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Mike Zaffa – Rockstars

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“Perché Rockstars? Il significato è ambivalente. È un dito puntato a tutti quei cantanti che calcano palchi più o meno importanti, convinti di reincarnare l’aura delle rockstars del passato, idoli indiscussi di intere generazioni.In realtà oggi questa gente non ha nulla da dire.  L’altro e più importante significato, è una questione di attitudine: questo disco è dedicato alle vere rockstars, cioè tutte quelle persone “comuni” che la mattina si svegliano alle 7 e combattono per raggiungere un obiettivo preciso, anche se questo vuol dire spesso affrontare un lavoro di merda che con quell’obiettivo non ha nulla a che vedere”.

Con queste poche righe Mike Zaffa giustifica l’uscita del suo secondo lavoro in studio che ha ambizioni grandi, quali quelle di mischiare il Rap, la Dubstep e le chitarre del Rock. Insomma un progetto abbastanza bramoso, soprattutto se da realizzare in Italia dove le produzioni non hanno gli stessi budget di quelle americane e dove l’unico esempio che potrebbe tornare alla mente è Noyz Narcos (che però potremmo definire molto più “commerciale”). A dimostrare l’impegno profuso ci pensa la terza traccia del disco, “Gli Occhi di un Cobra”, che unisce liriche e rime velocissime a ritmi raffinati e lenti, che si contrastano senza mai calpestarsi a vicenda. Un flusso di parole e musica che scorre come un fiume in piena. A tratti il disco ricorderebbe anche roba d’oltreoceano tipo i Beastie Boys, ma le vocalità, i flow e i beats sono più fedeli a quelli dell’Hip Hop italiano, soprattutto in “Sottozero”, brano effervescente e mai banale. “Venomous” è il singolo perfetto per questo artista, con un testo che parla di droga e in cui non mancano anche un paragone con il suo “collega” Neslie e una bestemmia che forse si sarebbe potuta evitare. L’effetto, o forse lo scopo ultimo, è quello di attrarre diverse categorie di pubblico senza cedere ai compromessi e alle logiche del mercato discografico. A mio giudizio Mike Zaffa ci è riuscito, soprattutto con brani quali “Tatuaggi e Cicatrici” e “L’Erede di Bukowski”, ma preferirei aspettare un’ulteriore prova discografica per poter avere un giudizio più preciso su di lui e sul suo operato. Intanto strappa la sufficienza che attesta la validità di “Rockstars.

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Ismael – Tre

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Un’interessante prova questo Tre degli Ismael, band reggiana con la peculiarità di avere come frontman Sandro Campani, che fa lo scrittore (lo scrittore “vero”, che dovrebbe voler dire “pubblicato” – l’ultimo libro è uscito per Rizzoli). Una peculiarità che non è solo di contorno, non è solo materiale promozionale: ma ci torniamo dopo. Tre è, musicalmente, un disco secco, per la maggior parte, elettrico e nervoso, essenziale, scarno, spigoloso, che sa però bagnarsi , qua e là (“Tema di Irene”), in lente evoluzioni Slow Core, Post Rock, fatte di chitarre ipnotiche e organi umidi. Sono interessanti anche le digressioni “Americana” (“Canzone del Bisonte”, con una chitarra acustica dal ritmo country e dal giro armonico molto seventies, o il finale di “Canzone di Quello”, epico-campagnolo). I riferimenti sono molto anni 90, e se dovessi giocare alle libere associazioni direi che mi ricordano molto Il Teatro degli Orrori in versione meno heavy (date un ascolto al finale di “Palinka”): vocazione letteraria (in senso lato) simile, voce asciutta e un cantato lineare, declamatorio, e più grunge, meno virtuosismo.

La parte veramente interessante del disco è comunque, e fuor di dubbio, quella relativa alle liriche e alle ambientazioni dei brani, che “sanno soprattutto di terra, di legno e di cielo”. I testi sono eccezionali, in senso letterale: eccezioni rispetto alla regola del Rock nostrano che spesso, liricamente, è banale e goffo. Qui invece le parole di Sandro Campani disegnano acquerelli complessi e affascinanti, in cui s’intravede la sua abilità di narratore (desunta, ovviamente: non mi è – ancora – capitato di leggere nulla della sua produzione letteraria). Dalle canzoni più brevi – penso alla title track – che colpiscono come colpi di fucile, lasciando schizzi di sangue da interpretare come auspici, nascosti tra le pause e i tempi dilatati (Di pomeriggio, dopo le tre / Esci da casa sua, e piove. / C’è quell’odore di polvere. / C’era una frase, non sai dov’è. // Gli hai detto: «Grazie.» – «Non c’è di che.» / La pioggia batte la cenere. / C’era una gioia che ora non c’è / quel pomeriggio, dopo le tre. // La pioggia lava le lettere / non è leggero da leggere), fino a brani liricamente più densi, visionari, che passano da forme animali e gesti quotidiani ad aperture liberatorie, di una poesia minimale (“Canzone del Cigno”: E dopo, dopo lei si è alzata con le mani impolverate, piene di polvere nera, sollevando le braccia vuote verso il cielo vuoto, mentre usciva a camminare attraverso strade distrutte; “S’Arrampicavano”: uno sciupìo, una fotta di fiorire, che sembra urlare di quelle accoglienze da segnare in calendario, le manie di far per forza effetto, e io pensando a questo, io, lo so, ci provo a esser contento, fosse in me ci riuscirei.).

Tre è insomma un disco che vi consiglio, non fosse altro per le storie che sa raccontare, fatte di sentimenti, angosce, crudeltà, limpidezze. La musica le accompagna, ancella e amante, con oculatezza e parsimonia. Un disco con cui farsi male, piacevolmente. In cuffia, una sera di pioggia, da soli.

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15 Minutes of Shame – Scrambled Eggs

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La band prova a splendere di luce propria con la seconda prova da studio dopo l’omonimo album di esordio.
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Psycho Killer – Dead City Life

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Del buon sano rock! Ecco, proprio questo ho pensato mentre ascoltavo Dead City Life, il primo album dei torinesi Psycho Killer. Gli Psycho Killer sono Enrico (voce, chitarra), Riccardo (basso, cori), Alessio (Batteria, voce) e  anche se si sono formati relativamente da poco (primi mesi del 2013), i tre componenti si conoscono bene poiché hanno fatto tutti parte degli ormai sciolti Hollywood Noise, band che ha infuocato le notti del capoluogo piemontese e che si è fatta conoscere al grande pubblico grazie all’apparizione televisiva su Rock Tv e ai loro due album More than your Mouth Can Swallow (2010) e More than your Mouth Can Swallow II (2012). Il loro è uno stile ispirato principalmente alla scena Hard Rock americana sviluppatasi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, caratterizzata da chitarre costantemente distorte e ruvide supportate da una linea ritmica basso-batteria decisa e martellante.

Come già detto, i tre componenti  arrivano  da esperienze precedenti a questa e il loro affiatamento nell’esecuzione dei brani è evidente in ogni singolo passaggio, l’intensità e l’energia che ne viene fuori rientra nella più tipica tradizione del Rock di concedersi al massimo, fino all’ultima goccia di sudore. Questa loro invidiabile genuinità Rock è altresì un difetto che mina tutte le tracce dell’album a livello compositivo. Non c’è nessuna canzone che spicchi per originalità o per completezza, si limitano tutte a rispettare i canoni stilistici del genere e non c’è nessun elemento che li identifichi o che li differenzi dall’immensa schiera di band simili presenti in tutto il pianeta. Sembra  un’operazione  di emulazione delle band di quel glorioso periodo e nulla di più. Non è un caso che tutto l’album sia cantato in inglese, che non deve essere per forza un elemento screditante, ma è piuttosto l’interpretazione delle canzoni che risulta  troppo impostata nella voce alla ricerca di uno slang forzato per nulla naturale.

Dead City Life è un buon esordio e promette per il futuro, e poi non sono certo io quello che deve consigliare di insistere, c’è un gruppo abbastanza famoso  che dice appunto it’s a long way to the top… giusto?

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Il Terzo Istante – Rapporto allo Specchio

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La Special Edition dell’ultimo degli Afterhours costa 14,90€? Quella cartonata dei Pumpkins è in sottocosto a 29,90€? Ma siamo seri? Caro il mio cliente, a lei non va mai bene niente! No, buon commerciante, avete solo ottima merce! Il problema non lo creo io, ma al momento avrei da placare il portafogli che continua a fare a pugni con la mia mania di collezionismo. È confuso e non fa che chiedersi se qui si vendano dischi o biglietti per i live. Sai cosa? Stavolta torno a casa a mani nude, ma con le tasche ancora gonfie. Lo so, è uno scenario inverosimile, ma raccontato in prima persona rende molto più l’idea. Risulta, tra l’altro, essere lo scenario perfetto in cui andare ad incastrare i tre torinesi di cui vi sto per dire. Si fanno chiamare Il Terzo Istante e amano raccontarsi così: “Il terzo istante è la fase del processo creativo più libera. È l’esplosione, il cambio di prospettiva, l’estasi. È il momento in cui un’intera generazione prende consapevolezza. Tre, il numero perfetto”.

La band nasce alla fine di novembre del 2011 ed intavola sin da subito una politica di totale flessibilità. Rompendo gli schemi tradizionali, elimina l’idea di produrre un disco in formato album, abbracciando invece quella di pubblicare una serie di EP, trovando l’apice della suddetta flessibilità nella politica dell’ “offerta libera” tanto per l’acquisto degli EP quanto per l’ingresso ai live. Rapporto allo Specchio è il terzo lavoro, papà di Forselandia e nonno di Come ti Senti?. La tracklist si articola in quattro capitoli di contenuto Alternative Rock, dei quali il secondo dà il titolo all’opera. Il sound presenta un’incredibile eterogeneità passando di traccia in traccia (com’è giusto che accada per un EP), tuttavia eccessiva al punto che sembra quasi di leggere differenti capitoli di differenti libri (il che non è propriamente un punto a favore). L’approccio aggressivo di “Sto dai Miei” si compensa un attimo dopo con la pacatissima “Rapporto allo Specchio” (che istantaneamente porta il mio pensiero al sound de Il Disordine delle Cose), per poi tornare a far capolino nel capitolo successivo e quindi attenuarsi nuovamente nei titoli di coda. Di contro, la poetica si mantiene costante, adottando uno stile Stato Sociale: ambigua e criptica, pur restando non artificiale. In particolare, “Rapporto allo Specchio” presenta quell’ambiguità standard dei testi dei Mistonocivo, raccontando di un uomo ed il suo rapporto con la masturbazione, spacciandolo per incontro erotico, mentre “Sto dai Miei” lascia intendere la fine di una storia (?) più meno nel modo in cui la lasciano intendere gli Agosta in “Niente”.

In definitiva, ciò che viene fuori da questo terzo EP è un lavoro cui è difficile star dietro. La completa comprensione dei testi necessita di ripetuti ascolti, assolutamente non semplici da realizzare, a causa di una melodia piuttosto precaria e della già citata assenza di omogeneità. Un lavoro senza dubbio impegnato, ma che non riesce a focalizzarsi su obiettivo alcuno. Tra interessantissimi episodi (“Sto dai Miei”, in cui si cita sottilmente Rino Gaetano con un “altro che Gianna col tartufo, tu sei di gran lunga più banale”) ed altri noiosamente commerciali (“Cosmesi”), viene a generarsi confusione di giudizio e di idee, lasciando l’ascoltatore deluso, incerto ed insoddisfatto. Peccato, i presupposti erano ottimi. D’altra parte gli stessi artisti preferiscono dir del loro disco come di un qualcosa di effimero, di fine a sé stesso, di appagante sì, ma solo per l’autore. Personalmente, non mi accontento di quattro tracce e di una palese mancanza di messaggio ed attendo il prossimo EP, perché a dirla tutta gli Il Terzo Istante un colpo a segno l’han tirato: hanno centrato in pieno la mia curiosità.

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MasCara – LUPI

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La prima cosa da dire di questo LUPI by MasCara sono belle parole relativamente all’artwork. Pulito, classy, semplice ed efficacissimo. Sorvoliamo giusto su qualche errore nella composizione interna, dove i testi di alcuni pezzi vengono scambiati di posto, e dove un paio di refusi disturbano la lettura delle liriche. Passiamo poi alle liriche, o meglio, per l’appunto, alla lettura delle stesse. C’è un gusto narrativo palpabile nelle dodici tracce del disco: la storia scorre fluida, e già dai titoli le visioni urbane quasi oniriche (“Macchine da Guerra”, “Cattedrali al Neon”, “Graffiti”, “Barricate”, “Gocce di Benzina”) si mischiano a tonalità più primitive e leggendarie (“Dei per Sempre”, “Isaac” – che echeggia vibrazioni bibliche -, “Falsa Età dell’Oro”, “Riti Ancestrali”), dandoci l’idea di un’epica distopica dalle sfumature varie e dai sapori intensi. All’ascolto i MasCara sorprendono per la fluidità e lo spessore della pasta sonora (aiutati al mix anche da un nome di punta quale Tommaso Colliva): chitarre, synth, bassi e batterie si fondono in soundscape estremamente riusciti ed affascinanti. Si rischia giusto qua e là un effetto già sentito (qualcosa alla Coldplay, qualcosa alla Ministri, per citare giusto le apparenze più facilmente intercettabili), ma è il rischio di andarsi ad infilare in questo tipo di proposta musicale.

La pecca maggiore di LUPI, a parer mio, sta però nella voce, e non tanto nel timbro o nelle capacità vocali di Lucantonio Fusaro, ma nella metrica, sghemba e scalena, claudicante. I testi vengono snocciolati sui brani in modi spesso storti, disequilibrati, qualche (rara) volta con risultati imbarazzanti, più spesso semplicemente facendo apparire i testi disorganici rispetto alle musiche, ai ritmi, alle fasi del pezzo. Questo non toglie certo al disco i suoi meriti, ma ne penalizza l’ascolto – o almeno così è accaduto al sottoscritto. Concludendo, LUPI è un disco maturo, di una band interessante, narrativamente e musicalmente. Per raggiungere le vette mi sento di consigliare una personalizzazione maggiore della proposta sonora e una cura dei testi che riesca a coniugare linea melodica e cuore pulsante delle canzoni senza affossare né l’una né l’altro. Ascolto consigliato in attesa di prove future, si spera più decisive.

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Dropeners – In the Middle

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Lo ammetto, sono partito con il piede sbagliato. Lo ammetto, mi aspettavo altro. Lo ammetto, sono senza parole. Lo ammetto: i Dropeners hanno letteralmente vinto!

I Dropeners nascono nel lontano 2008 e, dopo aver accumulato un incredibile quantitativo di esperienze (soprattutto estere), tirano fuori il lavoro di cui sto per dire: In the Middle. Il disco d’esordio si fa vivo nel 2009, sotto il titolo di Drops of Memories e fra questo ed il capitolo oggetto di discussione, s’intermezza un EP risalente a ben quattro anni fa: Silent Sound (EP). Si sono fatti parecchio attendere a quanto pare, ma il motivo lo scoviamo in breve ed è nascosto dietro ognuna delle dieci tracce che formano il loro secondo disco. Il sound, complice dell’inglese adottato in ogni parte del lavoro, lascia fraintendere l’interlocutore medio e fa sì che si attribuiscano i meriti dell’opera ad esperte menti anglosassoni. Ma qui siamo innanzi a tutta roba made in Italy: vengono da Ferrara, sono autoprodotti e non hanno nulla da invidiare al meglio delle band internazionali. You won’t get a second chance to make an extraordinary firts impression, diceva qualcuno e i Dropeners dimostrano di saperlo bene, curando l’aspetto di In the Middle in ogni minimo particolare. Il packaging è leggerissimo, minimale ma efficace (ammetto anche questo: ho un debole per il packaging). La copertina lascia intendere un egregio lavoro introspettivo, confermato ottimamente dal contenuto del disco, attraverso una musica penetrante, grazie ad un New Wave ben articolato ed a sonorità molto lente e buie. Lo confermano i Dropeners stessi in “Western Dream”, che fa da titoli di coda al film surreale che i registi ci propongono: in the middle of western dream, there’s a light that comes from the east, recitano per tutta la durata della traccia. Il theremin in questo capitolo gioca un ruolo essenziale, evidentemente. Penetrante. Ossessivo. Possessivo. Ipnotnico.

All’interno di questo straordinario lavoro troviamo spunti di verde invidia per il migliore Dave Gahan, quello che si cimentò nell’incredibile opera di “Saw Something”. È come se i Dropeners avessero preso spunto da questa singola traccia, depurandola dall’eccessiva vena elettronica per poi ampliarla, estenderla e costruirci su un intero album. Ma non è tutto. Lo spazio artistico toccato è incredibilmente vasto: si sfiorano le corde dei Coldplay in “Lead Your Light”, appesantendole con i migliori Radiohead di OK Computer. Nel secondo capitolo (“You Don’t Know”) è possibile persino scovare un nonsoché di Gothic, di scuro, che lascia sovvenire alla mente vecchi ricordi di HIM e The Rasmus, light version. Ma i Dropeners non amano paragoni e non vogliono di certo essere la copia di mille riassunti e, nonostante riportino in vita questa scia di fine anni Ottanta, sanno bene come rinnovarla. Sfruttando, infatti, la propria conoscenza musicale e strumentale, si trasformano in polistrumentisti, riscoprendo in un’ottica del tutto nuova il sound sopra citato. Così, la voce e chitarra Vasilis Tsavdardis si cimenta in eccezionali imprese al synth e la chitarra di Francesco Mari sperimenta trombe e theremin (che gioca il ruolo di psicanalista nell’analisi introspettiva condotta dal disco), accompagnando perfettamente il basso di Enrico Scavo e le batterie di Francesco Corso. L’armonia è inevitabile, essendo che lo strumentale poggia direttamente sulla melodica voce di Tsavdardis, lunga, bassa e sempre in perfetto tono, accompagnandola lungo la stesura di ogni capitolo. Insomma dieci tracce di puro intelletto ed organicità, con tanto di ghost track, come non se ne vedevano da un bel po’. Potremmo andare avanti per ore, il disco fa parlare di sé come fosse parte di noi stessi. Penetra letteralmente nel più profondo dell’inconscio e ci lubrifica l’animo. È un lavoro che vale l’attesa, tutta. Signori, siamo innanzi ad un ottimo allievo. Stimolarlo a far di meglio potrebbe essere controproducente. Conosce i suoi obiettivi, sa chi è e sa dove vuole arrivare: nell’io di ognuno di noi. Nel mio ci ha messo le radici e nel vostro?

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Sonic Daze – First Coming

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Massimiliano Demata, Vittoriano Ameruoso, Serena Curatelli e Giuseppe Santorsola sono i Sonic Daze che esordiscono a fine 2013 con il loro Ep First Coming. Pugliesi e passionali i Sonic Daze ci presentano un lavoro prima di tutto con una copertina niente male disegnata da Shawn Dickinson e soprattutto formato da sei tracce che spaziano senza alcun dubbio tra un Rock’n’Roll molto esplicito e un Punk veloce, e a volte divertente che fa immaginare gavettoni e guerre di cuscini. Tutto questo si scorge fin dalle prime note di “Hear Me Calling” quel tanto orecchiabile da rimanere impressa senza però risultare banale. “When the Sun” incarna perfettamente quello che dicevo prima, l’aria d’estate che tarda ad arrivare ma quando arriva lo fa in modo violento e goliardico tra viaggi on the road, finestrini abbassati e musica a tutto volume magari proprio quella di First Coming. “Amorality” invece ha sonorità più dure rispetto per esempio a “So Many Colours” che con il primo arpeggio ci catapulta sulle spiagge assolate degli anni 60-70 e quel sapore molto British che in questo caso non guasta proprio. “Get out of the Way” chiude questo Ep in maniera consona anche se non è proprio la parola più appropriata.

Insomma, First Coming può risultare una sorpresa per gli amanti del genere e non solo per le sonorità molto naturali di un genere che alcune volte stona ma che questa volta nuota nelle atmosfere del Rock prendendone gli aspetti più ritmici. Tutto suonato con una tecnica molto buona e una precisione ritmica assolutamente da notare. Da sottolineare la registrazione in maniera assolutamente analogica senza l’uso del computer che rende il suono meno piatto e più presente. Insomma le influenze del gruppo sono anche molto chiare Beach Boys, Beatles, Sex Pistols, Ramones. Influenze chiare e non copiate. Infatti i Sonic Daze ci mettono del loro con audacia e senza paura dimostrando perché no professionalità e soprattutto profonda conoscenza del genere e della propria passione. Un esordio da ascoltare assolutamente, magari a tutto volume, e da portare in valigia!

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Sique & Petrol – Suono Fantasma

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L’Italia pare terreno fertile per l’esplosione di piccole mode spesso destinate a sciogliersi sotto i primi raggi di sole. Questi ultimi tempi, la tendenza che sembra dare maggiori garanzie di successo è il duo Indietronic uomo/donna ed è proprio questa la formula proposta da Sique & Petrol, compagine bresciana composta da Silvia Dallera (SiQue) e Alessandro Pedretti (Petrol) forse ai più fanatici noto per le esperienze con EttoreGiuradei e Colin Edwin dei Porcupine Tree. Dietro la fumosa definizione Indietronic si cela una miriade di mondi sommersi e, anche in questo caso, bisogna scavare oltre a questa densa e spessa nebbia per comprendere cosa sia questo Suono Fantasma. Una commistione di sonorità che vanno dall’Ambient e il Dream Pop di stampo quasi nordeuropeo fino al più classico Alternative Rock passando per l’Elettronica e il Trip-Hop.

Bellissimo il viaggio sonico che s’intraprende negli undici minuti di psichedelia liquida di “Ocean Sky & Moon” (suonata quasi in stile primi Piano Magic), con un basso essenziale e prepotentemente assillante che, quasi richiama alla mente certi Pink Floyd mentre la voce di SiQue alterna fasi soffici ad altre più corrosive, inseguendo il ricordo della straordinaria Elizabeth Fraser (Cocteau Twins) sia nella timbrica sia nell’indole. E proprio lo stile di SiQue, capace di passare agevolmente dal singing più standard e Pop al più ricercato virtuosismo stilistico è una delle armi di questo Suono Fantasma che si avvale anche di un discreto lavoro di ricerca dei suoni, glitch Elettronici che sorvolano lidi di sperimentazione senza mai atterrare ma viaggiando dritti verso piste apparentemente più sicure. Un album che in taluni momenti (“Ocean Sky & Moon” e “Light Tendtrills) affascina sfiorando, se non la perfezione, certo un livello ragguardevole sia per esecuzione, tecnica e composizione sia per intensità emotiva e capacità di trascinare, ma che, nel complesso, non riesce a stupire veramente, né a trovare melodie che lascino il segno; l’indifferenza che resta alla fine dei diversi ascolti è il giudizio più schietto e sincero che si possa dare.

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Two Fates – /tree

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Chi crede che il Fato abbia a che fare con l’essere sottoposti a volontà ignote che appaiono casuali  quando in realtà non lo sono, ma guidano il susseguirsi degli eventi secondo un ordine non modificabile, sarà d’accordo con me che probabilmente non è un caso nemmeno il fatto che il destino dei Two Fates, duo elettro-acustico composto da Loredana Di Giovanni (LorElle) e Giuliano Torelli (Tiresia), li abbia portati a percorrere insieme la strada della musica. Probabilmente non credono nemmeno loro alla casualità dell’evento, vista la scelta del nome del gruppo. Il loro primo EP porta il titolo di /tree, un albero che affonda le radici nella terra della conoscenza e nell’esperienza in ambito musicale, ma che ha le fronde e lo sguardo rivolti verso un cielo ed un futuro ricco di sperimentazioni. Più che di un albero, si tratta di una foresta di suoni, capace di evocare le atmosfere magiche e surreali che ruotano attorno al mondo della Natura. Tecnicamente, il segreto di questa moltitudine sonora, sta nell’utilizzo della Two Fates’ Machine, una “macchina” assemblata dallo stesso duo, che senza l’utilizzo di basi precostituite, permette di registrare al momento stesso dell’esecuzione le varie parti che compongono i brani e di assemblarle in tempo reale. È chiaro quindi che l’ascolto di /tree possa assumere ancora più valore durante le esibizioni live.

L’evocazione al mondo della natura e all’alone di mistero che l’avvolge è chiara già dalle prime tracce del disco, “Blu” e “Verde”; la prima, del colore del cielo, si eleva sempre più in alto verso una serie di inquietudini in un crescendo sia di tonalità che di suoni che si vanno aggiungendo man mano; la seconda invece si lascia trasportate principalmente dalla voce di LorElle e si compone di suoni che richiamano atmosfere decisamente più calme. Con “My Story Is not My Destiny” subentra la lingua inglese; la protagonista è ancora la voce di LorElle che traccia la melodia sulla quale si articolano i suoni elettronici caratteristici del duo. “Il Sogno, l’Addio” è il brano che meglio esprime le caratteristiche principali dei Two Fates, dal richiamo a dimensioni surreali, alla predominanza dell’Elettronica, alla realizzazione di testi di un forte impatto emotivo, (che in altri pezzi perdono però di intensità), alla forte presenza vocale della cantante. “It’s the Rain”, secondo brano in inglese è ancora una chiara evocazione alla Natura, che avviene stavolta in modo palese introducendo suoni come quello della pioggia al quale si intrecciano le sonorità elettroniche caratterizzanti il duo. “Sangue”, il brano a chiusura del disco, si differenzia dal resto con l’introduzione di un ritmo “spagnoleggiante” portato avanti da chitarre acustiche.

Se di esordio vogliamo parlare (anche se questo è il loro primo EP, il duo è impegnato da anni nel mondo della musica, durante i quali ha privilegiato maggiormente le esibizioni live) quello dei Two Fates è sicuramente degno di nota. Un buon inizio che inizio non è, vista l’esperienza di entrambi i componenti. Comunque sia andata, mi voglio fidare del proverbio che dice chi ben comincia è a metà dell’opera. Per la seconda metà dell’opera, non possiamo far altro che aspettare il loro prossimo lavoro.

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Babbutzi Orkestar – Vodka, Polka & Vina

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Dopo il debut album Babbutzi Orkestar (2009) e Baro Shero (2011), oggi presentiamo sulle pagine di Rockambula Vodka, Polka & Vina (2014), nuova fatica discografica per la Babbutzi Orkestar, folta ed irrequieta compagine nostrana composta da Gabriele Roccato (voce), Ivan Lo Giusto (basso elettrico), Ivan Padovani (tromba), Massimo Piredda (tromba), Luca Butturini (chitarra/ mandolino/bouzouki), Mariella Sanvito (violino), Daniele Di Marco (fisarmonica/tastiera/ sintetizzatore) e Fabio Buono (batteria). L’ensemble in questione ama presentarsi come fautrice di una Balkan Sexy Music, sulla scia di Bratsch, Acquaragia Drom, Goran Bregovic e Kusturica; definizione piuttosto azzeccata, dal momento che le sonorità proposte spaziano agevolmente dal classico sound Balcanico al Punk, passando per il Folk, la Patchanka e le radici più intransigenti della Surf Music. Un viaggio alcolico dalle maleodoranti cantine serbe agli affollati mercati d’Israele, dalle maestose profondità del mar baltico alle languide terre orientali, dove ammalianti gitane agitano le proprie forme tra carovane in perenne ricerca di staticità, rischiarate da luci e colori che solo una dimora errante può offrire. Rispetto ai precedenti lavori, Vodka, Polka & Vina (prodotto dallo sperimentato Antonio Polidoro con l’ausilio di strumentazione rigorosamente vintage) segna tuttavia un indiscutibile cambio di rotta, privilegiando sonorità maggiormente orientate verso Surf, Punk Rock ed Elettronica (particolarmente evidente nelle partiture di synth), pur rimanendo saldamente ancorato a classici elementi d’ispirazione balcanica: passioni infinite, quasi al limite della più estrema follia, febbricitanti visioni autodistruttive e blasfema contemplazione della figura femminile (vedi “The Song of Arrapath”, ad esempio). Un album architettonicamente “live”, energico e possente come le vorticose performance del collettivo; un appassionante progetto concepito sulla polvere del palcoscenico, consacrato dal sudore della fronte e dall’indissolubile rapporto con un pubblico licenzioso ed esigente. Da segnalare la geniale rivisitazione dell’italico evergreen “Buonasera Signorina” (Fred Buscaglione, 1958).

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culiduri – Ci Hanno Rubato il Disagio

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Una band dal nome altamente discutibile. Nasce a Padova il trio culiduri, dall’incontro fra Il Signorino, Il Disagio e Il Conte (così si fanno chiamare). Una formazione inconsueta: basso, voce e batteria. Una musica di cui dirò nelle prossime righe. Ci Hanno Rubato il Disagio è un EP che in circa dieci minuti riesce ad esibire una tracklist di ben cinque capitoli, il che conduce, attraverso un banale calcolo, a stimare una durata media dei brani pari a due minuti. Tuttavia, abbiamo un outlier: “Il Germe si Lamenta del Mondo”, traccia numero quattro, che vanta ben 2’34’’ di impegno. Ma noi, attenti e crudeli recensori, non badiamo a queste cose ed in presenza di scarsa quantità puntiamo dritti alla qualità dell’opera. Premessa: la musica Post Punk mi garba; la musica Post Hardcore mi garba ancor più. Ma veniamo a noi… L’extended play realizzato dai ragazzi padovani propone un titolo altamente interessante ed una copertina hardcore al punto giusto. Tutto sembra iniziare per il meglio e mi fiondo sulla traccia numero uno: “Tonietta”. Non mi è ben chiaro se si tratti di una blasfemia celata o di una sofisticata critica alla di certo più nota Maria Antonietta, ma in entrambi i casi i tre ragazzi padovani hanno scelto un’apertura che lascia alquanto spiazzati. Non che io mi scandalizzi innanzi a tali situazioni (no di certo!), ma il ripetere instancabilmente la stessa frase funziona solo se la frase stessa funziona. Mi spiego meglio: sai che c’è? Ti dico una bugia! Se fai la spia sei figlio di Maria (Tonietta) è un esempio lampante di frase che non funziona. Vero, la storia della ripetitività è classica del genere (e di questo i ragazzi abusano un po’ in tutto l’EP), ma vorrei che in testa mi entrasse un messaggio e non una frase da cui estrarre qualcosa di utile proprio non mi riesce. Ma noi non siamo mica così superficiali! Andiamo avanti e ci concentriamo sul resto del testo e dello strumentale, che riporta i nostri ricordi ai tempi in cui, nel garage di Peppe, io mi mettevo alla batteria, lui alla chitarra ed improvvisavamo pezzi stonati fino all’arrivo delle luci blu. Se è vero che non ci è concessa una seconda possibilità di fare una straordinaria prima impressione, è pur vero che non ho pregiudizi e passo al brano numero due: “Super Perfetto”. Questo sembra un brano seriamente funzionante! Autocritica alternata fra canto e parlato che ci dona una gran bella carica e ci gasa al punto giusto per dire “Ok! Mi ero sbagliato! ‘sti culiduri sanno quel che fanno!”. Nei limiti artistici imposti dal genere, la suddetta traccia è senza dubbio uno sfogo interessante e degno di pogo. Un capitolo messo lì per far saltare la gente e divertire…e ci riesce bene! Anche il testo sa il fatto suo: critico, interessante, si fa ben seguire. Bella, la prossima me la sento buona. Tuttavia, “Finestre” è un pezzo che definirei ambiguo. Sono a quota cinque ascolti e non riesco ancora a capire se è un buon pezzo o se segue la scia di “Tonietta”. Ma non voglio credere che la precedente traccia sia un caso isolato, così mi concentro e scopro un giro di basso di notevole spessore. Isolo la voce e ritorno per un attimo indietro negli anni, alla ricerca di una band che mi ricordi tale sound, ma il ritornello incalza, mi distrae e mi spiazza. Il basso si adagia su una distorsione eccessiva, la cassa fa vento e crolla il mio castello di carte. Per un attimo avevo pensato ai Tre Allegri Ragazzi Morti. Peccato. Chiudiamo un occhio e dedichiamoci al precedentemente definito outlier. Ora definibile delusione. L’apertura incuriosisce e, una volta accettata l’idea che i testi siano messi lì tanto per riempire spazio, si riesce a percepire uno strumentale ben pensato crescere lentamente e donare ottime aspettative all’ascoltatore. Il basso, incredibilmente lavorato, si articola in un giro perfettamente orecchiabile, accompagnato da una batteria tutt’altro che prepotente. Ops, è saltato il disco e adesso graffia di brutto. Ah no, è solo il ritornello. Ultima chance per i ragazzotti in questione. Bruciata. La quinta ed ultima traccia spegne ogni possibile speranza, riproponendo un testo noioso e ripetitivo ed un sound che in nessun frame cattura la mia attenzione.

Via le cuffie, è ora di tirare le somme. Disse J-Ax che il rap è come il porno: ci nasci. Io non voglio essere così drastico e dico che il genere oggetto di analisi sia un genere arrivabile; pertanto scartiamo la possibilità che il problema dei culiduri sia il genere. L’assenza di chitarra è certamente una trovata interessante, che non di certo condanna, anzi, genera un buon numero di apprezzamenti. La voce calza perfettamente su un sound così crudo come quello generato da un basso portante. Il problema allora dove sta? Beh, il problema sta nel fatto che a me ‘sti tre ragazzi hanno trasmesso voglia di far casino e non voglia di far musica. E se è vero che il Punk è anche far casino, è pur vero che la musica è anche il trasmettere un messaggio. Isolare i testi infantili alla ricerca di note positive è stato quasi snervante. Le note ricercate le ho trovate, ma sulla bilancia pesano poco più della copertina e del titolo dell’EP. Si consigliano maggiore impegno nel realizzare omogeneità all’interno delle singole canzoni e più attenzione per i testi; si consiglia, inoltre, di lavorare sulla totalità della traccia e non di limitarsi ad un’intro funzionante. E se in giro si vanta la rapidità con cui è stata tirata fuori “Tonietta” (soli due giorni, dicono), io questa rapidità la percepisco nella sua accezione negativa. Han citofonato! Lascio un biglietto sul tavolo e vado via: “Ritenta, sarai più fortunato”.

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