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Superhorrorfuck – Death Becomes Us

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Superhorrorfuck: un nome che già lascia intendere per esteso l’obiettivo di questo quintetto veronese (rimaneggiato per 3/5 dalla loro line-up originale) che dal 2005 “terrorizza” mezz’Italia con le sue esibizioni sanguigne, irriverenti, fatte apposta per quella fetta di pubblico ancora affascinata dalla teatralità grandguignolesca tipica del re del trash Alice Cooper. Quel che terrorizza di più, in verità, è proprio il loro concept che racchiude quel che di più pacchiano, forzato e grossolano gli anni Ottanta ci hanno offerto. I riferimenti musicali ed estetici dei Superhorrorfuck sono più chiari dell’eccentrico make-up del loro frontman Dr Freak, una sorta di Dee Snider incrociato con un Marilyn Manson un po’ troppo acchittato e dal cantato sguaiato; per completare quest’immagine effetto photoshop, metteteci pure una punta del più aggressivo Axl Rose, se volete. Tutta la scena Street Metal e Glam Metal anni Ottanta (Motley Crue, Twisted Sister, Guns N’ Roses) viene rimescolata all’Horror Punk caro a band inarrivabili come Cramps e Misfits, il tutto senza brillare né per inventiva né per originalità, scadendo in un’avvilente banalità.

Musicalmente la proposta dei Superhorrorfuck non si discosta affatto dai suoi punti di riferimento storici sopra citati: pezzi tirati, riff ed assoloni Hard Rock, coretti e refrain melodici presi dai Bon Jovi più struggenti, ma tutto ciò avviene senza convincere, senza coinvolgere. Già dalla prima traccia “Dead World I Live In”, s’intuisce lo sterile tentativo di riesumare dalle tombe zombie, cannibalismo e satanismo finendo per mettere sul piatto un minestrone kitsch che rende l’ascolto del brano insipido. “Voodoo Holiday” è un pezzo di puro Rock N’ Roll che, per quanto semplice e parodistico, incarna perfettamente il pensiero di questi aspiranti zombie nostrani: “Can you guess how it feels being a rockstar living-corpse? Zombie slayers stalking me to blow away my head, horny groupies huntin’me to blow me on my bed […] Stress is bad for living dead, i need a Voodo holiday!”. E a questo punto quasi rinuncio all’esplorazione dei testi per paura di ritrovarmi di fronte frasi fatte e logore. L’intro drammatico di “The Ballad of Layla Drake” sembra far presagire qualcosa di differente, le tastiere sataniche in sottofondo rendono il brano quasi interessante, ma l’effetto dura poco e si torna subito a danzare con i morti.

Gli episodi migliori del disco sono “Break Your Shit” dalla ritmica spedita e punkeggiante e “Horrorrchy Pt. III, The Lord”, un buon brano Heavy Metal ma questo non basta: Death Becomes Us non può essere salvato neppure da un rito Vudù. Forzatamente controcorrente, forzatamente sopra le righe in realtà non provocano, non stupiscono per presenza scenica, né colpiscono per la qualità della loro musica. Forse destinati a rimanere confinati nella loro nicchia ma probabilmente non desiderano neppure uscirne.

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Peanuts 78 – Questione di Gusto

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In questi giorni mi sento vecchio. Saranno i malanni di stagione che ogni anno si accumulano tra le ossa, la testa e la gola. Sarà forse che i miei problemi fino a qualche anno fa erano arrivare pronto all’esame e ora mi ritrovo a pensare a mutuo e investimenti. Forse saranno semplicemente le maledette responsabilità. “Old at heart but I’m only 28” diceva Axl Rose in “Extranged”. E mi sento ancora più vecchio perché una volta lui era il mio idolo e ora per me è solo un fantoccio che ha scritto una manciata di belle canzoni.
Potete capire dunque come il mio stato d’animo non possa giovare troppo di un disco che arriva da una giovanissima band propensa a quel pop tanto fresco da rischiare una prematura data di scadenza, condito di parole da Smemoranda liceale, arricchito da elettronica patinata e chitarre pseudo punk (chiedo perdono a Joe Strummer e Joey Ramone ma ormai a queste storpiature credo siano abituati). “Questione di gusto”, il titolo è inequivocabile e i tre torinesi Peanuts 78 sanno benissimo quali sono i gusti dei ragazzi al giorno d’oggi. E attenzione, niente ma proprio niente di male nell’essere degli spudorati “piacioni” soprattutto se si crede nella musica che si suona. “Se sapessi scrivere come quel buzzurro di Fabio Volo di certo non sarei qui a rompervi i coglioni con Leopardi”, diceva spesso la mia superaccultuarata ma onestissima prof di letteratura. E i brani dei Peanuts sono delle vere bombe da classifica a partire da “Insipido”, un po’ ballata alla Tiziano Ferro, un po’ elettronica da luna park. “Non è possibile” invece percorre strade meno lineari, ritmiche inaspettate vengono però raddrizzate in un ritornello facile e sintetico. Il singolo “Fuori Rotta” che ad una prima orecchiata pare non dare nulla in più al disco, stupisce per la facilità di comunicazione. “In equilibrio” prova a spingere su distorsioni e velocità, si cerca di accelerare ma ci troviamo in un autoscontro e i ragazzi cozzano contro le limitazioni del loro stesso pop.
Un bell’applauso in ogni caso va alla produzione, tutto si incastra alla perfezione. Il prodotto certamente suona preconfezionato, ma almeno non da scaffale del supermercato il cui beffardo destino è sempre il cestone dei saldi. Diciamo che conserva la sua genuinità da bancone del mercato.
Tra gli episodi più riusciti sicuramente spicca “Il re”, che rimanda allo stile frivolo di Cremonini ma degenera in un finale robotico. La cornice non cambia: cameretta stracolma di poster, di collezioni autunno/inverno di Zara e un computer portatile posizionato fisso su Facebook.
“Questione di gusto” non è un album memorabile, ma rimane ben suonato, allegro, fresco, orecchiabile, moderno e ricco di pretese. E consideriamo sopra tutto ciò che i ragazzi sono davvero dei pischelli pieni di futuro e strabordanti di musica pop. Non so se la mia prof avesse ragione, ma se potessi tornare indietro di otto anni e fare un album così un pensierino ce lo farei.

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