Arrivano dalla Sardegna passando da East London, mangiano cantautorato folk americano a colazione (Dylan, Guthrie, il più recente Johnston, Fahey…) e si chiamano Takoma. Erano in due, ora sono in tre, e sanno già di classico: in questo caso, non necessariamente un male.
Queste The Good Boy Sessions ci trasportano in un altrove fatto di chitarre afose, batterie western, voci e cori dai tempi d’oro del folk americano. Il gusto, morbido e diretto, per le melodie orecchiabili non monopolizza questo lavoro, che è capace di rimanere frizzante e di miscelarsi con un gusto più moderno e “indie” (un’operazione che ricorda da vicino cose tipo i Mumford & Sons, per intenderci), in un “revival” che rispetta la tradizione e allo stesso tempo percorre il sentiero del vintage con stile e sobrietà, senza voler strafare.
Sette brani, dal movimentato Movie 30 al rarefatto Frozen star, dal lento e funereo The Walk fino al “+ indie – folk” Easy way out, che passano confortevoli nelle orecchie: i Takoma hanno il dono della sintesi, “asciugano” gli arrangiamenti, compongono con un ottimo senso della misura, rendendo The Good Boy Sessions un’ottima scelta per chi vuole cullarsi con un po’ di musica retrò che però abbia anche quel guizzo neo-folk che ultimamente incanta tutte le platee indie del pianeta.
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Takoma – The Good Boy Sessions
Martino Adriani – Non Date Retta A Me
La rima è sicuramente un’arma antica ma ancora efficace per fare breccia nel nostro cuore, nonché nel nostro cervello. E la rima è indubbiamente l’arma preferita da Martino Adriani, cantautore salernitano che sa giostrare le parole con grande semplicità e estro, senza cascare nel facile e frequente “sole, cuore, amore”. Martino rimane comunque a ridosso di quel baratro, cammina intorno al bordo dello strapiombo rendendo così la sua canzone infantile, sempliciotta ma mai banale e impersonale con quel pizzico di trash di amatoriale che rende il prodotto fresco, reale e onesto. Appositamente trash e amatoriale sembra essere stato studiato l’artwork, che riflette proprio alla perfezione il contenuto.
I brani del suo mini-album non sono capolavori e credo che lo stesso ragazzo campano questo lo sappia benissimo, non hanno nessun picco di genialità, ma hanno la rara caratteristica di attirare l’attenzione proprio per quelle parole che devono suonare insieme, per quella musicalità data da quelle coppie di sillabe che tendono a dare una sensazione di unione con la musica che si sta ascoltando. E allora rimaniamo sempre in attesa della prossima rima, sperando ci strappi un sorriso come spesso capita. La demenzialità, il surrealismo e l’autoironia regnano sovrani: “Non ho più il fisico, se non per giocare a Risiko”, “Mi presento sono un inventore, ma solo di strofette e buonumore”. Ma forse la migliore (anche se incastrata a forza) rimane: “e anche se porto l’orologio di Flick e Flock mi faccio di poesie francesi, gin e tanto rock”, un’esplosione di autocelebrazione naif in “Diverso” accompagnata da un arrangiamento allegro e spensierato opera del fido collaboratore Daniele Brenca. Le musiche rimangono sempre a cavallo di un’onda calma e distesa, rilassano mente e corpo in ambientazione molto marittima: quattro amici, qualche birra e una spiaggia. In questo sottofondo pacioso Martino sprigiona il suo egocentrismo e fa la differenza: “verso nel bicchiere un poco di universo e lo bevo all’inverso”, “questa vita è una pazzia prendila con ironia, attitudine non mia, che sono figlio della nostalgia”.
Dei tratti di rude genialità vengono dipinti anche in “Le phisique de role”, Martino dice di essere pigro e completamente avverso all’attività fisica ma con la sua energia pare portarci ancora al parco giochi nelle sere di inverno, quando tutti gli altri papà stanchi e oppressi dagli straordinari al lavoro preferiscono accendere la console di turno e sbarazzarsi del proprio figlio. La grande fortuna di rimanere bambini.
Un po’ in sordina gli altri brani del disco. Convincono meno la title track, filastrocca mirata più all’autocelebrazione che altro e “Marika Discarica” (anche in versione remix, più minimal ed esotica), la melodia è statica e lascia la canzone insapore nonostante la tematica sociale affrontata con grande personalità e con l’occhio innocuo ma spietato di un bambino troppo cresciuto. Una nota a parte va a “Vai a Uomini e Donne”, forse qui Martino cade in una facile parodia sulla nostra società arrivista, troppo comoda e scontata come presa di posizione. In questo caso il nostro amico si è dimostrato pigro proprio come si descrive. Ma sappiamo che non è così e che può regalarci molto di più. Per il momento mi accontento di quattro rime in croce come queste. Per fortuna a regalarmi un sorriso basta davvero poco.
Stereofab – Demo
L’avvento e l’innovazione di internet potrebbe essere un arma a doppio taglio per le band emergenti.Infatti c’è la possibilità, attraverso la miriade di social network esistenti, di avere molta più visibilità rispetto agli anni passati, in più la facilità dei free download permette l’ascolto immediato ad ogni angolo del globo, senza l’interferenza del denaro. Ma quello che non è mai cambiato è il valore del Live. Il gradino più difficile da salire, quello per il quale si fanno mille sacrifici e si spendono mille ore di studio e di prove. Quell’esperienza che ti da tutto o niente. Quell’ora che fa esistere il gruppo,al cospetto del pubblico. Ma l’esistenza è determinata anche e soprattutto dall’ascolto (scopo principale di tutto il lavoro) di un album, di un ep o di una prima demo. Infatti questa infinita ricerca ci porta alla conoscenza di un giovane gruppo foggiano, gli Stereofab. Progetto nato nel 2011, che vede Roberto Consiglio alla chitarra e alla voce, Stelvio Longo al basso e Fabrizia Fassarialla batteria, nel 2012 sostituita da Davide Tappi.
Con una ventina di concerti all’attivo, in Puglia, nel 2012 esce la loro prima demo The Master Game. Quattro brani, per un totale di 11 minuti e 40 secondi.Tutto si apre con The box, che a mio parere, rimane il brano più interessante di tutto il lavoro, nel quale se vogliamo cercare quel quid in più, lo possiamo anche trovare. Testo essenziale, talvolta ripetuto (come la frase I can’trememberyourname), che senza rendersene conto rimane imprigionato nella testa, assieme alla sua melodia fortemente orecchiabile. Il che non è negativo, anzi, quello è l’elemento che sembrerebbe il più importante per essere ricordati, anche se il ricordo è difficilissimo da ottenere. Consiglio: i brani più orecchiabili sarebbe più sensato non metterli all’inizio di un album(o, in questo caso, di una demo),proprio per tenere alto l’interesse.
Demo che procede in maniera similare nei restanti tre brani I hopeyoulikeit, Berline Today in a way, costruiti nella stessa maniera: intro di qualche secondo, testo essenziale, piccolo solo di chitarra, cantato e fine. Il tutto condito di un genere pop-rock, che non esalta, assieme al cantato lineare, privo di un colore riconoscibile, da smussare in alcuni punti lasciati striduli e che non dice niente, nemmeno nei testi. Testi cantati tutti in inglese e su questo si potrebbe fare un trattato. Cantare in inglese magari rendere più figo, ok. Ma l’inglese potrebbe anche rendere più anonimo l’anonimato più esagerato, soprattutto se accostato a delle parole che decantano i sentimenti e la soggettività, che potrebbero significare tutto per il gruppo e niente per chi ascolta. Sarebbe come scrivere un libro ma senza una vera idea di fondo. Quindi il succo del discorso è di studiare a tavolino ogni piccolo particolare, di fare più esperienze possibili, di scrivere tutto, magari anche in italiano, e soprattuttodi rendere ai testi dei protagonisti, delle storie chiare e dei mondi da esplorare, interessanti, soggettivi sì, ma anche universali. Perché in fondo la musica è questo: sentimento, ma anche ricerca meticolosa.
Per quanto riguarda la struttura dei brani bisognerebbe aprire la mente ed allontanarsi dall’idea che protagonista deve essere sempre, e per forza, la chitarra. Ogni strumento ha vita a se, quindi perché non esplorarli, lasciandogli un po’ di spazio e non farli dialogare tra loro, creando armonizzazioni più interessanti e magari allungando anche le parti strumentali? Certo fare questo è più difficile, ci vorrebbe più tempo, ma sarebbe anche l’elemento più importante per un netto salto di qualità.La predisposizione c’è e anche l’orecchiabilità,sul resto: tempo al tempo e ci risentiamo!
Valter Monteleone – Hill Park
Oggi mi trovo a recensire un polistrumentista, Valter Monteleone, con un esperienza pluriennale come session musician. Ma che pluriennale, decennale è l’espressione giusta. Si decennale. La sua carriera da chitarrista, bassista e batterista ha inizio nellontano 1967 quando comincia la sua esperienza da turnista in varie formazioni pop italiane di spicco come: Nada Malanima, The Showmen, Nini Rosso, Ombretta Colli, Carmen Villani, Lucio Dalla, Sergio Bruni, Aurelio Fierro, Rita Pavone, Teddy Reno, Betty Curtis.Sicuramente anni di formazione e di pura esperienza visti i nomi e visti i tempi, d’oro appunto. Personalmente la musica leggera Italiana fa inacidire il mio stomaco e mi chiedo cosa mai possa venir fuori da questo disco. Ma soprattutto, perché l’ hanno inviato a Rockambula?!?! Non capisco cosa c’entriamo noi Rocker con la musica pop per l’aggiunta italiana. I dubbi mi assalgono e l’unico modo per toglierli dalle scatole è infilare il CD, Hill Park,nell’HiFi e pigiare su play.
OK allora parto. La prima track è Bossando, il richiamo al latin jazz è immediato. Subito, i primi accordi in levare lasciano alla fantasia lo spazio di una calda spiaggia sudamericana con l’aria calda che ti sfiora la pelle e il tempo inizia a dilatarsi intorno. E’ Jazz, altro che musica leggera italiana, altro che pop. Questo è jazz!!!
Nel 1994, il nostro Valter, inizia la sua avventura jazz che lo porterà a suonare la batteria in varie formazioni, da una Big Band, la Taras Jazz Forum Orchestracondotta dal maestro Domenico Rana all’Academy Jazz Trio.Non faccio elenchi ma la storia continua ed è piena di partecipazioni rilevanti. Inizia a uscire fuori lo spessore di quest’artista, di queste note. L’armonia di questa composizione. Il disco di una vita lo definirei a primo acchitto. Dentro c’è tutta la passione per la musica, lo studio, l’impegno. Roba seria insomma. La tracklist procede con Castle in cui una voce profonda (alla Paolo Conte) accompagna la musica che ci trasporta sempre più dentro questa esperienza. Si prosegue con Hill Park, traccia che titola l’album, che inizia con un temporale in sottofondo, tuoni e acqua a catinelle danno il la alla tastiera e alla chitarra. Molto New Age. Tutto accompagnato dalla sua calda voce. Scorre così quest’album, splendidi giri d’accordi che creano la perfetta atmosfera per qualcosa di intimo, di personale.
Tutto nei minimi dettagli. Note che scorrono lisce senza intoppi e ritmi studiati a pennello. Forse manca qualche virtuosismo di quelli da far drizzar la pelle. Forse si potrebbe anche dire che qualche “notaccia” in più sarebbe stata più viscerale. Ma alla fine che cos’è il jazz?! Nessuno può dirlo e solo l’ascolto può illuminarci.
London Overdrive – London Overdrive
Direttamente dalla capitale albionica, i London Overdrive ci donano questo disco da 8 tracce dove mescolano rock molto melodico con qualche ingrediente folk (l’armonica di Satellite, l’intro di Collision) ad un’idea di pop da stadio molto british (i Coldplay di qualche tempo fa, ma senza pianoforte): il tutto, ovviamente, in inglese.
Il lavoro è fatto bene, e ci sono almeno un paio di pezzi che richiamano un secondo, terzo, quarto ascolto. Ottimo il lavoro fatto sulle acustiche, soprattutto negli arrangiamenti: rende il disco vario, saltando dal rock sostenuto ma sempre molto orecchiabile di Gasoline fino alle carezze di Back home, passando da pezzi “double face” come Sweet poison part one, che parte con un introduzione fulminea e dolce di acustiche per poi giungere ad un tiro che definiremmo “pop punk” (di quello diluitissimo degli ultimi anni) se non fosse per la voce, altro punto forte (e non potrebbe essere altrimenti, per fare un genere di questo tipo).
Un timbro che mi ha ricordato più di una volta Eddie Vedder (e non è qualcosa che si dice con facilità), forse soprattutto perché accostato a questo mistone di rock/pop/folk molto morbido, molto “smooth”.
Per gli amanti del genere, un disco da ascoltare più volte (tanto più che non vi costa nulla: è scaricabile gratis dal loro Bandcamp) e un gruppo da testare dal vivo – più in acustico che in elettrico, mi verrebbe da dire. Niente di nuovo sotto il sole, ma un disco sincero e ben fatto: ce ne sono tanti, è vero, ma forse è meglio così.
Starlugs – The Rite And The Technique
C’è un paese, una città meglio, visto che conta cinquantaquattromila novecento otto abitanti ed è capoluogo di provincia, che ha generato in me contemporanee scariche d’intenso odio e amore, nel corso dell’ormai decrepito 2012. Da abruzzese, che per tutti i dodici mesi ha fatto la spola tra Pescara e l’entroterra (molto “entro”) aquilano, Teramo è stata sofferenza e diletto, tormento e soddisfazione. Ho visto una moltitudine di band emergenti nascere sotto le pendici del Gran Sasso mentre io, a Pescara, continuavo a vagabondare per locali danzanti, metallari e Dj Rock (sì, esistono i Dj rock, che cazzo credete?) cercando un gruppo che non c’è, o forse c’è ma ai pescaresi non gliene frega un cazzo. Tante manifestazioni sonore si sono tenute nel teramano, come le esibizioni live di Calibro 35, Bugo, I Cani, gli Offlaga Disco Pax. Cosi, se da un lato vedere l’esplosione di band come gli String Theory (che ho inserito nella mia top three annuale) stava facendo crescere in me l’amore e l’interesse per un territorio fino a ora quasi sconosciuto, dall’altro, vedere la facilità con la quale la gente del posto riesce a ignorare il dilagante fenomeno (il tutto si può notare con la scarsa partecipazione del pubblico ai diversi eventi programmati nella zona) mi fa una rabbia bastarda.
La mia ultima scoperta si chiama Starslugs. Ho il loro disco autoprodotto tra le mani, The Rite And The Technique e guardandolo mi rendo conto che quest’ammasso circolare di policarbonato non mi regalerà certo le dolci note di un pop cantautorale rassicurante e delizioso. Sotto il nome della band sono scritte in inglese le parole “One Straight Line -Do It Yourself” (una sorta di mini manifesto generazionale di una certa cultura punk underground nata negli anni ottanta e che mirava innanzitutto al rifiuto della major per poi diventare un vero modo di vivere) e più in basso, al centro della copertina, mi sembra di vedere un nero che con un ghigno a metà tra dolore e gioia, è intento a trapanarsi le cervella. Ancora più giù, sotto l’indicazione del nome dell’album, un altro sottotitolo nella lingua della regina d’oltremanica recita “una breve storia d’impressioni rubate da un ambiente ostile”. Diciamo che sembrano esserci tutte le premesse per non sperare di rilassarsi tranquilli durante l’ascolto.
Nella parte di dentro del libretto, a rincarare la dose, troviamo di fianco alla tracklist, l’immagine di un fucile smontato, di quelle che si trovano nei libretti d’istruzione, con tutti i numeri sopra ogni pezzo e in basso, ancora una volta in inglese, l’invito a copiare e diffondere l’opera ma non a rubare le idee contenute all’interno. Finalmente mi sento pronto a schiacciare quel pulsante e trasformare la guerra fredda della mia attesa in una pioggia di bombe soniche.
Intanto che ascolto, vi racconto chi sono gli Starslugs. Nati poco più di cinque anni fa in Abruzzo, sono semplicemente un duo (che si definisce Punk-Noise) composto da Danilo “Felix” Di Feliciantonio e Pierluigi Cacciatore, ai quali si aggiunge un batterista che viene dal passato chiamato drum machine Roland TR707 (il suo nome preciso sarà strettamente legato alla musica, come poi vedremo). Scrivono i pezzi nella lingua di Poe e Bukowski e la cosa è un bene (anche se i puristi, fascisti, nazionalisti magari, non la penseranno cosi) perché è il modo migliore di applicare la voce a questo tipo di suono in frantumi. La voce è come la tecnica e la bravura applicate a un qualsiasi strumento. Un chitarrista nel suonare mette insieme le sue capacità con la chitarra che preferisce per il tipo di suono che emette. Cosi chi canta, mette insieme le sue doti con lo strumento, rappresentato nel qual caso, dalla lingua scelta. Ogni lingua come ogni chitarra può essere più o meno adatta a un certo tipo di musica.
Ho finito di ascoltare il disco e lo riascolto ancora e ancora. Nel brano iniziale “Body Hammer” entra subito in scena la Drum Machine e lo fa in un modo che adoro. Martellate ossessive, ripetitive, lineari, quasi marziali preparano l’ingresso alle chitarre che sferragliano come motoseghe impazzite e alla voce che, per quanto possa essere lontana dal concetto platonico di bello assoluto, è perfetta nel suo trascinarsi contorta nello stile del grande Steve Albini. Ci siamo, ecco svelato il trucco. La presenza non della drum machine ma proprio di quella drum machine era un indizio troppo grande. Sull’opera degli Starslugs si staglia imponente l’ombra dei Big Black, la creatura Noise Rock, Post-Hardcore nata negli anni ottanta proprio dalla mente genialmente contorta di Steve. La sua creatura che più ho amato e apprezzato nel corso della mia vita. Aspettate, però, a giungere a conclusione. Non pensate di essere di fronte a una band di “copioni” che volevano provare a fregare un pubblico magari ignorante in materia. La storia è un’altra.
Il secondo brano “Nuke”, il mio preferito, è uno di quei pezzi che ti mette voglia di ascoltarlo ogni fottuto giorno che avresti voglia di spaccare il culo al mondo; inizia con echi vocali di stile industriale e il solito ritmo tormentato, ma quando entrano in scena le corde, ti rendi conto che questi ragazzi hanno capito come pugnalare le orecchie in modo masochisticamente piacevole. Mentre la voce si limita a urlare lamentosa, chitarra e basso creano melodie strepitose che ti entrano nel cervello come un cancro.
Se “Sad Sundays “ accelera il ritmo mantenendo intatta la natura Post-Hardcore degli Starslugs, con le successive “Sense Of Tragic” e ancor più “Betamax” e “Justice”, un sospetto diventa certezza. Dentro il tormento delle ritmiche di questo The Rite And The Technique c’è un’altra band che probabilmente, rispetto ai Big Black, saremo in meno a conoscere. Le atmosfere tribali rievocate nel disco sono le stesse già raccontate dai Savage Republic, band Post-Punk californiana contemporanea dei Big Black, autrice di uno dei migliori lavori nel suo genere chiamato Tragic Figures (la formazione è ancora in attività e lo scorso anno ha prodotto Βαρβάκειος). La cosa che fa piacere è che, dopo aver ascoltato il disco e aver notato i chiari riferimenti ad Albini e i più nascosti alla band di Bruce Licher e Jackson Del Rey, sono andato a leggere la biografia della band teramana e questi due nomi sono gli unici inseriti nei loro riferimenti. Ciò significa due cose. Che, innanzitutto, gli Starslugs dimostrano una notevole onestà intellettuale citando in maniera schietta i loro riferimenti (calcolando che probabilmente il grande e ottuso pubblico non li avrebbe neanche riconosciuti, potevano fare i furbi e sottintendere i riferimenti). Infine, che, se volevano rifarsi a due grandi nomi del passato, l’hanno fatto in maniera egregia, riconoscibile. Il loro sound sembra la degna prosecuzione dell’operato dei due grandi gruppi degli anni ottanta e non una loro pessima copia e tutto questo è dovuto non solo alla loro bravura puramente tecnica e compositiva ma anche a tutto il lavoro di ricerca della strumentazione vintage fatta dai due. Il risultato è perfetto.
In “Uranus” sembrano riaffacciarsi (vedi “Nuke”) delle reminiscenze industriali, dark ambient proprie del movimento nato dalla mente di Genesis P-Orridge e i suoi Throbbing Gristle. Circa cinque minuti di note lente e ripetitive, quasi come una messa funebre in una chiesa sconsacrata. Non c’è nessuna parola ad accompagnare la voce. Solo corde acide e stridenti che pesano come il peccato originale nel cuore del nostro spirito.
Una voce meccanicamente in loop apre “Willie”, altro brano in classico stile Big Black che presenta una melodia nascosta tra il rumore, di quelle che non si scordano facilmente, mentre chiude l’album “Mishima”, l’ultima esplosione atomica, l’ultimo tassello della mia guerra fredda interiore, la bomba H che ha distrutto l’umanità nella mia anima.
Gli Starslugs non hanno sono preso Big Black e Savage Republic per rielaborarli e proporli con fredda imitazione. Hanno invece continuato un percorso tribale e rumoristico iniziato con Atomizer e che non poteva evidentemente concludersi nel 1992. Hanno ripreso la strada di un sound cosi semplicemente straordinario da essere fuori dal tempo, da essere talmente immediato e identificabile anche nel suo essere elementare. Sono stati capaci di creare melodie da materia tagliente e sanguinante come il Noise-Rock. È per questo che gli Starslugs mi sono piaciuti cosi tanto pur essendo probabilmente la band meno originale ascoltata negli ultimi dodici mesi. Perché la loro è una sorta di opera di recupero di sonorità che altrimenti sarebbero andate perdute nell’oblio dell’ignoranza.
Gli Starslugs hanno deciso di continuare la strada ideale di chi al mondo ha risposto con un beato vaffanculo.
Vendemmia Tardiva – Comicità a 99 cents (umorismo spicciolo)
Partiamo con i simpatici punk-rocker della Vendemmia Tardiva: un gruppo toscano che con questo ep appena pubblicato cerca di strapparci una risata (il pogo lo lasciamo ai live, che immaginiamo sudati e molto intensi).
Come ci provano? È presto detto. Un punk rock non troppo violento, ma energico e veloce, suonato non malissimo, arrangiato in modo molto classico, ma che a qualche estimatore del genere potrebbe anche piacere. La qualità è da autoproduzione, ma si lascia ascoltare (se avete un po’ il gusto del caos lo-fi). Dunque… qual è il problema?
Il problema, alla fine, sta tutto qua: la risata non scatta (ma neanche un sorrisino, eh). Ora, questa potrebbe essere per loro anche un’ottima notizia: l’umorismo, come il senso del bello, è qualcosa di molto soggettivo, e magari ciò che non fa ridere me fa ridere tutti gli altri 59 milioni e rotti di potenziali ascoltatori italiani. Ma a me, proprio, i Vendemmia Tardiva non fanno ridere.
I testi sono deboli, di un umorismo da cazzata tra amici (“spicciolo”!), che però non tiene in piedi un disco intero (e chissà se mai potrebbe). Il problema con i gruppi “umoristico-demenziali” è che per far ridere davvero devono essere a prova di bomba, devono saper esagerare, creare un universo-barzelletta e riempirlo di storie, di invenzioni, devono sorprendere, stupire (cfr. EELST, Skiantos…). Qui si sta sul non-sense spinto de “La differenza tra Pacchia e Pacchiano”, ci si incammina verso l’angolo “satirico” (ma con veramente tremila virgolette) di “Caso nazionale”, si sterza su questioni adolescenziali come in “Rompere il ghiaccio” o “La dura realtà”, ma non si arriva mai a piegare forzatamente le labbra dell’ascoltatore in un felice e liberatorio sorriso (o sorrisino che sia). Carina l’idea di “Acquarello impressionista di un dopo-festa”, che rimane (chissà poi perché) quella che mi piace di più. “Il senso della vite” è già stato usato come calembour dai Perturbazione (qui): ecco, quello (dei Perturbazione…) è un esempio di canzone che fa “sorridere”, anche se ovviamente non è in tale direzione che vogliono andare i Vendemmia Tardiva, che sono un po’ più “grossolani” – e, in questo senso, ottima la grafica del booklet e del Bandcamp (coordinata), che rende moltissimo l’idea: colori accesi, fotomontaggi naif, un’atmosfera da discount, cheap, molto “Paint”… uno stile che sta avendo grande successo nello humour post-meme & rage-faces (avete presente Shilipoti?).
Leggere il testo di “Ironia” mi aveva fatto sperare in un colpo di coda finale, una canzone seria sul sentimento ironico che ci spinge a fare i cazzoni come ultimo sputo finale sulla faccia della Realtà… e invece il risultato è una cover di Guccini (non so quanto voluta) in cui manca completamente l’atmosfera quasi tragica che dovrebbe avere il canto solitario di un buffone che vuole sfidare la morte (bellissima e archetipica immagine). Manca l’atmosfera proprio perché ironica: si vuole sorridere esagerando una verità, gonfiandola di paroloni e vestendola di barbosa cantautoralità, con il risultato di produrre una canzone che mantiene il peggio di entrambi i mondi – il barocco del cantautorato che si sta tentando di prendere in giro e la leggerezza un po’ infantile della presa in giro stessa nei confronti di un argomento di cui si potrebbe dire moltissimo (e seriamente).
Il mio consiglio, personalissimo, è: continuate a divertirvi, se questo vi fa divertire. Spaccatevi di vino (anche per me, che ho smesso di bere), sfondatevi di concerti (c’è sempre bisogno di band come questa dopo la terza pinta) e fate uscire un ep ogni tanto come quei testoni de Le Materie Prime. Ma se avete più di vent’anni provate a sperimentare di più, ad osare di più, a “pensarla” di più. E non vogliatemi male, magari sono io quello sbagliato: a conti fatti, se Dolan continua a farmi ridere, non devo essere poi tanto normale.
Lactis Fever – Lactis Fever
“In provincia di Como fa freddo quasi tutto l’anno.
Non c’è molto da fare la sera.
Noi, da qualche anno, ci troviamo in una saletta prove,
beviamo e ci picchiamo.
Altre volte ci capita di immaginare posti in cui non viviamo,
gente che non conosciamo.
Che sia sempre estate.
Che sia sempre natale”
Lactis Fever
Ecco a voi la dimostrazione che la musica Pop non è necessariamente un rompimento di coglioni piano e voce oppure un’accozzaglia di banalità musicali e liriche ma qualcosa che stimola la nostra vita, la nostra anima, cercando di ridare con intelligenza, voglia di esistere e ridere, gioia, spensieratezza e voglia d’amare.
La band comasca che sta girando nel mio Hi-Fi nasce nel 2005 e dopo diverse esibizioni live, incide il primo Ep per l’etichetta romana Peteran Records. A due anni di distanza la loro carriera di poppettari incalliti e svergognati comincia a prendere una certa forma, con la partecipazione a Operazione Soundwave su Mtv nel 2007, la vittoria al Cer.Co Top Band e l’uscita, nel 2010, del primo Lp intitolato The Season We Met, registrato a La Sauna d Varese e prodotto dalla Tubular Records, che inizia a far conoscere la band ad un pubblico più ampio grazie alle positive recensioni di alcune webzine di settore. Come cantava Caparezza “il secondo album è sempre il più difficile” ed ecco a voi l’omonimo Lactis Fever, prodotto con Matteo Cantaluppi (Bugo, Edipo, The R’s, The Canadians), disco che si pone proprio l’obiettivo di lanciare uno sguardo al mondo e all’esistenza senza piangere troppo per le sue brutture ma piuttosto sorridendo alla bellezza, anche quando si analizzano con intelligenza aspetti bui della vita.
Le nove tracce composte da Luca Tommasoni (voce e chitarra), Giovanni Morganti (Basso e cori), Roberto Tagliabue (batteria) e Riccardo Borghi (chitarra e cori) sono un inno alla beatitudine ed alla purezza. Già sotto l’aspetto estetico, nel colore tenue e le forme rotonde dell’artwork rosa pastello curato da Valerio Bianchi, si evince la necessità di non aggredire il pubblico ma più che altro di cullarlo senza comunque spegnergli il cervello. I circa trenta minuti che vanno da “The Worst Thing You’ve Ever Done” a “Tomorrow” sono una cavalcata nel mondo dell’Indie Pop di lingua inglese, con infiniti rimandi alle grandi band moderne del genere (a un passo dal plagio la sezione ritmica di “Shadows Of Doubt”) senza le solite divagazioni (stra abusate) nel mondo Jangle Pop e Twee Pop di grandiose band come The Smiths o Belle And Sebastien, come accade costantemente più spesso nella scena popular nordeuropea sempre più in fermento e soprattutto senza pomposità Chamber Pop o Piano Pop ma piuttosto con un occhio di riguardo per lo spirito Rock che evidentemente pervade la mente dei quattro ragazzi e che trova riferimenti più validi nei nomi del Britpop e del pop/rock statunitense stile Killers, Glasvegas, Editors, ecc…. Il singolo di lancio “The Sun Is Shining” sembra invece un palese riferimento, specie nella parte vocale, alla maniera di Billie the Vision & The Dancers. Se è vero che si tratta di Pop, non troppo originale e con continui riferimenti, volenti omaggi o nolenti errori non sappiamo, a grandi artisti della scena, la cosa non deve assolutamente sminuire il lavoro bellissimo dei Lactis Fever che mostrano una capacità compositiva, esecutiva ma soprattutto di ricerca melodica che sarebbe invidiata da tanti di quei giganti di cui parlavamo sopra, spesso alle prede con carenze d’ispirazione demoralizzanti. L’aggiunta dei cori all’interno delle canzoni non fa che aumentare l’impatto emotivo dei pezzi dando loro una carica che solitamente solo un certo tipo di rock “da stadio” riesce ad avere. Anche quando il sound diventa più languido e intimo, come in “Oh Lord” o “To Be Loved” le note e le parole di Luca Tomassoni non scendono mai nel patetico, anzi danno ancora più cuore alla musica dei Lactis Fever.
Se devo cercare qualche difetto, oltre alla poca originalità che sfocia in alcuni passaggi nella apparente ingenua scopiazzatura, direi che puntare sulla accessibilità, anche se questo è il palese obiettivo della band, rischia di sfociare nella eccessiva appianamento del suono, che alla lunga potrebbe risultare noioso ma solo il tempo potrà dare risposta a questa critica. Forse qualche idea in più si poteva inserire, pur sempre senza dare troppa ampollosità ai pezzi e quindi distruggerne il cuore stesso. Inoltre non mi sembra ci sia niente di eccezionalmente interessante sotto l’aspetto stilistico dei quattro ma ovviamente non hanno neanche fatto molto per dimostrare il contrario perché tutto fila liscio senza nessun eccedenza ne nella sezione ritmica, ne nella parte vocale e cosi via. Se non avessi trovato nulla ma proprio nulla da ridire, se gli arrangiamenti fossero stati eccelsi e ricercati, se la voce fosse ai livelli di un Jeff Buckley, se…se…se…
Non ragionate con i se ma godetevi un disco assolutamente meritevole e soprattutto apprezzabile da chi non ama troppo le spigolature di un certo tipo di Rock eppure non vuole continuare ad ammorbarsi con le frociate del Pop, del tipo che piace anche a vostra mamma.
Soundrise – Timelapse
Come possiamo porci nei confronti di un’allergia? Beh io me ne porto dietro ormai parecchie, per fortuna nessuna grave, ma pare che il mio corpo rigetti sempre di più con il passare degli anni. Pelo dei gatti, paracetamolo, graminacee. Ma anche le versioni di latino, le serie televisive (Twin Peaks a parte), i Radiohead. E rimanendo in tema musicale il progressive rock.
Questa mia ultima irritazione forse deriva semplicemente da una scottatura. E’ probabile che a 17 anni quando ho iniziato a strimpellare il basso, tutti gli allievi della scuola di musica che frequentavo mi facevano notare quanto bravi fossero con i loro strumenti infittiti da un numero esagerato di corde a riprodurre fedelmente tutto Metropolis dei Dream Theater. Beh potete capire come si possa sentire frustrato un ragazzino che faceva fatica persino ad andare a tempo dietro Jailbreak degli AC/DC.
Da questa premessa si capisce quanto sia stato arduo l’ascolto di questo album dei triestini Soundrise. Timelapse si presenta come mix di hard e progressive rock della durata di 50 minuti.
Massaggio lentamente le mie orecchie e le getto in pasto ad un sound a loro avverso. L’attacco è deciso, non ci sono dubbi: rullatoni e doppia cassa, ritmiche storte, intrecci complicati e tastierismi esagerati. Ma anche una buona dose di melodia, ben interpretata da Walter Bosello (anche alle tastiere), che devo ammettere esegue un ottimo lavoro compositivo, oltre che nell’esecuzione vocale. Forse il mio cervello limitato non riesce ad apprendere, a viaggiare insieme a queste musiche così contorte. Si disperde in un sentiero pieno di deviazioni e curve, così irreale davanti miei occhi. Lontano dalla terra e dal cielo che conosco. Non riesco a toccare né con mano, né con l’aiuto dell’immaginazione i luoghi delineati nelle note dei Soundrise (“all that I can see, I try to keep it near and all the things I keep they seem to slip away” la prima frase di Time is mine pare capire il mio stato d’animo).
In Higher Ground la band conferma di essere strepitosa tecnicamente, ritmica funkettona stortissima e una tastiera molto misteriosa rimandano alle vecchie glorie dei Rush. Give Up è melodia pura e ha il sapore di un ballatone hard rock di fine anni 80 con un assolo bello ruffiano e piacevole. Sulla stessa scia procede Learning, la strada si fa meno faticosa la meta sembra ora meglio definita. Ma i ragazzi ad andare dritti non ce la fanno e l’inizio di More presenta già salite ostiche e prepotenti ostacoli lungo la strada, sempre più difficili da evitare in King Time’s Dilemma. Macigni pesantissimi crollano sulla mia testa, ma rimane la forza di una band che (al di la delle mia difficoltà) riesce ottimamente a intrecciare durezza, melodie, repentini cambi di tempo e di dinamica.
La band è ottima, dunque nessun dubbio. Ha lavorato tantissimo (quasi 10 anni!) su questo progetto e ha ottenuto un risultato straordinario: compatto, vario e deciso. Sicuramente un gran bell’esordio che sarà molto apprezzato dagli appassionati delle sonorità prog-metal. Certo, non è un disco da cui si possa salvare un singolo o un disco da ascoltare mentre si prepara cena o nel traffico di rientro da lavoro. Non è il disco che mi fa viaggiare sconnettendo il cervello o meglio connettendolo al cuore. Mi ritrovo costretto a prendere il binocolo per osservare lontano. Al di là delle montagne e delle nuvole, aguzzo la vista in cerca di qualcosa che alla fine dei 50 minuti non ho proprio trovato.
UFO Romeo – Divergenze Emozionali Ep
Qualche tempo fa i Velvet suonavano “Soffro lo strees, io soffro lo stress, sono stanco e fuori forma, suono in una boy band, suono in una boy band, ci deve essere un errore.” E chi pensa che il tempo delle boy band è finito deve ricredersi. Da Roma, freschi freschi con il loro nuovo EP Divergenze Emozionali, Marco Ambra alla voce, Antonio Di Girolamo alla chitarra, Valerio Galassi alla batteria, Fulvio D’Alessio alla tastiera e Flavio Quintilli al basso sono gli UFO Romeo. Dalla loro pagina FB si definiscono: “Folgoranti, ironici, leggeri,amabili, spumeggianti, assolutamente alieni”. Che dire gli ingredienti ci sono tutti e la carica non manca.
Con 5 pezzi, scattanti e vaporosi, questo EP mette fuori una sfera affettiva giovanile fatta di imprudenza e classica spensieratezza dove i rapporti perdono molta consistenza e viaggiano sull’onda delle emozioni momentanee e transitorie. Come accade in Sesso Take Away il primo brano dell’album che potete ascoltare su rockambula.com“…non voglio più perdere la ragione nelle tue illusioni… senza rimpianti e lacrime…. Divertiti e usami”.E così scorre tutto l’album, tra insicurezze, motti giovanili e chitarre distorte a un ritmo tutto da sBallo. Niente di eccezionale, 5 brani, 5 ragazzi che inseguono il sogno della rockstar e della dolce vita. Un prodotto standard, troppo POP. Ascoltandoli mi tornano in mente i Luna pop con la 50 special. @#°§;@[@#ò. Ma loro sono gli UFO Romeo. Oddio non ce la faccio mi serve il cesso…………
May Day – Eppì
“Uomini, adesso, non derideteci,ma pregate Dio che tutti noi assolva.” Voglio dirvelo subito, senza falsità. Cosi non ci siamo. Avete messo tutto (domanda?) in questo Ep e il risultato è poco più di niente. Il sound è derivativo (passatemi il termine indiesnob) fino all’eccesso e questo potrà certo piacere a tanti. Ma vi chiedo. È questo che volete dalla musica? Piacere a masse informi di ragazzini che della musica hanno un’idea ristretta a jingle pubblicitari e MTV o, nella migliore delle ipotesi, ai dischi del fratello più grande? Passiamo l’orrida (per un disco del genere) copertina, passiamo il Cd masterizzato (fisicamente intendo) come la copia di un disco fatta da un vostro amico e passiamo anche il facile titolo da simpaticoni che chiamano l’Ep, “Eppì”. Ma cosa sono veramente questi May Day? Oggettivamente parliamo di tre ragazzi nati a (non lo dico perché loro dicono porti sfiga) nel 2002. Dieci anni dopo sono ancora gli stessi che suonano il più classico Alternative Rock in lingua italiana.
In una decade hanno prodotto due dischi, l’omonimo del 2003 e “Come Ieri” datato 2005 e hanno all’attivo due partecipazioni a compilation firmate Sana Records e Indie Box Records. Sul lato live si sono dati abbastanza da fare, condividendo il palco con Linea 77, Punkreas, Meganoidi, Bambole di Pezza, The S.T.P., L’ Invasione degli Omini Verdi, Medusa, Ln Ripley. Riescono anche a vincere il primo Biella Music Contest e partecipano alle fasi finali di Arezzo Wave e Transilvania Live. Ultimo riconoscimento la vittoria dell’Open Mic Summer Tour Contest 2011. Ma chi sono veramente questi May Day? Decidono di condividere l’Ep in download gratuito per potersi mettere in gioco soprattutto nell’aspetto live. Non vogliono necessariamente lucrare (né ovviamente fare i coglioni a loro spese, immagino) sulle spalle della musica. Sono onesti fino all’osso. E soprattutto sono bravi. Quindi, perché non vi sfogate quanto create? Suppongo non sia una questione di limitazione artistica. Forse è il timore di osare. Ma perché non vi lasciate andare? Che siano le grandi band soggiogate dalle case discografiche a uniformarsi a un certo tipo di suono. Voi, indipendenti e liberi fino al midollo, dovete regalarci qualcosa di più. Se ne siete capaci (io dico sì ed è questo il motivo del voto forse troppo duro rispetto alle mie parole. Odio vedere il talento sprecato).
I riff che ci scheggiano la pelle per i brevi minuti che ci accompagnano nell’ascolto dei cinque brani sono eccellenti in un certo senso prettamente estetico, ricercati quanto basta e orecchiabili ma devono sempre qualcosa a qualcuno, sia insospettabile (il riff del primo brano “Supermario” non vi ricorda niente?) sia troppo scontato (The Strokes, Placebo, tanto per fare qualche nome). Stesso discorso per la batteria che ricalca alla perfezione l’Alternative più vicino allo Stoner Rock. Tutto quello che sembra uscire dalle casse è un ovvio misto di Indie, Pop e Rock. La voce (che ricorda quella di Federico Dragogna) è discreta, molto migliorabile a dire il vero, soprattutto in fase di registrazione e i testi, come spesso accade nel mondo Indie, non rappresentano certo il punto forte di “Eppì”. I motivi sono nel complesso abbastanza immediati e facili, come di una band che cerchi il più ampio consenso. Ma a mio avviso i May Day non sono questi. Lo voglio credere. I primi venti secondi (non è l’unico momento, ovviamente) di “Vecchio” mi parlano di una band che ci sa fare e non di una band che vuole vendere. L’energia che schizza in alcune poderose virate Alternative Rock è quella di chi non vuole sfondare, ma vi vuole sfondare il culo. La strada devono sceglierla loro. Gabriele Serafini (chitarra e voce), Francesco Petrosino (Basso e voce) e Patrick Seguini (batteria) hanno in mano il loro futuro. Piacere a chi di musica capisce poco col rischio poi di non piacere a nessuno e diventare un’altra delle tante band che spariscono dall’Italia ogni anno. Oppure darsi da fare e mettere in musica tutta la loro anima creativa.
Traffic Lights Orchestra – Verde Yellow Rouge
Chiamarla indie rock è decisamente fuorviante a volte ma è un po’ il modo più generico e facile di indicare tutta quella roba che semplicemente se ne va per i fatti suoi senza seguire canoni e stili attesi. In questo caso forse il modo migliore per afferrare il concetto è semplicemente guardare il nome in cui compare quell’ “orchestra” che spiega tutto. Mille strumenti per mille lingue tutto insieme a generare una sorta di caleidoscopio colorato più che un album. Undici canzoni in cui si può trovare tutto e il contrario di tutto ma una certezza appare subito lampante ascoltando questo Rouge: questi ragazzi suonano e suonano come si deve! Creativi fino alla nausea, giocano e si divertono a spiazzare continuamente muovendosi con la disinvoltura del Capossela più maturo tra pianoforti, contrappunti elettrici, archi, vibrafoni e percussioni di ogni genere. “Devil” e “Two Times” (accompagnata da un video alquanto riuscito nel tentativo di tradurre in immagini l’arte della band) sono semplicemente stupefacenti in questo senso. Tutto il disco è pervaso da quel gusto per il trasandato e sound polveroso alla Waits, aperto a ogni soluzione sonora e costantemente alla ricerca della chicca da piazzare in ogni brano, sia essa legata ad un qualche strumento in particolare o ad una scelta per un cantato sempre incostante e variegato o per ritmi cadenzati mai scontati. Non stancano mai i brani e anzi il disco lascia parecchio spazio all’immaginazione di chi ascolta fino a lasciare la sensazione che molta roba, magari, la banda l’abbia lasciata in studio e abbia raccolto solo una parte delle idee che vagavano per le teste dei suoi autori.
Professionali. Forse troppo. Ecco magari l’unico difetto dei TLO. Da un primo disco magari ci si attende anche quell’acerba immaturità che lo rende imperfetto e al tempo stesso gemma unica e originale nella carriera di un artista. E invece dopo un po’ di ascolti ti rendi conto che Verde Yellow Rouge suona fin troppo perfettamente coincidente con le intenzioni di chi lo ha suonato, che mai si è concesso errori e non si è mai fatto distrarre da contaminazioni estranee ai propri gusti. Sarebbe bello vederli in preda a follie isteriche degne del miglior Zorn e vista la caratura dei musicisti probabilmente il risultato sarebbe scioccante. …gente ferma al semaforo, bambini che salutano appiccicati ai finestrini, tergicristalli che alle volte vanno a tempo con la radio… un’arte fatta di poesie e lucidi sognatori quella di questi Traffic Lights Orchestra.