, chitarra, Alessandro Spenga, batteria, e Domenico Lippolis, piano, hammond e synth, formano i Lorian, giovane gruppo barese, che dall’inizio del 2012 propongono, assieme ai loro brani originali, anche i grandi successi del passato (Pink Floyd, The Police, U2, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Santana). Una demo, la loro, formata da tre brani: U.R.A. (Utopia Realmente Astratta), L’Ombra del Sole e Gladio, dove il rock, di stampo assolutamente classico, è il genere predominante, con tinte di progressive e qualche puntino di funk. Buoni i soli di chitarra, gli arrangiamenti e l’uso dei cori. La parte vocale, invece, rimane sempre un po’ standardizzata e uguale a se stessa, quando potrebbe andare oltre le proprie capacità, sperimentare nuovi colori e modi di esprimersi. La strada è ancora lunga, ma i migliori amici per i giovani musicisti sono il tempo, la sperimentazione, totale, perché no anche sfrenata e lo studio, il resto è solo fortuna.

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In-Hour’s Mind – S/t

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Vi darei ragione se diceste che non c’è niente di terribilmente innovativo in questo scarno e spartano prodotto dei milanesi In-Hour’s Mind, ma se un disco lo si dovesse giudicare esclusivamente dal numero di volte in cui lo si tiene incollato all’orecchio, dovrei essere molto, molto più generoso.
Un’elettronica lineare, naif, ma forse proprio per questo più psichedelica, più allucinata. Synth, campioni, batterie, una voce distante e mascherata, ritmiche ossessive, lead impeccabili nella loro semplicità, ritornelli da saltare, sudati ed esaltati, sotto un palco. È un electro-rock per niente fighetto, è grezzo, ignorante, rasoterra – ed è questo, per me, il segreto della sua piacevolezza immediata.
I quattro pezzi di questo non-ep (tre originali dai titoli rubati a personaggi del mondo di Super Mario – non credo casualmente – e una cover dei Soulwax, Krack) scorrono infatti tutti abbastanza facilmente, ma devo ammettere che la vera sorpresa del disco è stata l’apripista, Yoshi, che continuo, non so perché, a canticchiare insistentemente, da giorni. Non so se la colpa sia da imputare alla voce anthemica, o a questa ambientazione da videogame anni ’90 (espressa alla perfezione da un video parecchio lo-fi, ma che centra esattamente il punto).
In generale, nonostante l’orecchiabilità delle tracce più riuscite (la già citata Yoshi e la conclusiva Daisy), l’operazione mi sembra, in qualche modo, incompleta… però si porta dentro dei semi molto interessanti: se gli In-Hour’s Mind sapranno sfruttarli a fondo, e con più metodo, mi prenoto già da ora una copia del loro prossimo disco.

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Thomas Guiducci & The B-Folk Guys – The Heart and The Black Spider BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Spartano, sincero, diretto: esattamente ciò che un disco blues/folk dovrebbe essere. Un dono di Thomas Guiducci (qui con The B-Folk Guys) che inanella 9 brani asciutti e classici, un viaggio guidato nel mondo interiore di questo musicista che ama il blues e che ci gira l’Italia da anni. The heart and the black spider, simboli della passione e del dolore (argomenti che ogni musicista blues che si rispetti dovrebbe portarsi dentro, in parti uguali), è un piccolo dizionario di questa terra sospesa tra southern e irish, tra chitarre resofoniche e armoniche a bocca, tra kazoo e mandolini, tra ukulele, trombe e lapsteel guitar, fino a “spazzolone e manico di scopa”. Un disco che non è gonfio di virtuosismi, e con testi che definire semplici è eufemismo, ma che, forse proprio per questo, ci porta in quell’ambiente in cui il blues parla immediatamente al cuore: la produzione, molto secca, ci fa ascoltare Guiducci e i suoi come se fossero in una stanzetta con noi, a suonare le loro avventure dell’animo mentre noi centelliniamo il whisky, o ci fumiamo una sigaretta giocando a carte. Se questa magia vi solletica il cuore, prestategli un orecchio: non ve ne pentirete.

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Pino Cerrigone-Eventi disgiunti Ep BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Eventi Disgiunti è il primo lavoro ufficiale del cantautore calabrese Pino Cerrigone, accostatosi alla musica da piccolo per cercare la propria espressione. Un Ep di quattro brani, che, come si evince dallo stesso titolo, sono volutamente diversi tra loro, per stile e linguaggio.Buon impasto musicale, tra blues, country e cantautorato italiano (alla Alex Britti) al quale si rimane giustamente ancorati per tutto il lavoro. Buona anche la registrazione, l’orecchiabilità e l’impasto vocale, non unico nel colore ma sempre comprensibile. Testi semplici ed evocativi, attraverso le stagioni e la fisarmonica, di amori veloci o ormai passati (Ragtime & Cubalibre, La fine dell’anno), della routine che spesso soffoca le passioni (Estratto) e della nostra civiltà oppressa dal progresso (Il mostro di Loneliness). Una musica che certamente porta con se il sapore delle esperienze, del tempo passato a suonare e la terra del cantautore, per creare, passo dopo passo, il futuro album.

http://www.youtube.com/watch?v=l4CipcFa5Bs

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Fletcher – Fletcher Ep BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Non è proprio il disco per voi, se quello che cercate è la novità a tutti i costi, anche a discapito della qualità, dell’orecchiabilità, dell’arte, della potenza sonica. Non c’è assolutamente niente che non abbiate mai ascoltato dentro questi tre pezzi proposti dal duo Fletcher. Già nel primo brano “Mr. Thorburn” i tre grandi punti di riferimento, Blues Rock, Stoner e Grunge sono esposti in maniera netta e decisa, senza in realtà mescolare troppo le carte e quindi rischiare di allontanarsi dal punto di partenza. Nonostante questo, il brano è assolutamente spettacolare, nella sua commistione di potenza e semplicità.  L’esecuzione è puntuale, la ritmica proposta da Daniele Milesi (batteria) martellante senza essere pesante e la voce di Andrea Manzoni (voce e chitarra) presenta un timbro assolutamente da tenere d’occhio. Per capire il genere, immaginate di mescolare i membri di una band Rock degli anni settanta, con Black Keys, Nirvana e Kyuss. Spettacolo. “Susy”, brano numero due, allenta il ritmo e, purtroppo, mette in mostra tutti i limiti estetici dell’autoproduzione. Tutta la forza è riversata nella seconda parte del brano, che riprende la linea dell’opening track. L’ultimo pezzo, “Egocentric”, presenta ancor più chiari riferimenti con gli anni settanta a stelle e strisce, pur senza variare di molto la proposta che continua su alternanza di pianure vocali e immensi muri di chitarra. Questo Ep dei Fletcher si ascolta volentieri, pulsa energia a ogni nota ma è quanto di più anacronistico potreste aspettarvi.  P.s. L’artwork di Matteo Foresti è davvero troppo improbabile.

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Matteo Cincopan – Fantascienza

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Un lavoro del genere ti capita raramente tra le mani. E, tenendo presente il caso fortuito per cui ne sono venuto a conoscenza, devo ritenermi davvero fortunato.
Sto parlando dell’ultimo lavoro di Matteo Cincopan, “Fantascienza”, secondo capitolo di una trilogia che il polistrumentista di Bologna ha elaborato come punto d’incontro tra sonorità del passato (qua declinate seguendo la scia del progressive anni settanta) e liriche del futuro (rappresentate dalla narrativa fantascientifica): il risultato è un disco davvero godibile, un crocevia tra Le Orme, Il Balletto di Bronzo, i Pink Floyd e i Magma.
Fantascienza” ricalca musicalmente quelle sonorità che tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta avevano interessato la scena italiana, portando alla ribalta un rock sinfonico, elaborato, colto e raffinato, tanto da essere motivo di vanto nelle parallele scene inglesi e americane: il nostro Matteo Cincopan prende il meglio di quel periodo e riesce ad elaborarne una personalissima visione, fatta di brani dalla media durata, incisivi e diretti, in cui il barocchismo (mai ostentato) degli arrangiamenti trova una naturale posizione come contorno e controparte della lirica.
Si apre diretti con “Giano”: la voce di Cincopan è quella di un moderno e cristallino Tagliapietra, il ritmo è serrato, sincopato, gli ingredienti sono tutti ben miscelati. Ma è solo un preludio: la superba “Andromeda” (forse il brano più riuscito dell’intero lotto) si apre con un lieve crescendo, subito contrastato da una parte sognante e ieratica; refrain dolce e intimo, una vera poesia di musica e parole. Siamo molto sulle coordinate dei Pink Floyd, come se per un miracolo l’atteggiamento space rock dei primi dischi si fosse fuso con la psichedelia ordinata dei grandi lavori successivi. E il testo, malinconico e struggente, ci racconta dell’immensità del cosmo e della nostra solitudine.
Segue “Dottor Morbius” un pezzo eclettico, con ritmo, quasi pop rock. “Le Crisalidi” è un altro di quei momenti immancabili. Pensate ad una collaborazione tra Il Guardiano del Faro e i Porcupine Tree delle ballate più struggenti, avrete in mano questa bellissima ballata.“Psicopolizia” è un brano di una semplicità disarmante, quasi infantile nelle liriche, a ricalcare la semplicità e la banalità degli slogan e delle imposizioni.
Chiude il disco “Eclissi”, metrica storta, cosmiche visioni e un ritornello dannatamente orecchiabile.
Questo “Fantascienza” è un lavoro prezioso. Le sonorità così vintage, così radicalmente del passato sono un risultato che spesso suona anacronistico e ridicolo: non è questo il caso. Qui dentro vive un’anima precisa e significativa, un mondo delineato e preciso, il tutto avvalorato da una prestazione ispirata agli strumenti e alla voce e da una musicalità in grado di creare passaggi che rimangono facilmente in testa.
Immancabile per tutti i nostalgici, per quelli che quel tempo non è finito, ma anche per quelli che cercano qualcosa di nuovo, di diverso e di significativo.

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Sinezamia – La Fuga BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Il rock’n’roll si butta in vena un siero freddo e nero in questo album dei mantovani Sinezamia, band già attiva da diversi anni e dal sound a dir poco “fuori moda”. Vicini ai primissimi Litfiba, alla new wave e non di certo ad orizzonti più ruffiani a cui molti gruppi del loro calibro puntano in questi periodi.
La scelta è decisa ed è pure premiata. Il freddo fa da padrone già dal primo galoppante basso di “Ghiaccio nero” e la gelata continua in tutti i sette brani dell’album tra richiami psichedelici e tecnicismi metallari. “Venezia” è un castello incantato che esalta la grande compattezza dell’organico, mai sopra le righe e sempre ben bilanciata nonostante i virtuosismi dei cinque ragazzi. “Occhio elettrico” suona distante con i colpi di doppia cassa che rimbombano nelle orecchie. In “Ombra” nasce il timore è che l’oscurità copra la furia, il sangue che pulsa nelle vene rischia così di essere pericolosamente rallentato. I dubbi vengono spazzati via  dalla title track “La fuga” dove la voce di Marco Grazzi quasi acciuffa l’estro di Pelù e la chitarra di Federico Bonazzoli taglia in due la nebbia e i miei dubbi con un assolo d’altri tempi.
L’ultima parte è affidata a “Frammenti”, schiacciata da una tastiera troppo squillante e artificiale, ma l’amalgama della band comunque si eleva sopra le (discutibili a mio avviso) scelte di suoni e incolla i vari pezzi sparsi per la via, restituendoci una oscura, ma furiosa dose di rock’n’roll.

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The Autumn Leaves Fall In – The Different Visions of Things

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Il 2013 si tinge post-rock, con l’uscita, il 17 gennaio scorso,di The Different Visions of Things, primo album dei toscani The Autumn Leaves Fall In, il trio formato da Lorenzo Terreni (chitarra), Fabio Melani (basso) e Alessandro Lucarini (batteria), formatosi nel 2010.
Sei tracce per scoprire la diversa visione delle cose. Come i cieli ghiacciati di un futuro lontano, in cui il noi si trasforma in un’unica entità, attaccata da ombre teatranti, tra le nuvole sopra i grattacieli o nel più profondo nascondiglio, fino a tronare bambini. Sei mondi. Sei sensazioni così diverse che potrebbero sembrare reminiscenze ci centinaia di persone.Che regalano emozioni dalla purezza al caos, dalla pace all’inquietudine, come loro stessi scrivono. Diversi modi di interpretare e di sentire, dunque, niente testi, niente parole inutili. Solo musica, finalmente!
E tutto inizia con Blue Ice Sky, il primo brano che lentamente presenta gli strumenti e rimane in quell’atmosfera sospesa di sperimentazione fino al terzo minuto, dopo il quale tutto diventa più tangibile, più terreno, come una corsa, ma verso il nulla… Wewereone procede quasi alla stessa maniera, battute uguali, che si ripetono all’infinito, assieme  alla batteria che come una marcia porta il tempo. Un tempo che si perde, nei pensieri o nella malinconia di qualche ricordo, che magari affiora ad occhi chiusi, mentre la musica inizia a declinarsi. Ma le ombre di Chinese Shadows Theaternon emanano paura, ma quasi tristezza,che quando esaurisce il suo percorso, lascia un vuoto o forse troppo silenzio. Silenzio che si spezza con Like Clouds Over Skyscrapers, che potrebbe, ma non lo fa fino in fondo, ben accompagnare le immagini di splendidi viaggi, di posti nuovi, incantevoli, arabeggianti o moderni fino all’eccesso. E dal quinto brano, Deeperthroughit, si va verso la fine, ma, ecco, forse la pecca di questo lavoro: troppa batteria. Strumento splendido, suonato con bravura, ma che talvolta opprime tutto il resto, che comunque chiede attenzione. Kids chiude l’album, con i suoi sei minuti di musica soffice, accostata all’infinito con le sue mille ripetizioni. Un finire che ricorda un sorriso o un arrivederci al prossimo album.Blue IceSky, Wewereone e Kids sono a mio parere i brani più interessanti, ma che nascondono qualcosa di celato, di non detto, di trattenuto..
The Different Visions of Things è un buon primo lavoro, nel quale il rock prende piede, contaminato dall’ambient e dalle sperimentazioni, che però dovrebbe liberarsi da tutto e lasciar andare la musica a briglie sciolte. La musica suonata ad occhi chiusi, senza schemi, senza pensieri, per dar vita a qualcosa di più caratteristico. Per creare atmosfere magiche, come i Giardini di Mirò o i SigurRòs. Queste sono mie esternazioni personali, certo, ma se è vero che la musica è l’arte delle arti (anche se non sarei molto propensa nel sostenere questa affermazione) allora la musica può tutto: creare colori, far nascere mondi, raccontare delle storie.. Può e deve creare tutto questo, altrimenti rimane solo musica, solo note e nulla più. I The Autumn Leaves Fall In si definiscono una band che continua a evolvere il proprio sound pur rimanendo fedele alla matrice post-rock, e sono sicura che in questa evoluzione uscirà fuori tutta quella musica di cui parlavo prima.

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Tetrics – Tetrics

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I Tetrics si presentano con quest’album omonimo dove rockeggiano, blueseggiano, a tratti raggeaggiano, facendo il verso al rock italiano “classico”, anni ’80/’90, ma senza, ahimè, lasciare traccia alcuna nell’orecchio dell’ascoltatore.
Sono tre le grosse critiche che si possono fare a questo lavoro: al primo posto, la voce del frontman Marco Plebani, che non raggiunge nemmeno una lontana sufficienza. È una voce stanca, sforzata, senza un minimo di verve, che a tratti sfiora il ridicolo – lo dico senza alcun intento denigratorio, ma per consigliare un eventuale sviluppo tecnico, o magari un uso diverso, delle capacità vocali del cantante: ne gioverebbe tutto il progetto.
Il secondo problema sono i testi, che si fermano troppo spesso alla rima baciata e ad un immaginario ormai liso e consunto – alcool, amori velenosi e carnali, rock’n’roll – risultando a tratti ripetitivi, a tratti scontati.
Ultimo, piccolo neo: a parte qualche episodio effettivamente “fuori canone” (vedi la terza traccia, 9:07), il resto s’appoggia decisamente al già sentito, al già visto, al già esperito (cosa che accade troppo spesso, di questi tempi… sarà che si è già suonato – e detto – di tutto? Chissà).
In conclusione: lo sforzo dei quattro Tetrics è apprezzabile, ma il prodotto finale necessiterebbe di una buona sessione di make-up anche solo per rendere possibile un ascolto totalmente finalizzato al piacere onanistico di fruire di un rock italiano molto, molto classico. Se poi l’obiettivo è di rimanere nella testa, di comunicare qualcosa di duraturo all’ascoltatore, serve molto, molto di più.

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Jack Folla – Jack Folla Ep

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I Jack Folla si presentano al pubblico con questo ep, omonimo, di 4 tracce, dove mescolano con abilità rap e rock duro, chitarre distorte e ritmiche serrate, nella gloriosa tradizione del crossover di stampo nineties.
Notizia buona e notizia cattiva. La notizia buona è che il lavoro suona benissimo (merito anche dell’ottima produzione di Cristiano Sanzeri di 29100 Factory, che personalmente mi ha stregato già in passato con la produzione di Ulysses dei Kubark). Scorre continuo e tutto è suonato bene: chitarre immerse in oceani di delay à la Limp Bizkit, batterie che pompano (e come suonano…), voci che s’intrecciano – il rap di Teo Zerbi ha un buon flow, mentre Dave Magnani ha un timbro da rock italiano che può essere un’arma a doppio taglio, discostandosi da quello che ci si aspetterebbe da un prodotto del genere, ma che almeno ne crea una versione peninsulare sui generis. C’è bravura anche negli arrangiamenti, e le melodie ricordano certi Crazy Town, ma anche parecchi di quei gruppi clonedei capostipiti del genere (Papa Roach, primi Lostprophets…).
Già, la cattiva notizia. Il crossover, fatto così, è nato, cresciuto e morto, e dal funerale ad oggi sono passati una decina d’anni. Siamo nel 2013 e nonostante la bravura indiscussa dei Jack Folla, a sentire questo ep si ha un senso nauseante di déjà vu. Sì, qualcosa di diverso dalla pletora crossover ’90-’00 c’è (le liriche in italiano, timbriche diverse, un approccio che possiamo considerare più orecchiabile e di facile ascolto rispetto ad alfieri del genere come Rage Against The Machine o Korn), ma non basta per fare dei Jack Folla un capitolo a parte.
Nella musica non si crea nulla, è tutto un ripetersi di cliché, smontati e rimontati in un circolo infinito di vita-morte-resurrezione. Detto questo, ascoltate (e godete) dei Jack Folla se il crossover è la vostra ragione di vita e non volete perdervi nulla (ma nulla nulla) di ciò che ne può scaturire. Altrimenti, fate un tuffo negli States di fine anni novanta e scoprirete un mondo.

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