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TreesTakeLife – Sounds From Today

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TreesTakeLile è un progetto musicale nato nel 2009, un trio di ragazzi romani con un approccio musicale trasversale, focalizzato sui suoni e sul loro utilizzo. I progetti che li vedono coinvolti, sono tanti e per lo più prevedono l’uso della musica come sostegno e supporto alle immagini, ma non mancano le vere e proprie produzioni strettamente discografiche, e infatti dopo un EP e un primo album esce, a tre anni di distanza dal precedente, Sounds From Today. Sei tracce autoprodotte, che racchiudono in sé la sostanza dei TreesTakeLife, musica, emozioni e immaginazione. I suoni sono moderni, elettronici, universali e contemporaneamente portatori di piccole cose, facile lasciarsi trasportare dal flusso di connessioni e immagini. “Alym” e “Neptunes”, sono le tracce più ricche di Elettronica e di beat, hanno una natura duplice che si destreggia tra morbidezza e algidismo, la prima più aliena e distante, un ricco e brulicante mondo sotterraneo in fermento; la seconda gioiosa, ritmata, acquatica, gentile con chi vi s’immerge. “Space”, pulsante e ripetitiva è la cosa che più si avvicina a un brano strumentale Post Rock, ma in versione più asciutta e minimalista. “Come Back” è calda e avvolgente, soprattutto grazie alla chitarra acustica e ai cori, è la traccia più terrena di tutte, il suono di un’ancestrale festa contadina. Chiude l’EP “Outro” la più breve e primordiale, che attraverso riverberi profondi e basso sembra lasciarci con un mantra viscerale. Sound From Today è album intenso con una portata ampia e un grande potenziale interpretativo da parte di chi ascolta. I TreesTakeLife dimostrano con questo nuovo tassello di essere un progetto olistico nell’accezione più pura, quella da “Treccani”, che li rende una realtà che nel suo complesso presenta delle caratteristiche proprie che vanno aldilà della somma delle sue parti. Un ascolto per chi ama lasciarsi trasportare dalla musica e immaginare quale forma potrebbe assumere, come quando da bambini si giocava con le nuvole.

TreesTakeLife _ Come Back from Renato Muro on Vimeo.

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Alba Caduca – Uomo Nuovo

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La band friulana torna con un nuovo album aver diviso il palco con Motel Connection e Modena City Ramblers.
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Misfatto – Rosencrutzis Dead

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Sono passati ormai venticinque anni dalla prima apparizione in studio della trip-rock band piacentina Misfatto. Era proprio il 1990 quando vedeva la luce Il Peso dell’Innocenza, album nato in pieno periodo grunge. Di quelle atmosfere i Misfatto sono sempre rimasti figli, portando avanti una carriera che ha visto anche la pubblicazione, a nome del chitarrista Gabriele Finotti, di un volume edito da Zona chiamato La Chiesa Senza Tetto, un romanzo gotico ispirato ad una chiesa di Lisbona rimasta in piedi dopo il terremoto del 1755. Proprio dalla compenetrazione di musica e testo del libro nascono gli ultimi tre album della band Heleonor, Heleonor Rosencrutz e Rosencrutzis Dead. L’ultimo lavoro, uscito a maggio, è dunque la chiusura naturale della trilogia iniziata nel 2013. Siamo di fronte ad un lavoro intenso, dove la perfetta fusione tra cantato e linee melodiche è l’obiettivo primario della band. Dalla dimensione quasi rarefatta di “Kamaleon” si corre verso la deflagrazione di “Rosencrutzis Dead”, brano manifesto della band, passando per la carica “Walking Down the Sea” che ricorda i migliori Skunk Anansie . La voce di Melody Castellari è una gemma incastonata tra riverberi e distorsioni che creano una densità compositiva strepitosa e una pienezza sonora assai gradita in tempi del ritorno di fiamma per li lo-fi. Rosencrutzis Dead non è un ascolto facile, almeno al primo play. Ascoltandolo varie volte però si scopre un mondo meraviglioso fatto di messaggi segreti e codici nascosti e si entra, a piccoli passi, in un’idea. Nel periodo della musica usa e getta, dell’ascolto mordi e fuggi, la riconoscibilità diventa un elemento sempre più importante per essere ricordati nel calderone dell’epoca moderna e i Misfatto, oltre a un equilibrio e una credibilità disarmanti, possono fare vanto di questa rara dote.


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I Salici – Sowing Light

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Natura, cultura rurale e territorio. Questi tre elementi sono già sufficienti a dare una prima immagine de I Salici, band friulana che coniuga un animo dichiaratamente Folk ad un’attitudine DIY. E’ infatti opera dei ragazzi il proprio studio di registrazione ricavato in una casa di pietra nella campagna friulana. Musica ma anche valorizzazione del territorio per I Salici che sette anni fa hanno dato vita al festival AESON, rassegna che porta performances culturali all’interno dei boschi e delle acque del fiume Isonzo. Ed è inevitabile che tutto ciò non si rifletta nella musica. Dopo il buon esordio, seppur acerbo, di Nowhere Better Than This Place, Somewhere Better Than This Place I Salici ritornano con Sowing Light. Mai titolo fu più profetico, seminare la luce è proprio ciò che la band riesce a fare in un disco rapidissimo e coinvolgente. Il passaggio da un genere all’altro avviene in modo molto fluido: il prog accennato di “Ocean’soutshine” cede il passo al Folk sudato di “Fernando” e a quello più tranquillo di “Wild One”. Ma Sowing Light non è solo un rimbalzarsi di questi due generi, c’è anche il Rock Blues radicale dei 70s (“Young Heart Be in Love Tonight”, “Got a Clock”). Il punto di contatto per tutto è il sogno, un’aleggiante atmosfera onirica che in musica si traduce con la psichedelia, concetto che permea ogni singola traccia dell’album. Siamo di fronte ad un prodotto fresco e nuovo che riesce a sposare in modo non troppo cervellotico l’unica via ormai possibile per la musica indipendente: il Crossover. Sowing Light ci regala dodici tracce mai stucchevoli che sebbene declinate in vari generi, trovano una perfetta coerenza interna che emerge e che qui ha il significato di riconoscibilità, in senso buono. I Salici superano abbondandemente la prova del secondo album con la faretra ancora piena di idee per il futuro.

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Fucina 28 – La Pace Dei Sensi – Il Nulla

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Come scritto nella loro biografia, il progetto Fucina 28 nasce tra le mura di una casa, tra le piacevoli emozioni che solo una cena tra amici sa donare. Era il Novembre 2011 e quasi quattro anni dopo ritroviamo il gruppo pisano reduce da tour in giro per l’Italia e un primo album E’ Arrivato Il Tempo, accolto positivamente da critica e pubblico. Le otto tracce de La Pace Dei Sensi – Il Nulla, continuano a solcare l’onda sporca e abrasiva del precedente lavoro, senza nessun tipo di ammorbidimento. Sicuramente la scelta di una registrazione in presa diretta non avrà giovato in questo senso. La voce di Pietro Giamattei, mente e anima della band, ci introduce alla malinconica “La Guerra Dei Trent’Anni”, mentre con “Nel Paese Di Pinocchio”, il quartetto raccoglie i pro e i contro del sound dei Tiromancino. Avvolgente e più dinamica la titletrack “La Pace Dei Sensi”, ma è con “Amore Blu” che si fa il salto di qualità: un inno che si oppone al qualunquismo, scalfito da melodie estemporanee. E’ un fuoco di paglia, purtroppo: calma piatta in “Verde Mare” e “Te Stesso”. Si torna su buoni livelli con i riff di “Terrore”, il pezzo più lisergico del lotto, la quale si spegne come la fiamma di una candela al vento, lasciando spazio alla conclusiva “L’Incostanza Vol.II”: drammatica, quasi teatrale. Finito l’ascolto contesto la scelta della registrazione in presa diretta, troppo confusionaria e non all’altezza, ed è un dispiacere perché nei testi si scorge quel qualcosa in più che manca alla maggior parte della musica prodotta nel nostro Paese.

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Arcane of Souls – Cenerè

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Davanti a un disco per me nuovo ho la (cattiva?) abitudine di regalarmi un primo ascolto digiuna di ogni contorno. Così metto su Cenerè di Arcane of Souls conoscendone nient’altro che il nome, convinta che un moniker così non possa che celare un progetto dal substrato Metal. E invece schiaccio play e “L’Oro in Bocca” inaugura il disco col più classico dei Rock’n’Roll. L’ingannevole pseudonimo nient’altro è che l’anagramma di Alfonso Surace, cantautore che ha fatto della necessità di autoprodursi un marchio di fabbrica. Caso piuttosto comune nel mondo della musica indipendente nostrana (fervente sì, ma che praticamente mai consente ai propri abitanti di vivere della propria arte), Surace realizza anche questo secondo lavoro, dopo Vivo e Vegeto del 2012, nei ritagli di tempo che riesce a rubare alla sua esistenza diurna e con l’aiuto delle persone che ne fanno parte. Ne vengono fuori cose come il video del primo singolo estratto, “Gennaro”, che ironico e casereccio fa il verso al celebre domino del clip che accompagna “This Too Shall Pass” degli Ok Go. “Gennaro” presenta un album con cui condivide solo alcuni aspetti. La voce di Surace si diverte a suonare roca e gridata, da bluesman che si rispetti, e in molti frangenti giunge l’eco di personaggi singolari del cantautorato italico del passato: complice la somiglianza anche nel timbro vocale, alcuni tra i brani di Cenerè starebbero bene in bocca a Rino Gaetano, ed anche nelle corde scanzonate di Freak Antoni. Gli episodi più convincenti sono però quelli fatti di contaminazioni delicate, piuttosto che i brani schiettamente Blues Rock: “Maggio” coinvolge con un rincorrersi di violino e percussioni dal sapore etnico, “Respirare” spezza la monotonia delle linee vocali sostenute col suo sussurrato Psych Folk, “Settembre” ammicca al Math Rock, “Opera” è la ballad docile che si fa attendere fino alla fine del disco. Tanta varietà, pur essendo in linea con la spontaneità su cui tutto il progetto è costruito, penalizza un po’ il risultato finale, ricco di spunti interessanti negli arrangiamenti ma che vive di una immediatezza che quasi mai si cura di approfondire. L’impulsività giova invece alle liriche, che giungono schiette e piacevoli raccontando del quotidiano di un personaggio a cui ci si affeziona con facilità. Concedetegli più di un ascolto.

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Lennon Kelly – Lunga Vita al Re

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Miscelare spirito Punk e sonorità Irish con inserti in dialetto (romagnolo), raccontare “storie vere, di speranza per un futuro migliore, di denuncia sociale e politica mai velata o censurata”: non si può certo dire che i Lennon Kelly cerchino l’originalità a tutti i costi, anzi… Il loro ultimo album, Lunga Vita al Re, è praticamente un album dei (primi?) Modena City Ramblers (c’è persino una comparsata del flautista Franco D’Aniello nell’ultimo brano, la ballata “La Morte di Corbari”). Un album senza infamia e senza lode, suonato con competenza, pieno di canzoni piacevoli ma che non rimangono granché nella testa, soprattutto perché manca una personalità forte, un’identità che li distacchi dai più famosi cugini. Se per voi di musica così non ce n’è mai abbastanza, ascoltateli assolutamente: la fanno molto bene, le canzoni filano, e scommetto che dal vivo sono danzerecci e scatenanti al punto giusto (la title track da questo punto di vista funziona benissimo, ma anche la piratesca “Sangue e Sale”, e in fondo praticamente tutti i brani si portano dentro una bella atmosfera festosa, da pinte di birra scura e balli infuocati). Il problema è riuscire a tenere sotto controllo l’effetto déjà vu, che a tratti è veramente insopportabile, e che purtroppo mina alle fondamenta l’approccio stesso del progetto.

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Don Turbolento – ПОЛИ ЖОКС

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Un nome esotico per il terzo album del duo Dario Bartolotti e Giovanni Battagliola, stampato nell’artwork a caratteri ancor più evocativi insieme ad un logo apparentemente di difficile interpretazione ma che altro non è che la sagoma del monumento di Podgaric di Dusan Dzamonja (lo vedrete meglio nel videoclip del singolo) eretto a memoria di uno dei tanti massacri della seconda guerra mondiale, la rivoluzione della Moslavina. Considerato una delle opere più brutte al mondo, racchiude in sé un profondo valore spirituale e tale concetto parzialmente ricalca l’opera dei Don Turbolento.

Nati dalla passione per il Funk, il Rock e l’Electronic, la band, il cui nome si rifà ad un pezzo degli svizzeri Yello, sceglie una strada Electro per confezionare un concept album il cui nome, Poli Voks, si ispira ad un vecchio sintetizzatore russo, poderoso ed esteticamente bellico e che affronta il tema della guerra ma più in generale della naturale ed a volte involontaria inclinazione umana per il male.

Oltre a forgiarsi di pura attitudine Electro Industrial (“Nails in my Throat”, “Like Morphine”, “Toom Doom”), i dieci brani della tracklist divagano per strade Synth Pop (“The Hunchback”, “Step Off”) e Dance (“Back In(to) the Void”) tanto quanto New Wave (“No Light No Sound”, “Null”, “What It Takes”, “Decay”), puntando su immediatezza e semplicità e su basi potenti, talvolta cattive, trascinanti, poste sullo sfondo di una vocalità soffocata, non troppo invadente e leziosa ma neanche ricca di talento. Nonostante una ricerca del suono non proprio di valore oltre la norma, sta proprio nella ritmica e nelle basi, specie quando cariche e robuste, il vero punto di forza di Poli Voks. La parte vocale fatica a proporre melodie accattivanti e arranca nel tentativo di farsi scivolare di dosso i più comuni cliché della scena Pop sintetica. Nello stesso tempo, l’intero album non ha la perizia di incutere con solerzia il concetto che sta alla base dello stesso risultando invece piuttosto anacronistico. Orrendo il brano di chiusura, fino all’ultimo secondo e se un primo paragone che mi è venuto in mente, per descrivervi l’opera dei Don Turbolento, è invitarvi ad immaginare i Depeche Mode che suonino insieme ai Cabaret Voltaire non posso che sottolineare le titaniche distanze che intercorrono tra questi mostri sacri appena citati e la formazione bresciana, convincente solo a tratti ma su cui ho la voglia di sperare ancora.

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Andrea Arnoldi E Il Peso Del Corpo – Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate

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È, pare, un disco sulla morte, questo Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate dello stralunato Andrea Arnoldi, accompagnato da tutta una serie di musicisti che va sotto il nome de Il Peso Del Corpo. Ma questo suo status di concept escatologico potrebbe sviare l’attenzione, potrebbe confondere e dare un’idea sbagliata: Le Cose Vanno Usate ecc. è un disco di cantautorato leggero (e non per questo senz’anima, anzi), canzoni d’arpeggi lievi di chitarra acustica affondate in atmosfere cangianti fatte di strumenti vari e curiosi, archi, theremin, organetti, fiati, sitar, campane. Una scrittura che sa essere impalpabile e piena di grazia, disposta a farsi indietro per dare spazio agli arrangiamenti, vero gioiello di questo disco che si espande e si gonfia in code e introduzioni oniriche, celesti, su armonie comode ma prendendo strade anche poco battute nel folto selvatico di volumi contenuti e rigoglio sonoro, ricco di timbriche originali e sognanti. La scrittura di Andrea Arnoldi è sommessa e gentile, si muove per scarti sottili, evanescenti (“tu risplendi come i melograni / e hai rami al posto delle mani / io sono vuoto come un cruciverba / e sulla testa mi cresce l’erba”, da “Àncora”; “E quanti anni abbiamo adesso / e dove siamo? / Ne avete quasi mille / e siete biologia”, da “L’Ortica”; “e per ringiovanire recatevi in un campo / scavatevi una fossa, sdraiatevici dentro / davvero è poca cosa ma del vostro triste corpo / si nutrirà una rosa / e questo, che io sappia / è il solo scudo contro l’aldilà”, da “Ringiovanimento”). Una poetica delle leggerezza, del peso nascosto e alleggerito, sussurrato, in equilibrio. Unica pecca la voce, poco incisiva, con un timbro che a volte stride, ma che, bisogna riconoscerlo, è stata adattata il più possibile al mood etereo del disco. È un disco da scoprire e riscoprire, sperando che non passi senza lasciare traccia, sperando che rimanga nell’aria il tempo di farlo penetrare nelle orecchie e nella testa come l’acqua che filtra nella terra o come la luce che ci bagna le retine sotto le palpebre chiuse in un giorno di sole. “Non voglio perdere la meraviglia / di amar qualcosa che non mi somiglia”.

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Dear Baby Deer – Tryst

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C’era una volta Gianluca Spezza, co-fondatore dei Divine, valido episodio Trip Hop prodotto da Gianni Maroccolo all’ombra del CPI di Giovanni Lindo Ferretti sul finire degli anni ‘90. C’è ancora, e da quando ha incontrato Lilia si fa chiamare Dear Baby Deer. Il ritorno in auge dello Shoegaze ha generato le declinazioni più disparate di quel fenomeno musicale che in realtà all’epoca in Italia non attecchì mai compiutamente. Tryst è invece un EP che nasce dalla consapevolezza di chi abitava la scena in quegli anni e ne assimilava in tempo reale le influenze che giungevano da oltremanica, e dimostra oltretutto la giusta attenzione nei confronti del panorama contemporaneo. Mi dicono dalla regia che Gianluca sia un musico girovago, me lo immagino anche poliglotta, chissà in quale lingua si esprime, ma che importa? Sebbene non saprei bene come pronunciarlo ad alta voce, letteralmente Tryst ha un significato alquanto intrigante, “un incontro sentimentale tenuto segreto”. Per registrare questo secondo EP firmato Dear Baby Deer, Spezza sceglie un giovane studio in provincia di Teramo, il Colonnella Sound dei Two Fates, quel duo che suona come una piccola orchestra sintetica. Arricchisce il prodotto finale la voce di Lilia, abruzzese anche lei, con un onirico EP all’attivo (44) ed un concept album in arrivo. Ciò che ne viene fuori è una immersione soffice sin dal primo ascolto, come tradizione Shoegaze impone, con un orecchio memore delle lezioni Alt Rock italiche di Scisma e Ustmamò, e l’altro proiettato al futuro dettato dal Dream Pop di recenti esperimenti internazionali (Daughter, M83). Si spazia dalla title track, di inclinazione prepotentemente Rock ma ovattata con cura, ai sussurri sintetici di “You Don’t Know”, con le voci di Lilia e Gianluca che si rincorrono tra i beat (“Things in Rain”), il tutto intriso di una miscela Elettronica morbida e ben calibrata che scivola spesso ammiccante in territori 80’s. Discreto e ammaliante questo gradito ritorno che lascia ben sperare per il futuro.

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Day After Rules – Innocence

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I lodigiani Day After Rules arrivano al secondo lavoro con l’attuale formazione con una buona padronanza degli stilemi del Punk pucciato nel Pop, quell’Hardcore melodico di stampo americano che ha grande successo oltreoceano. Il loro Innocence è un concentrato (sette brani per meno di diciassette minuti) di batterie pestate, chitarre taglienti e una voce (femminile) che sa muoversi tra cantato e urlato con facilità. Se a livello di suoni si può ancora migliorare molto (la batteria suona artificiale e le chitarre in alcuni frangenti appaiono troppo acide) sulla composizione e l’esecuzione siamo ad un buon livello per il genere: i Day After Rules non inventano granché, ma sanno accelerare e rallentare come si deve, spingere quando la musica si gonfia e prende la rincorsa, ripiegare sulla morbidezza e l’armonia quando invece la marea scende (molto apprezzabile l’ondeggiare di “No More Future”, che ha pause quasi Post-Rock). Non fraintendetemi: il disco suona bello cattivo, schiaffeggia a dovere, merito soprattutto delle ritmiche e della voce mai fuori posto di Giulia, cantante e chitarrista, che ci porta alla mente, qua e là, sia una Hayley Williams che una Brody Dalle. Un buon disco di Hc Melodico, tirato, pestato, e sapientemente svuotato e ammorbidito quando serve. È suonato bene e scritto bene per il genere che incarna: forse una minore aderenza al canone avrebbe giovato alla speranza di vita di Innocence, che comunque ci presenta una band che ha studiato e sa addossarsi la responsabilità delle proprie scelte.

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La Tosse Grassa – Tg4

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La Tosse Grassa è un culto più che una one man band demenziale, cattivo e ironico come mai nessuno in terra italica; irriverente e totalmente contro tutto quello che i puristi del Rock possono considerare musica. Un culto ormai attivo dal 2011 e con quattro dischi alle spalle (Tg4 compreso) del tipo che riesce a rapire tanto quanto a disgustare, spaccando inevitabilmente gli ascoltatori tra adepti e nemici. Se non avete mai origliato null’altro di quest’omaccione marchigiano preparatevi al peggio perché la prima volta che lo farete, le vostre reazioni saranno un misto tra “che merda è questa?”, “stiamo scherzando?” e altre dichiarazioni di questo stampo. Poi potranno accadere due cose. Non vi azzarderete mai più a pigiare il tasto play oppure proverete un’imbarazzante voglia di dare ascolto ancora e poi ancora e poi ancora i brani di uno dei Tg (i suoi album).  La cosa più strana è che non riuscirete a capire il perché di questa voglia e avrete paura di quello che siete, un po’ come quando nella testa ci passano pensieri talmente cattivi, sadici e meschini da farci vergognare di noi stessi.  Dal vivo La Tosse Grassa è esperienza delirante e divertente grazie anche allo pseudo corpo di ballo Radical Macabre Tanzkommando ma per ora, in attesa della nuova stagione live, dobbiamo accontentarci di questo nuovo lavoro in studio, che poi dire “in studio” è piuttosto un’esagerazione, visto il livello Lo Fi della registrazione. Chiarito ai miscredenti quale sia la follia dietro al culto, resta da capire di che diavolo di roba si stia parlando. Autodefinitosi un incrocio tra GG Allin, Madonna ed Elvis Presley in realtà il nostro non fa altro che miscelare brani preesistenti a formare delle basi spesso di stampo danzereccio, sulle quali piazza delle liriche aggressive, sarcastiche, che affrontano temi di stampo sociale e umanistico, oppure semplicemente raccontano storie folli, senza mai eccedere con l’ostentazione biografica. A differenza degli episodi precedenti, sono meno i brani sessualmente o blasfemicamente rilevanti (“Voglio la Pensione”) e più quelli intimi.

In realtà non ci sono episodi esasperatamente eccessivi come potevano essere “Lo Vuoi nel Culo”, “Gay Porn”, “Ho Male a te” (ho male al cazzo, ho male al cazzo, ho male a te), “Robuste Dosi di Cazzo” in TG1, “Ti Apro il Culto” (più per l’uso dell’inno italiano che per le bestemmie) in TG2, “Marchigian Routine 2” (se vi danno fastidio le bestemmie, questo pezzo sarà il vostro demonio) in TG3. Satira politica estrema dunque (“Tentacoli”, “Lutto Nazionale”) e attacchi pesanti al sistema comunicativo (“Sono Io il Suffragio Universale”, “Adam Kadmon”) ma anche storie divertenti (“Me La Dai la D.I.”) o aggressioni verbali ai nuovi loser come i malati di gioco d’azzardo da bar (“Just Cavalle”) e la stupidità in genere (“Mentalità” che canta forza Juve, viva il duce, Vasco Vasco alé alé), o racconti pesanti di squilibri mentali (“NSFW”) e deliri cimiteriali (“Never Forget Cimitero”, “Afoto Patomba”). Rispetto ai Tg precedenti sono meno anche i brani veramente memorabili, a modo loro, ma in tracklist c’è forse la più bella cosa mai scritta dal genio (passatemelo, dai) di Recanati (forse al pari di “Sei Qui Solo per le Telecamere” che puntava su ritmi ballabili e potenti). “C’ho una Persona Dentro” è un pezzo introspettivo, l’unico realmente in prima persona, sia a livello musicale sia testuale in cui La Tosse Grassa (usando per la base Massimo Ranieri – “Perdere L’Amore”, Arcade Fire – “Rebellion (Lies)”, Kirlian Camera – “Ascension” e Riz Ortolani – “Cannibal Holocaust”) racconta di come, nel profondo del suo animo, viva uno spirito capace di metterlo in una condizione di accettazione anche nei confronti di tutto ciò di più fastidioso e ingiusto ci circondi nella vita di tutti i giorni (c’ho una persona dentro che mi fa stare allegro /quando vado a fa spesa e mi chiama capo un negro /c’ho una persona dentro che non dice “capo un cazzo” /ma sorride al ragazzo).

Come detto, la parte musicale è essenzialmente composta di miscele di brani di altri, quindi, superato lo sconcerto iniziale e una volta presa familiarità con i testi assurdi, potreste divertirvi a scovare da quali brani siano formate le canzoni, considerando che La Tosse Grassa ha sempre mostrato una grande conoscenza del mondo della musica, senza mai palesarsi banale nelle scelte, anzi tirando fuori perle notevoli e ostentandosi attento anche alle novità meno mainstream. Qualche suggerimento: Johnny Cash – “Ring Of Fire”, The Cramps – “Garbageman”, Frankie Knuckles – “Your Love”, Kraftwerk – “Numbers”, The Pains of Being Pure at Heart – “Simple And Sure” e tantissimi altri. Per chi avrà apprezzato le cose più movimentate dei capitoli precedenti, sicuramente degne di nota e di sicuro impatto in chiave live vanno considerate “Me La Dai la D.I.” e “Never Forget Cimitero” mentre interessanti sono anche “Mentalità” e “Afoto Patomba”. Arrivato alla fine, viene da chiedersi come si possa esprimere un giudizio reale su un disco del genere perché non esiste assolutamente nulla di paragonabile e TG4 può essere visto sotto una duplice veste. Da un lato muove il gusto per il macabro, il brutto, il rivoltante, che è parte integrante del nostro essere. Dall’altro è un’idea intelligente messa in piedi nella maniera più grezza possibile, orrida in un certo senso ma perfetta per rendere il concetto. Paragonato ai dischi precedenti, TG4 deluderà solo i più legati alla carnalità volgare degli esordi mentre non lo farà affatto con chi ha amato anche il più intelligente messo in mostra nelle ultime cose. In senso assoluto TG4 è un disco volutamente brutto, un album che dovete assolutamente ascoltare una volta, almeno per poter dire con certezza che mai più lo farete ma attenzione, c’è il forte rischio di trovarvi anche voi invischiati nella merda fino al collo, dentro il culto de La Tosse Grassa.

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