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Caravita – Come sempre
Un disco coraggioso di cantautorato old style in un mondo di itpopper.
Continue ReadingPlastic Light Factory – Hype
Freschezza, sfrontatezza e gioventù sono le tre parole magiche che vengono subito in mente ascoltando Hype, l’EP d’esordio del trio mantovano Plastic Light Factory. Cinque brani completamente autoprodotti che propongono un sound brioso e leggero, fortemente ispirato e influenzato dall’Indie Rock britannico. I riferimenti principali nello stile e nel mood sono gruppi come Franz Ferdinand, Artic Monkeys e Rooney. Tecnicamente il trio dimostra di padroneggiare bene materia e genere riuscendo a mantenere in tutti i pezzi la qualità alta e il ritmo sostenuto, tanto da pensare di trovarsi davanti a un gruppo straniero e non italiano. Se da un lato però i Plastic Ligh Factory ci portano in pista con le loro ritmiche pulsanti e ci solleticano il palato con i suoni effettati e la cassa dritta, dall’altro non provano mai a distaccarsi dal territorio prescelto e fare qualche passo più imprudente e sperimentale. In generale all’EP Hype non manca davvero nulla, e si può benissimo considerare un lavoro ben fatto e molto piacevole da ascoltare: le melodie sono accattivanti, la cassa fa battere il piede e i riff ti travolgono velocemente. Speriamo che le buone premesse e le capacità dimostrate in questo esordio possano solo essere la base sulla quale costruire un futuro sfacciato e personale.
Slowmother – EP [STREAMING]
Slowmother è una band di Milano attiva dal 2012 composta da Alessio (chitarra e voce) e Grace (Batteria,cori). Slowmother è l’incontro , il bivio e la ricongiunzione di due menti riunitesi per volere della teoria del caso, dopo 10 anni. Slowmother unisce le radici blues e garage/rock n roll al sound electro anni 80… Sonorità infinite e definite come un trip chemical da assaporare in tutte le sue sfumature. “Tutto ciò che è squisito matura lentamente“. Slowmother – EP (autoproduzione, 15.10.2015). Registrato presso Reclab Studio. Mixato da Larsen Premoli. Basso registrato da Roberto Paladino. Tracklist: 1. Liar 2. Lipstick 3. Outlaw 4. My Grave.
Le Capre a Sonagli – Il Fauno
Tornano i curiosissimi Le Capre a Sonagli e lo fanno con Il Fauno, un disco che è un’unica allucinata e lunga (ma neanche tanto) canzone psicotropa. Quattro suite che sono anche colonna sonora di un mediometraggio animato ma che a me suonano tantissimo come soundtrack di un videogame indie, folle e vorticoso, da smanettoni con le occhiaie. Ci troviamo all’incrocio tra un Rock dalle sonorità acustiche e svisate Blues, tanta passione per stilemi Folk e Country e uno spirito avventuroso e sconfinante molto anni ’90, tra il Desert Rock più immaginifico e certo sperimentalismo ibrido che non guarda in faccia a niente e nessuno. Diciamo insomma che il gusto di questo disco sta proprio lì, nel farsi portale per un viaggio psiconautico dove inseguire il protagonista Joe Koala nel suo andirivieni tra i mondi magici e ultraterreni della sua personale odissea. I brani, proprio perché pensati come parti di suite, sono brevi, secchi (il più lungo conta poco più di tre minuti): sviluppano una singola, circoscritta idea, spesso geniale: il riff di “Celtic”, l’ondeggiare ubriaco e molesto di “Demonietto nell’Organetto” (capolavoro) con quel fischio spettacolare che mi ricorda tanto “My Patch” di Jim Noir, il pestare semi-acustico con echi di Korn – giuro – di “Serpente nello Stivale”, il Brit Pop stile Blur di “Nonno Tom”, il valzer retrò di “Bobby Solo”… potrei andare avanti all’infinito, tanti sono i rimandi e i cristalli nucleari che si nascondono in questi brani-caramella. Ecco, forse l’unica macchia de Il Fauno è il concentrarsi maggiormente sul modulo, sull’elemento, sulla rifinitura (estrema) del dettaglio in quanto parte di un tutto, abbandonando, nei singoli pezzi, la costruzione architettonica, l’approfondimento. Insomma, diorami che rasentano la perfezione, ma non monumenti. Rischio accettabile, comunque, nella costruzione di un concept così strutturato, in cui per forza di cose la parte è in debito col tutto. Un disco del genere, in ogni caso, oggi serve, e moltissimo, perché ci ricorda che la musica è magma e può andare ovunque, è tappeto volante e polvere magica e ci può portare fin dove possiamo immaginare di arrivare. Quando sento gruppi da quattro accordi in quattro quarti o cantastorie da arpeggio sempre uguale mi viene da pensare a Le Capre a Sonagli e alla distanza siderale tra il loro immaginario (ricco, infinito, sempre nuovo, libero, strafottente) e la povertà di certe idee riciclabili. Lunga vita a Il Fauno.
Cadori – Cadori
Sono poche le volte che riesco ad emozionarmi con la musica, o meglio, ultimamente le cose sono andate in netto peggioramento. Mancanza di stimoli, produzioni mega pompate ma che in realtà non sono altro che scarni provini, una brutta copia di quello che poteva essere il cantautorato di una volta. Poi ascolto l’omonimo disco di Cadori e quasi piango, un misto sensazionale d’amore a calibrazione lo-fi. Perché fare il cantautore negli anni dieci è maledettamente difficile, la cattiveria liquida violentemente la passione, e senza cuore difficilmente si scrivono belle canzoni. Giacomo Giunchedi in arte Cadori dimostra di avere un cuore enorme dal quale farsi ispirare per la composizione dei propri brani. In “Cauntri #” respiro subito l’odore della classe, di un disco che fin dalle prime note emana aria fresca ma soprattutto pulita. E chi non ha bisogno di respirare aria pulita? Di aprire le finestre e godersi la naturalezza della vita? Sentori di anni settanta nella successiva “Fuori Cadono Fulmini”, almeno mi sembra di percepire ciò dai riff che accompagnano una sussurrata voce. Vorrei dedicare ad ogni donna amata parte del testo:”Tu invece sei diversa, perché non cadi mai”. Il disco d’esordio di Cadori è senza ombra di dubbio un lavoro grigio nell’animo, un rivolgersi dolcemente ad una lei, la tristezza è capace di regalare forti sensazioni quando si parla d’amore. Ed io percepisco tanto amore in questo lavoro nonostante lievi sperimentazioni elettroniche che non hanno alcun ruolo se non di attualizzare l’opera (“La Brutta Musica”). E non condivido troppo questa scelta, avrei seguito una linea più cantautorale classica, con meno fronzoli strumentali e più sentimento. Cadori prosegue il resto del disco con la stessa naturalezza compositiva dei primi pezzi, un concept che sembra seguire una linea definita tra gli spazi delle sensazioni. Il finale è nelle mani della bellissima “Le Cose”, poco da dire, viene quasi voglia di urlare, di spaccarsi lo stomaco, di essere liberi di amare incondizionatamente. In fondo le condizioni sono soltanto delle regole fatte per essere violate. L’omonimo esordio di Cadori è semplice, attuale nella sua freschezza, inizio già ad amare quest’uomo e la musica che rappresenta. Nel genere è tra le migliori uscite dell’anno.
The Dust – Remembrance
Dopo vari cambiamenti nella formazione i The Dust hanno finalmente trovato la loro giusta dimensione assemblandosi come un trio costituito da Roberto Grillo (Ego) alla voce, Michele Pin alle chitarre e Luca Somera alla batteria e alle percussioni. A quasi vent’anni dalla costituzione il gruppo dà alle stampe Remembrance, disco dalle sonorità mature che consta di ben undici brani in scaletta. Si parte con le atmosfere orientali della titletrack per arrivare poi a “Inside Out”, il cui unico peccato è forse di durare eccessivamente (6:30 sono effettivamente troppi, non essendo i The Dust un gruppo propriamente Progressive, nonostante si definiscano anche tali ed influenzati dai King Crimson di Robert Fripp che proprio quest’anno sono tornati in attività, seppur solo per un breve tour americano). La musica del trio attraversa vari generi spingendosi dal Pop Rock al Glame al Blues passando per l’Hard Rock e la Psichedelia pura. Difficile infatti stabilire i confini di brani quali “Scarlet” o “A Little Bit of Savoir Faire”, nonostante in quest’ultima ci sia qualcosa dei Queen di Freddie Mercury (sempre meglio specificare perché, con i cantanti che si sono succeduti al grande ed indimenticato frontman, lo spirito e l’anima dello storico gruppo sono cambiati radicalmente). Non potevano quindi mancare virtuosismi chitarristici nella strumentale “The Dreamspeaker” e i fischiettii di “You And me” in cui sono graditi ospiti Giulia Somera al basso, Elena Zanette, Enrico Sanson, Elia Celotto e Alberto Petterle agli archi e Alberto Stefanon coadiuvato dalla già citata Elena Zanette ai cori. “Detune Promenade” fa da interludio strumentale al Rock sinfonico di ”Are You Gonna Getit” (chissà perché intitolata senza punto interrogativo che invece figura nei testi…). Rimangono appena tre brani alla conclusione, “Tears in Her Eyes”, “Something Happened” e “Lord of the Flies” che mantengono costante la qualità dell’ascolto ma che poco aggiungono a quanto sentito precedentemente. In fondo che i The Dust ci sapessero fare si era già capito! Perfetti gli arrangiamenti, da migliorare (forse) solo i testi, scritti in un inglese un po’ troppo semplice e basilare, ma probabilmente questo “difetto” può diventare persino un punto di forza perché si riesce ad arrivare senza problemi anche a chi non è molto pratico delle lingue straniere. Gli ingredienti (ops, i brani!) per un “piatto”, pardon un disco, di qualità ci sono tutti… Ora tocca a voi a mescolarli nell’ordine che preferite partendo con un ascolto random che modificherà di poco il vostro indice di gradimento.
Kerouak – I Wanna Know
Nati a Siracusa nel 2006, l’EP I Wanna Know è il terzo lavoro dei Kerouak, dopo Trinacria Alcolica del 2007 e Mazingabbirra del 2011. Questo nuovo album si fa riconoscere dai precedenti per l’efficace integrazione del trombone del cantante Corrado Cannata, usato in maniera più consona rispetto al precedente disco, il che fa talvolta svoltare lo stile verso uno Ska Core ruvido e compassato. Ne è testimonianza la canzone iniziale, che poi è anche colei che dà il titolo all’EP: senza indugio il trombone scende subito in campo, dando groove al sound, impreziosendo e rendendo più interessante il mondo caotico abitato dai Kerouak. La vera particolarità è la voce scanzonata composta da slange gorgoglii che scopiazza (involontariamente) il modo di cantare di Stu Arkoff degli Zombie Ghost Train, seppur ci sia un abisso tra i due generi. Divertente “Last Bad News” dove si scimmiotta il Rockabilly e in particolare l’ugola magica di Elvis Presley. Il Rock Garage striato di Punk dozzinale suonato da questo quartetto ci pone il dilemma su quale lato sia necessario perfezionare per primo: la scarsa originalità o la durata risicata, anche se è doveroso riconoscere che le song Rock‘N’Roll sono spesso e volentieri concentrate in un breve lasso di tempo, raramente si superano i tre minuti a esecuzione. E così in circa venti minuti si esaurisce l’ascolto. Un viaggio corto, ma intenso. E’ comunque impossibile non notare l’alchimia che lega i quattro musicisti, un affiatamento che si percepisce in ogni brano (“Judas” ne è l’egregia sintesi). Se cercate un po’ di faciloneria per rilassare la mente e schiarirvi le idee, i Kerouak potrebbero fare al caso vostro. Se al contrario sentite il bisogno di una buona dose di tecnicismi arzigogolati, vi faranno al massimo sorridere. Beh, è che ci sarebbe di male? Un 6 di stima e di incoraggiamento ci sta tutto.
Evacalls – Seasons
Piove sempre, sembra non esserci più nessuna soluzione. Scariche elettriche cadono dal cielo plumbeo, l’elettronica degli Evacalls contraddistingue positivamente l’esordio discografico Seasons. Un sound proveniente dagli anni 80 ma visibilmente riadattato alle moderne concezioni di suono, campionamenti rincorsi dalle chitarre e sinth in continua evoluzione. Diventa tutto molto chiaro già dal primo pezzo “The Second Winter of the Year”, un titolo premonitore di quello che stiamo vivendo in questo particolare cambiamento climatico. La voce prende gran parte della scena, a volte sembra somigliare a quella di Paul Banks, ma è soltanto una questione di sensazioni, soprattutto causate dalle aperture delle canzoni come nel caso di “Give me a Reason”.
Gli Evacalls provano a personalizzare un genere strasuonato, un genere maltrattato negli ultimi anni, un sistema di fare musica diverso dai soliti preconfezionati pacchetti commerciali. Seasons suona otto tracce completamente diverse tra loro, ogni canzone contraddistingue una volontà d’espressione, il cuore salta in gola durante l’ascolto di “No Silneces”, apertura alla Joy Division. Poi tanta emozionalità e la voce riesce ad intraprendere uno stile decisamente Post Punk. Basso energico e sinuoso nella più sensuale “Two Lines”, le chitarre suonano alla Rem primo periodo, il risultato è piacevole ma forse troppo semplice e già suonato. E’ il rischio da correre quando si rielabora musica “datata”, si rischia di assomigliare troppo a qualcun altro, si rischia di lavorare invano senza ricevere gloria. Preferisco di gran lunga la parte elettronica Post Punk degli Evacalls, in quella circostanza riescono a dare il meglio della loro produzione, riescono a creare delle ottime canzoni evitano banali sgambetti. Infatti, in “Mondey” ritrovano la loro dimensione, riescono a riprendersi la fetta d’orgoglio che gli appartiene. Il resto è composto bene ma non regala neanche una piccola briciola di soddisfazione. Seasons è un disco che potrebbe piacere a tutti, gli Evacalls non sono una band capace di creare tendenza, sono capaci di svariare in tanti generi e quindi abbracciare varie tipologie di pubblico. Ho provato delle belle sensazioni soprattutto nella parte iniziale del lavoro, alcune cose mi sono piaciute parecchio e altre meno ma nel complesso Seasons merita di essere apprezzato. Gli Evacalls hanno tutto il tempo necessario per dimostrare di aver messo apposto le idee e di crearsi una propria identità musicale.
The Box – The Box
I The Box, in un solo anno di vita registrano il loro primo omonimo disco, un disco fresco nelle intenzioni ma dal sound forzatamente old school riadattato ai giorni nostri. Per loro stessa ammissione sono forti le influenze di mostri sacri come Alice in Chains, Nirvana e Foo Fighters, il Grunge classicone per intendersi meglio e questo sicuramente risulta positivo per la riuscita tecnica del disco. Le sonorità ultra consumate di questo genere non stravolgono più di tanto le intenzioni pacate di un ascoltatore medio. L’impatto è violento perché a ogni modo i pezzi sono tirati tantissimo. Non si muore certamente di noia durante l’ascolto di The Box. Non si muore di noia neanche durante la visione del film di Richard Kelly da cui penso la band si sia ispirata. Almeno credo perché reperire notizie sul gruppo non è roba facile se non fosse per un profilo facebook da cui riesco a capire qualcosa. Ma tanto a noi interessa la musica, le informazioni non sono (per forza) necessarie. “Silence” apre il supporto in maniera proponibile, con le chitarre spezzate alla Placebo e la voce che si spacca il culo per alzare forte il pezzo. Molto emozionale e teenager style il finale portato al galoppo dalle chitarre inesauribili. Prima parlavamo delle influenze dei Nirvana che tornano prepotenti e invadenti soprattutto in “Trains” (linee vocali) e “Hypno-Love” dove la mente consiglia subito la nirvaniana “Dumb”. Ma non parliamo di plagio, solamente di forti ricordi. Rock melodico in “Regaining Mood”, quasi un pezzo sdolcinato anni Novanta. L’effetto è comunque positivo; voglia di amare.
Il disco inizia a scaldarsi mantenendo sempre un atteggiamento Grunge, la batteria picchia forte accompagnata da un basso martellante in “Home”, le chitarre sterzano Stoner. Le decisioni dei The Box sono sempre più chiare, il loro inno di battaglia grida Grunge Forever! Ma assolutamente non si accettano sperimentazioni, tutto deve rimanere incontaminato e maledettamente demodè, vietato allargare gli orizzonti. Ascoltare “W-Hole-Rdl” per rendersi conto delle finalità artistiche della band. The Box trova una collocazione positiva nei miei ascolti ma tutto potrebbe finire improvvisamente, niente vuole ricordare questo disco, neanche una personalissima nota da parte della band. Come dire che The Box suona bene ma alla fine cosa ci rimane? Tutto sembra già stato proposto e riproposto fino allo svenimento, manca d’inventiva e sinceramente un esordio discografico dovrebbe avere ben altri scopi. Questo lavoro rimane ben suonato e confezionato ma lo stimolo decisivo viene a mancare proprio nel momento del bisogno. Un buon disco di Grunge classico e niente di più. Per stupire serve ben altro e credo in un prossimo riordino delle idee. Tutto sommato se non cercate niente di esclusivo questo disco potrebbe fare al caso vostro, bravi musicisti che al momento non vogliono osare. Kurt Cobain alive. E non è comunque poco.