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TOdays Festival, Torino | 25-27. 08.2017
Ed anche quest’anno la fine delle vacanze estive è stata resa meno amara dal TOdays festival, evento torinese giunto alla sua terza edizione, che si conferma uno degli appuntamenti clou dell’estate italiana.
Ad agosto appuntamento a Torino col TODAYS Festival, dal 25 al 27 agosto 2017
Ormai è un appeuntamento attesissimo quello col TODAYS festival. Nell’ultimo week-end di agosto, dal primo pomeriggio a notte inoltrata, in festivale torinese propone un cartellone capace di coniugare occasioni di formazione e approfondimento, laboratori, performance e dj set con live di grandi artisti nazionali e internazionali, produzioni originali e progetti esclusivi.
La Linea del Pane – Utopia di un’Autopsia
Stranissimo, nel nostro panorama musicale, trovare una band con una profonda matrice cantautorale e un certo distacco dalla canzone di protesta. La Linea Del Pane non ha niente a che vedere con i Ministri, Il Teatro degli Orrori, Il Management del Dolore Post Operatorio. Niente. Né le sonorità, né i testi, né la costruzione delle linee melodiche o delle liriche. A ispirare la band sembrano piuttosto riferimenti del passato: De Gregori, De André (quello delle ballate d’amore più che quello delle canzoni politiche), ma anche il più recente Giorgio Canali, per quanto riguarda i testi, Marlene Kuntz, Negrita, e, stranissimo, persino i Dire Straits, per le sonorità.
Il disco, Utopia di un’Autopsia, si apre con il brano “Apologia della Fine”, in cui si sente anche qualcosa dei romani Eva Mon Amour, tanto nel modo di cantare, quanto nella versificazione. “Urlo di Ismaele” apre con sonorità acustiche che le danno un taglio più pop e leggero, subito controbilanciato dalla grandissima elaborazione del testo, pieno di figure retoriche e costruito su un lessico complesso. Dissonanze alla Marlene Kuntz caratterizzano “Tempo da Non Perdere”: il testo è artificioso, con l’andamento di una ballata, in cui spostamenti di accenti tonici rispetto a quelli ritmici dell’accompagnamento, tradiscono una probabile composizione letteraria antecedente all’arrangiamento strumentale. “Favola non Violenta (Indovinello 1)” è una ballad d’amore (almeno in apparenza, perché è facile, nel corso del brano, trovare spunti riflessivi per altre tematiche), tutta imperniata su un arpeggio un po’ Indie e un po’ pulp; in “Specchio” è impossibile non cogliere un riferimento letterario a Dorian Grey, musicato tra sonorità Alternative anni 90 forse un po’ sentite, ma impreziosite da una certa commistione con timbri Prog. Questi ragazzi sono colti, probabilmente anche un po’ hipster per il compiacimento con cui trasudano la loro conoscenza. Non c’è nulla di male. Anzi. Solo una volta giunti ad “Ambrosia”, se ne ha un po’ le scatole piene di tutto questo artificio retorico, nonostante il crescendo musicale sia veramente efficace e riesca a far ancora sentire il brano con un certo interesse. Certo è che da qui la mia concentrazione è calata. Non è questione di volere a tutti i costi leggerezza o immediatezza. Sarebbe davvero molto superficiale da parte mia e di qualsiasi eventuale ascoltatore. La questione è che sembra che a La Linea del Pane manchi la capacità di accalappiare l’attenzione per poi servire il loro messaggio nella bella confezione articolata, complessa e aulica che gli hanno riservato. Ed è un peccato. L’album prosegue, comunque, con “Occhi di Vetro” e “Gli Alberi d Sophie” in cui si nota quanto il cantato sia impeccabile, ma piuttosto monocorde: lo è stato per tutto il disco, ma qui inizia a pesare anche questo aspetto. Personalmente ho trovato bellissima la successiva “Favola Non Violenta (Indovinello 2)”, con un arrangiamento alla Band of Horses davvero curioso e coraggioso, dato il testo in italiano. Della penultima traccia, “Nekropolis”, voglio sottolineare l’impiego degli archi: difficilissimo nel Pop-Rock inserire nel tessuto strumentale violini e loro parenti senza cadere nella melensa banalità del già sentito, ma La Linea del Pane li sfrutta con grande maestria, tra colpi d’arco e dissonanze dai valori larghi. Ben fatto. Utopia di un’Autopsia chiude con “Solstizio d’Inverno”, malinconica, riflessiva, nostalgica, avvolta attorno alla voce narrante. Non poteva essere diverso, in fondo.
Nel complesso è un disco davvero ben costruito, che risente della staticità di un certo atteggiamento meditabondo e monocorde, aggravato dalla vocalità del frontman, pulitissima e tecnicamente perfetta, ma incapace di slanci melodici e agogici, che puntellino e colorino i brani. L’artificio retorico che sottende la stesura dei testi, poi, è davvero eccessivo in molti casi. La canzone finisce per essere quasi un esperimento linguistico o un arzigogolato scioglilingua tra allitterazioni e rime. Preso singolarmente ogni brano sarebbe una buona speranza per la musica nostrana, l’intero disco non mi fa dire lo stesso.
Town of Saints – Something to Fight with
Vengono dal nord i Town of Saints: Harmen Ridderbos (voce e chitarra) è olandese, Heta Salkolahti (voce e violino) è finnica e fanno coppia fissa nella vita privata e in quella artistica da quando si sono conosciuti in Austria e hanno iniziato a fare i busker. L’incontro con il batterista Sietse Ros sancisce la nascita di una formazione completa che ha fatto del live il suo trampolino di lancio. Something to Fight with, disco d’esordio, segue infatti una lunga serie di concerti in tutta Europa e un Ep di sette tracce, Never Sleep. Sin dalle prime due tracce, “Stand Up” e “Trapped Under Ice”, si chiarificano due punti importanti: questi ragazzi sono tecnicamente molto bravi e fanno un Indie Folk super sentito ma che non sembra mai saturo di nuovi contributi. Debitori, per quanto riguarda le chitarre soprattutto, ai Band of Horses, come si sente chiaramente in “Direction”, non disdegnano neppure la lezione degli Arcade Fire o degli Of Monsters and Men, come emerge in “Euphrates” dove le volute del violino contrappuntano il canto e quasi ci trasportano in un ideale pub irlandese con davanti una bella stout scura dalla schiuma densa.
“Going Back in Town” ha un’introduzione più malinconica che lascia subito spazio a un duetto vocale acceso e ritmato, in cui lo scambio melodico richiama Angus e Julia Stone, soprattutto per il cantato della Salkolahti, molto affine a quello della Stone o della islandese Soley. Un trattamento molto simile viene impiegato per la costruzione di “Dress Up Night”, resa più particolare dalle sincopi con cui dialogano violino e batteria. I riferimenti ai precedenti del genere continuano a sentirsi distintamente ancora in “Easier on Papier”, mentre la ben più movimentata title track, “Something to Fight With” sembra un incontro tra i Mumford and Sons e i Gogol Bordello. Freschissima e quasi Pop è “Carousel”, leggera e particolarmente disimpegnata, che cede il passo a un ben più riflessiva “New Skins”, che inizia come una ballad cantautorale e di nuovo viene rincanalata nell’universo Folk dall’ingresso del violino. A chiusura di un metaforico cerchio, il disco si chiude con “Stand Up II”, brano che racchiude con una certa perizia i tratti distintivi di questa band: le sonorità calde del violino abbracciano quelle delle chitarra acustica ma si contrappongono a quelle della chitarra elettrica, la batteria marca i sedicesimi a decretare l’importanza della pulsione cinetica, il cantato costruito solo sulla vocale a contribuisce a un crescendo dinamico che conclude il pezzo ex abrupto.
Qualcuno ha già scritto che i Town of Saints non aggiungono e non tolgono nulla a formazioni ben più grandi (per fama, competenza ed esperienza). Tendenzialmente sono d’accordo. In fondo è roba già sentita. Eppure vale la pena concedersi un’oretta piacevole con questo disco, che se proprio non aggiunge niente di nuovo, quanto meno contribuisce, con un punto di vista in più, a rendere composito il genere.
Band of Horses
Coi Band of Horses avevo un conto in sospeso dal Rock in Idrho 2011, quando avevo cercato rifugio dalla calura estiva e dalla cappa mozzafiato che tirava su l’asfalto (non c’era neanche quella verdeggiante copertura sintetica usata nell’ultima edizione dell’Heineken Jammin’ Festival) allontanandomi sotto qualche stand proprio durante la loro esibizione. A mia discolpa posso dire che dovevo risparmiare sali minerali e forze fisiche per i Social Distorsion e Iggy Pop e che aspettavo fremente l’esibizione serale dei Foo Fighters.
Ad ogni modo, il 4 novembre scorso sono andata all’Alcatraz di Milano con l’intenzione di farmi perdonare: guadagnare una posizione tra le prime file e non perdermi neanche un secondo di show.
Sopportare la pretestuosa arroganza estetica e il poco talento degli opener, i Goldheart Assembly – londinesi, un tastierista hipster, un batterista con l’aria da hyppie ripulito, il chitarrista solista che fa il rumorista, il chitarrista ritmico che fa il solista e un bassista fact totum che da solo ridimensiona un pochino il mio giudizio negativo sulla band – mi è valsa la terza fila. Davanti a me fans insospettabilmente sulla quarantina accozzati alle transenne, di fianco e dietro un tripudio di barbe finto incolte, camicie a quadretti e maglioncini a righe, con l’età media che diminuiva man mano che ci si allontanava dal palco.
The great salt lake apre il concerto e insieme alle immagini paesaggistiche dello schermo sul fondale e alle stampe che rivestono le tastiere e le rastrelliere poggiachitarre (una scelta scenografica essenziale ma decisamente adeguata e di buon gusto) ci fa dimenticare di essere al chiuso in una grande città. E si respira, perché fin da subito i BoH regalano quella stessa sensazione che si ha in campagna, quel misto di libertà e tradizioni ritrovate.
I cinque sul palco hanno tutti una personalità e un ruolo ben definiti: Creighton Barrett è il batterista muscoloso con un tocco in realtà delicatissimo, una certa agilità e una buona cura delle dinamiche, Ryan Monroe è l’animo blues che investe i brani tanto da dietro le tastiere quanto con la chitarra a tracolla e le back voices (neanche troppo back, visto che la grana particolarmente calda e sanguigna della sua voce è stata più volte determinante per dare carattere al brano, sorprendendo chi non si aspettava proprio tanta grazia da un corpulento polistrumentista), Tyler Ramsey è l’asociale del palco, tutto avvolto nella sua camicia a scacchi e il viso nascosto tra barba e capelli, solo con un paio di serenissimi occhi azzurri che rivelano quanto se la stia spassando realmente, mentre Bill Reynolds è il fascio di nervi che tengono il plettro nella mano destra e aspettano il loro turno per riempire tutto di basse frequenze. L’insieme è magistralmente diretto da Ben Bridwell, che roteando il braccio scarabocchiato da tatuaggi improponibili marca stacchi ed entrate. Si guardano e si sorridono sempre, con un entusiasmo, una freschezza e una genuinità che sorprende: sarà la costante dell’ora e mezza di spettacolo, insieme alle sigarette di Bridwell che pure non sporcano assolutamente la sua voce, pulita come in studio, potente all’occorrenza e senza mai un cedimento.
La scaletta prosegue e il pubblico la riceve quasi inebetito e impotente fino a Laredo, quando finalmente l’Alcatraz si mette a cantare (con me in versione snob che un po’ mi risento per l’ovvietà di inserire questo pezzo, io che sto aspettando – alla fine invano – che facciano Detlef Schrempf). E da qui sono tanti i momenti veramente intensi: On my way back home, Powderfinger di Neil Young e soprattutto Infinite Arms. I BoH hanno un muro di suono caldissimo, che forse non ci si aspetta dall’ascolto domestico del cd. Lo giostrano magistralmente in un crescendo di emozione: Is there a ghost, Weed Party, Everything is gonna be undone e la recentissima e americanissima Knock Knock. L’apice però lo raggiungono con No one’s gonna love you: sul palco luci basse, solo Tyler che arpeggia con due dita, senza plettro, dando morbidezza e rotondità al suono, e Ben che non sbaglia neanche uno dei salti melodici che la canzone impone; sotto il palco, invece, coppie abbracciate che si sentono protagoniste di quel testo. E sorridono. E ci si rende conto che non è solo perché si ha una persona da abbracciare a un concerto, in un momento così romantico oltretutto, ma perché sul palco c’è qualcuno che da quasi un’ora continua a sorridere in modo contagioso, rimpallandosi sguardi complici. L’umanità dei BoH viene fuori con chiarezza in The Funeral, quando Bridwell ha la prima e unica incertezza di tutto il live: si dà il quattro ad alta voce per rientrare e sbaglia, sbavando le note della ripresa alla chitarra. “Oh shit, sorry” e un sorriso, imbarazzato questa volta, che non rovina per nulla il mood del brano.
L’encore dovrebbe prevedere The first song: la steel guitar è preparata dai tecnici durante la pausa, ma resta inutilizzata (non si sa se per un problema tecnico o per un semplice cambio di programma). Il concerto si chiude con Cigarettes, wedding bands e con la cover dei Them Two di Am I a good man. I Band of Horses non hanno fatto solo il compitino, anzi. Hanno dato prova di essere una band professionale e preparata, modesta come attitudine ma affatto mediocre artisticamente (non come sostenuto da Gianni Sibilla nella recensione di Mirage Rock su Rockol, in cui la formazione è definita “media”, in grado di soddisfare i gusti di un pubblico vasto e variegato, non eccellendo in nulla di particolare), con una passione e una carica probabilmente insospettabili da disco, ma che è sicuramente il punto di forza dei loro live e la loro migliore soluzione comunicativa.