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DIIV – Is The Is Are
I DIIV sono appena al secondo album, ma nei quattro anni trascorsi dall’esordio hanno avuto molti altri modi per tenere accesi i riflettori sulle loro teste colorate.
In un’era in cui per rendere la musica più appetitosa sembrano volerci molti contorni, alle band tocca essere presenti su ogni social network (e Instagram sembra essere tra le piattaforme più efficaci, nonostante sia quella al sonoro lascia il minor spazio, con i suoi 15 secondi appena di durata massima dei video). Ciò nonostante, i condimenti evergreen sono quelli che hanno a che fare con le love story e l’illegalità, e in generale tutti quelli che gli artisti non vorrebbero condividere.
Dopo essersi confezionato con cura un’immagine quanto più vicina possibile a quella del Kurt Cobain più commercializzabile, l’ironia della sorte ha voluto che Zachary Cole Smith, mente e immagine del progetto DIIV, ci sia caduto dentro con tutte le scarpe. Is The Is Are giunge infatti dopo una serie di sue vicissitudini personali, iniziate da un arresto nel 2013 per possesso di stupefacenti, e condite dalla presenza costante di Sky Ferreira nel ruolo di Courtney Love. All Apologies: non me ne vogliano a priori gli adepti dei Nirvana, ma c’è da soffermarsi sul parallelismo senza affrettarsi a gridare all’eresia. Perchè al di là delle ostentazioni di Cole, due ragazzi travolti da un successo inaspettato come lui e Kurt è lecito che qualcosa in comune ce l’abbiano, ansie da prestazione e instabilità emotive in primis.
Quel che è certo è che cambia il modo di affrontarle, ‘che se nel 1994 Tumblr fosse già esistito forse le cose sarebbero andate diversamente. Cole infatti è figlio del suo tempo, e i social network sono parte attiva della sua rehab. Appena un anno dopo un debutto accolto con entusiasmo da critica e pubblico, non solo si ritrova incasinato con la giustizia, ma anche con la classica inquietudine da sophomore: quella di fallire è la più umana delle paure, e giunto alla fatidica prova del secondo album Cole tenta di eluderla condividendo il processo creativo coi propri follower. Fragile sì, ma di certo meno estemporaneo di ciò che vorrebbe sembrare: il ragazzo è uno che ha capito come farsi amare da un mondo che vuole a tutti i costi interagire coi suoi miti. Il blog dei DIIV è il diario di bordo di Smith. A scorrerlo si può scoprire ogni aspetto di Is The Is Are. I wanted the title to come straight from the album art, I wanted the title to come from a poem, e prosegue svelando la genesi di un artwork estremamente home-made e di un titolo che viene dai versi nonsense del poeta francese Frederick Deming. Rendere accattivanti una cover scarabocchiata e una frase che in inglese non ha alcun significato: lo stai facendo bene.
Se è vero che è facile inscatolare il nulla e venderlo a peso d’oro, la notizia in questo caso è che dietro agli artifici si cela una buona dose di sostanza. Le diciassette tracce di Is The Is Are fugano ogni dubbio: quello di Oshin non è stato un caso fortuito, e l’emersione da un undeground affollato come quello di Brooklyn i DIIV se la sono meritata.
Le materie prime sono le stesse: devozione totale alle chitarre, che si rincorrono in territori Post Punk su linee melodiche pulite e nervose, che sovrastano le seppur incalzanti percussioni, a scandire tormenti di cui godere in modo insano. Meno improvvisazione e più spazio per le liriche, asciutte e ossessive. I progressi vocali di Cole si sentono anche quando gioca coi riverberi e le sbavature, sul mellifluo Shoegaze di “Bent (Roi’s Song)” o nell’ubriachezza dei loop di “Take Your Time”. “Se togli questa musica da tossici è meglio”, ha detto un mio amico l’altra sera mentre quest’ultima fuoriusciva dal mio autoradio e a poche centinaia di metri ci attendeva un posto di blocco pronto a stanare le birre di troppo che avevamo in circolo: perifrasi irriverente, ma a voler condensare in poche parole l’universo sonoro imbastito dalla musica dei DIIV è in fin dei conti una delle più calzanti. Le corde che corteggiano costantemente la New Wave à la The Cure si aggrappano a ritmi più sostenuti, in risultati lisergici: nelle atmosfere sognanti della intro di “Out Of Mind”, nel giro catartico che sfuma in chiusura in “Under The Sun”, nella inedita versione Noise di Sky Ferreira alla voce in “Blue Boredom”.
Una gestazione lunga, con tutto il tempo per levigare, e a conti fatti ben speso, perchè la dose di cura nei dettagli è quella giusta, che bilancia le componenti ma non rinnega le origini Lo-Fi della militanza nei Beach Fossils. La title-track spezza il disco a metà introducendo un umore diverso, disteso e scanzonato. Torna poi la consueta mistura viscosa e perturbante, negli episodi più intensi e lavorati (“Healthy Moon”, “Loose Ends”) così come in quelli più spontanei (i venti secondi del riff di “(Fuck)”).
L’Indie d’oltreoceano crede ancora nell’essenza del Rock, quella a base di chitarre e malessere, e di fronte all’evidenza torno a crederci un po’ anch’io.
Beach Fossils – Clash The Truth BOPS
Ci sono dischi che si raccontano pezzo per pezzo. Si smontano, si analizzano, come un’autopsia, come al microscopio, atomo per atomo. Ce ne sono altri che invece sono un unico, grande viaggio. O un’atmosfera, una sola. Una fotografia a più dimensioni, da diversi angoli, ma della stessa cosa. Clash The Truth è fatto così. È onirico, sospeso, tenuto in volo dalla voce eterea e bagnata di Dustin Payseur, la mente dietro al progetto, un progetto nato DIY e casalingo e finito invece, con questo disco, in ben due studi newyorkesi (il primo è stato abbandonato, ad un certo punto, per colpa dell’uragano Sandy). Clash The Truth è fatto di melodie semplici, ritmi post-punk, bassi cordosi, chitarre che da acustiche diventano elettriche, morbide, poi acide, poi suadenti, ambienti riverberati e gonfi d’eco, come nuvole in fuga dentro la tua stanza. Melodie, ritmi, ambienti che sono una sola melodia, un solo ritmo, un solo ambiente, lungo quattordici tracce, circa mezz’ora. Poi, a scavare, si possono notare isole nella spuma (“Sleep Apnea”, la mia preferita, che non ha bisogno di spiegazioni; momenti drone e leggeri attimi strumentali, come “Modern Holyday”, “Brighter” e “Ascension”, a spezzare il tutto; brani leggermente più sostenuti – “Crashed Out”, “Burn You Down”, “Caustic Cross” – pronti a mescolarsi con l’ossessività della title track, o con il sogno Pop-Noisedi “In Vertigo”, con Kazu Makino dai Blonde Redhead) ma a svelarli tutti vi toglieremmo il gusto di scoprirli da soli. Dalla Captured Tracksun altro esempio di post-qualcosa leggero, facile, intimo, di scuola Low. E oggi, col mal di testa che incombe e un’altra primavera alle porte, è tutto ciò che mi serve.
BEACH FOSSILS. Unica data italiana.
Il newyorkese Dustin Payseur coi suoi Beach Fossils arriva in Italia a Maggio per un’unica data per presentare il nuovo album Clash The Truth uscito a fine febbraio per Captured Tracks.
30 maggio 2013 – Marina di Ravenna – Beaches Brew / Hana-Bi
Ingresso Gratuito!
Ore 21,30