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Dargen D’Amico (Theatre Quinto Festival)
Continua il Theatre Quinto Festival e continuano i nostri report dalla cara vecchia Rozzano. Questa volta parliamo di rap anomalo, di pubblico variopinto, di atmosfere festanti e non prive di contenuti…ma soprattutto parliamo di Dargen D’Amico, vero e assoluto protagonista della serata. Una serata che si prospettava sui generis già dalla partenza. Il riscaldamento del pubblico in attesa di DD è stato infatti affidato a tre act molto diversi, che però hanno saputo intercettare il favore del pubblico, interessato fin dalle prime note della chitarra acustica di Bandit, cantautore accompagnato da altre due chitarre – sempre acustiche – a fargli da supporto. Evitato con grazia l’effetto mariachi, Bandit è riuscito a far interessare di sé le tre/quattro file di pubblico già presente, complice l’immediatezza e la simpatia ironica dei suoi brani. Il suo essere seguito con attenzione da un pubblico che ci si poteva aspettare più hip hop-centrico è stato il primo indizio della qualità e della eterogeneità dei fan di Dargen. Sceso dal palco Bandit, prendono il suo posto i Rigor Monkeez, gruppo Hip Hop che è una vera fucina di progetti. I tre corrono come treni, e cercano di scaldare la sala – sempre più piena – con entusiasmo (forse troppo). Il pubblico inizia lentamente a rispondere: i brani dei RM sono densi ma orecchiabili, anche se le basi non spingono quanto dovrebbero. Complessivamente un’ottima prova, che lascia la sala carica e pronta al set dell’ultima apertura, quel Mistico di bocciofiliana memoria, che alza il tiro sparando a tutto volume tre/quattro brani danzerecci e mediamente disimpegnati, per poi, con grande senso della misura, ritirarsi, lasciando spazio all’attesissimo Dargen.
Iniziamo col dire che il grande talento di Dargen D’Amico è saper ammaestrare le folle come un domatore consumato (talento che è secondo solo alla sua maestria nell’uso della parola). Già dai primi momenti, il pubblico è nelle mani del rapper, che, in piedi dietro alla consolle (gestisce da sé le basi e il mixer), pare una figura messianica, un santone, venerato e adorato al ritmo di bassi tribali e mani che si muovono alte nell’aria. È una figura affascinante, che già dall’aspetto non suggerisce la chiusura che ci si aspetterebbe, da profani, nei concerti hip hop: camicia blu, occhiali a specchio, snocciola rime con una voce inconfondibile e una semplicità disarmante. Lo accompagnano, accentuando la sensazione di trovarsi fuori dal circuito hip hop più chiuso, i Fratelli Calafuria, uno per lato, come chierichetti rock ad officiare una messa crossover con chitarre elettriche sopra basi energiche e trascinanti. Dargen inanella i pezzi con sapienza, li introduce con semplicità e simpatia: sa far ridere il suo pubblico, e sa farlo stare attento quando serve. D’altra parte, i fan rispondono benissimo: lo adorano, e si sente. La scaletta è costruita per essere rapida e piacevole, anche per chi, come me, non segue assiduamente Dargen e non conosce a menadito tutta la sua discografia: ingrediente fondamentale è la scelta di eseguire, anche solo per una strofa e un ritornello, molti dei featuring che hanno contribuito a far conoscere Dargen anche al di là della cerchia dei suoi ascoltatori abituali (penso a “Festa Festa” con i Crookers e Fibra, a “Un Posto per Me” di Andrea Nardinocchi, a “Quella Giusta per Te” con Stylophonic e Malika Ayane, ma anche a “La Cassa Spinge” con Dumbblonde e Lucky Beard). Per il resto, la scaletta pesca a piene mani dall’ultimo Vivere Aiuta a non Morire, senza lasciare dietro altri classici come “Sms Alla Madonna” o “Odio Volare”. Non ci si fa mancare neanche un omaggio ai Calafuria con “Bisogna Fare Casino” e, ovviamente, una “Bocciofili” esplosiva con Mistico di nuovo sul palco.
Un concerto intenso, insomma, che, come tutta l’opera di Dargen, può essere vissuto su due livelli: un primo, più immediato, di divertimento e danza, di ritmi e risate e festa, e un secondo, ancora più soddisfacente, fatto di parole e significati, di tecnica acuta e di suggestioni profonde, che però non tolgono nulla alla piacevolezza dell’ascolto e alla tensione del pubblico (“Il Presidente” e “V V”, nonostante lo stile e gli argomenti, hanno elettrizzato tutta la sala, me compreso). Dargen D’Amico è un’artista che si conferma più che capace, un personaggio veramente unico nel suo genere, in grado di unire la profondità del Rap più artistico e per certi versi letterario all’immediatezza anche “cazzona” dell’aspetto ludico e festaiolo dell’Hip Hop, riuscendo a convincere anche chi, come me, nel rap non sguazza troppo spesso. Da vedere se vi va di passare una serata divertente senza offendere la vostra intelligenza: si può fare, e Dargen D’Amico ne è la prova. Appuntamento alla prossima settimana con il report dei Nada’r Solo sempre dal Theatre Quinto Festival, sempre su Rockambula!
Bandit – Crash Test
In quel di Milano il settore artistico non conosce domeniche e propone di recente un nuovo interessante lavoro: Crash Test. Un disco scritto ed interpretato da Paolo “Bandit” Bandirali ed arrangiato da Luca “Bitti” Cirio, firmato Bandit. Il lavoro si sviluppa in una tracklist lunga nove click di Folk Rock, caratterizzato da testi impegnati (che a tratti rimanda al Rock n Roll di Bennato). Nella prima parte del disco, in particolare, si caratterizza per un alternarsi di musica ed intermezzi parlati (che richiama lo stile live degli Zen Circus), che fanno da introduzione alla traccia a seguire. Di certo una trovata molto originale (ed un’ottima opportunità per dar spazio ad un po’ di sano sarcasmo), che tuttavia spezza un po’ troppo l’armonia stessa del disco, portando l’ascoltatore allo skip degli intermezzi già a partire dal secondo ascolto del disco. Ciononostante, siamo innanzi ad un lavoro piuttosto maturo e che si fa ben ascoltare dall’inizio alla fine. L’album di debutto sembra avere seri intenti comunicativi. I temi, di elevato impatto con l’attualità, ruotano costantemente intorno al tema della vita, spaziando da intellettualismi del saper vivere, a romanticismi della necessità di amare (riprendendo al riguardo un amore a lunga conservazione già cantato dai Marta sui Tubi in “La Spesa” ben sei anni fa), a malinconiche, statiche prese di coscienza dell’io. Si esce fuori tema in traccia sette (“Quando C’Era Lui”), che, mio malgrado, suona un po’ come una nota stonata in un disco di così elevato contenuto morale. Non tanto per lo strumentale, il quale mantiene la sua vena accattivante, quanto per il testo, che la rende il vero neo del disco. Politica e musica sono due arti differenti: cantare la politica è un po’ come cantare un dipinto.
Il lavoro esordisce in prima battuta con “La Crisalide”, che senza dubbio merita qualche riga. Lo strumentale, impegnato in ritmiche Country e Folk che si fanno ben apprezzare, viene poetizzato attraverso un testo ricercato e di certo non banale. Il perno è il crivello del vivere la vita, del se è giusto o sbagliato viverla secondo lo standard collettivo. Ed all’interrogazione a scuola, nasce bene la risposta mi scusi prof ma io non ho tempo da perdere, meglio essere crisalide che ha tempo ventiquattr’ore per vivere al meglio. La scelta di aprire il disco con un pezzo così ben lavorato è (volutamente o meno) strategica e conduce inevitabilmente all’approfondimento dell’intero lavoro. La strategia si mantiene sofisticata, approdando alla terza traccia e realizzandosi stavolta attraverso uno stile cantato pressante che fa subito pensare al timbro martellante del Cristicchi (ancora una volta un forte riferimento). Il tema della vita accompagna una buona parte del disco, ritornando anche nella traccia numero cinque (che dà il titolo al disco). Stavolta si toccano le corde della malinconia, garantendo un inevitabile rifugio a chi l’ascolta. D’altra parte, la vena malinconica accomuna un po’ tutti ai giorni nostri. Ciò non toglie che siamo innanzi ad un buon lavoro, che merita molto più di un ascolto. Ottima sintesi del disco.
Il disco si chiude quindi con un mix fra il sound di Samuele Bersani e la versione Folk di Brunori Sas, addobbato ancora una volta con un testo che lascia ben poco spazio alla polemica. Il tema della vita che ha aperto il lavoro si ritrova così a ricamarne i titoli di coda con un richiamo lungo 4’02’’. Un gioco di parole lungo una canzone intera, lavorato al dettaglio fra assonanze e rime prepotenti che in modo instancabile chiamano all’appello la vita. Titolo: “La Vita”. Ed è così che il prologo si confonde con l’epilogo attraverso un piccolo dettaglio, che genera una ciclicità all’opera che si fa molto apprezzare. Dettaglio che, in questa sede, non trovo onesto svelare, ma che a parer mio, è una trovata prossima al geniale. Fossi al bar a parlar con amici, direi che è un ottimo disco, consigliandone l’acquisto (consiglio che, scoprendo gli altarini, dispenso anche a me stesso). Ma qui siamo alla correzione dei compiti di inizio anno e la severità non può essere opzionale. Il paroliere Paolo “Bandit” Bandirali meriterebbe senza dubbio un voto alla portata dei suoi ricercatissimi testi, ma il consiglio ha deciso di provocare la sua vena artistica, portandolo appena oltre la sufficienza. In rosso sul compito ho dovuto segnare le troppe ispirazioni mal celate. La musica è un tema, non un testo di reportistica.