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Beck – Morning Phase

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Immaginate per un attimo questa situazione. Un’afosa mattinata estiva, una come tante. Un risveglio tranquillo e rilassato, senza impegni di sorta, senz’alcuna fretta. Caffé bollente, nero, intenso, dall’aroma avvolgente, rigenerante. Una sigaretta d’ordinanza, magari consumata in balcone, ancora in pigiama. Avete focalizzato? Bene, a questo punto partiamo dall’assunto che il dodicesimo studio album di Beck David Campbell, Morning Phase, si configura senz’alcun dubbio come la perfetta soundtrack della circostanza sopracitata. Quarantasette minuti scanditi da serafica rilassatezza, una grandiosa opera Folk mirabilmente descritta da un ritmo interiore che fluisce lento, particolarmente rarefatto, quasi immobile ed indistinto. Un lavoro essenzialmente asciutto e minimale, privo di arzigogoli e complicazioni, frutto di una scrittura apparentemente semplice e naïf, ma che trova nell’istintiva naturalezza dell’artista californiano la sua anima vibrante, il suo fulcro primigenio e vitale. Insomma, tredici brani nudi e crudi, dal sapore squisitamente “analogico”: batteria, basso, chitarra acustica e voce, accarezzati da languidi e misurati arrangiamenti orchestrali che, inevitabilmente, sottraggono spazio vitale ai rarissimi inserti elettronici (Odelay sembra lontano anni luce ormai).

Le influenze di Morning Phase (considerato, per analogia stilistica, quasi un sequel di Sea Change) affondano le proprie radici nell’immortale percorso artistico di Neil Young (esplicitamente citato come fonte privilegiata in diverse interviste), ed a tratti nella “fase acustica” dei Pink Floyd post-Barrett. Pare che il mood dell’album sia stato dettato da una fantomatico avvicinamento a Scientology, da fastidiosi malanni fisici, delusioni amorose e chissà cos’altro. Ma, in fondo, si tratta solo di rumors. Per quanto concerne la tracklist, meritano particolar menzione brani come “Heart Is a Drum” che, invitando l’ascoltatore ad assaporare pigramente la calura estiva, si configura essenzialmente come un vero e proprio inno al perder tempo, “Say Goodbye”, il cui canto sofferto é magistralmente interpretato dal banjo di Fats Kaplin, la languida “Blue Moon” (indubbiamente uno dei migliori teaser dell’album) e la commovente closing track “Waking Light”, con la quale si torna a porre l’accento sul tema ricorrente del risveglio, come a voler concludere un ciclo, una sorta di struttura ad anello. Sembra che non dovremo attendere molto per degustare il nuovo capitolo della saga Beck. Prestando fiducia alle parole dell’artista, si tratterà di un progetto ben diverso da Morning Phase, “eclettico e vibrante di energia live”. Attendiamo quindi con ansia.

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Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Novanta

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Hola La Poyana! – A Tiny Collection of Songs About Problems Relating to the Opposite Sex

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Raffaele Badas meglio noto come Hola La Poyana! torna dopo l’esordio di sole cinque tracce dello scorso anno che ottenne un buon successo di pubblico e di critica. Le note per la stampa indicano invece per questo disco: “Hola la Poyana è la ricerca dell’intensità attraverso pochi ed essenziali strumenti: chitarra, voce e stomp box, come nella tradizione Blues americana. Vibrazioni acustich epregne di metallico ardore”. Mai parole furono più giuste essendo noi di fronte a una sorta di one man band che non fa mai rimpiangere la quasi totale assenza di altri strumenti.

A parte l’accoppiata chitarra e voce, infatti, si possono sentire soltanto una cassa, delle piccole percussioni ed un violoncello. A volte un po’ Nick Drake, a volte un po’ Beck e talvolta persino un po’ sua maestà “slow hand” Eric Clapton, qui ci troviamo di fronte a un esempio netto di musica nuda e spoglia che sa sempre emozionare agendo in maniera un po’ timida ma convincente. Tra le influenze principali si trovano però anche tracce del blues di Skip James e di Mississippi Fred McDowell, delle ballate Country di Neil Young, del Folk strumentale di John Fahey e persino alcune divagazioni più spiccatamente Indie Rock, il tutto accompagnato da testi in parte ironici e in parte malinconici.

Musica genuina e spontanea quindi che viene dal cuore, come lo era il Grunge degli Alice in Chains (ma qui non troverete però nulla di loro), per questo lavoro registrato egregiamente da Piergiorgio Boi e prodotto in uno stile lo-fi ma molto gradevole da Simone Sedda. Di grande impatto anche la capacità vocale di mr. Badas, impeccabile nella sua pronuncia inglese tanto da sembrare un ibrido fra un Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters) e un Bon Iver. Da pochi giorni è partito il tour dell’artista che lo porterà in giro per tutta la penisola italiana per tre mesi. Se dovesse passare dalle vostre parti occhio quindi a non lasciarvelo sfuggire! Vi potreste pentire della vostra eventuale assenza!

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Fitz And The Tantrums: annunciata l’unica data italiana

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Reduce dal clamoroso successo dell’album di debutto del 2010 Pickin’ Up the Pieces, la band soul pop di Los Angeles arriva in Italia per un’unica data per presentare il nuovo More Than Just a Dream, in uscita il 7 maggio del 2014. Prodotto da Tony Hoffer (Beck, M83, Depeche Mode, Phoenix) presso The Sound Factory, Studio B a Los Angeles, il nuovo lavoro sarà pubblicato da Elektra Records. Sarà possibile sentire la band dal vivo in un’unica data italiana, al Tunnel di Milano il prossimo 14 marzo.

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W-H-I-T-E – III

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Cory Thomas Hanson è l’artista e musicista di Los Angeles che si nasconde dietro il nome W-H-I-T-E. Già nel 2008, quando prendeva vita il suo percorso artistico, era chiaro che Hanson non avrebbe certo intrapreso la strada calma e pulita della melodia tradizionale e del cantautorato. Sceglie il nome d’arte W-H-I-T-E per esprimere fin da subito alcuni concetti fissi nella sua mente, per dare l’idea di quell’attrazione trascendentale che la luce bianca ha verso ogni creatura e la sua necessità di allietare e nello stesso tempo “bruciare” i sensi saranno una prerogativa di tutte le sue opere. I primi full lenght sono Sunna del 2009 e Twin Tigers di due anni più giovane. Dopo queste esperienze studio inizia una lunga traversata per il mondo, che lo porterà anche in Europa dove si esibirà con Mikal Cronin. Proprio durante queste scorrazzate soniche inizia a prendere vita III; W-H-I-T-E scrive e registra parzialmente i pezzi “on the road” (non vanno sottovalutate le soste parigine e il ritorno alla città natale) per quasi tre anni. III è una sorta di sunto, di raccolta di questo lungo tempo passato a registrare. Il risultato è qualcosa di prodigiosamente celestiale.

Se ”Intro” somiglia in modo imbarazzante al pezzo d’apertura di Palace degli Chapel Club non ci s’illuda e non si pensi che vi sia alcun tipo d’influenza Neo-Gaze. Ciò che accomuna III alla scena di cui fa parte la formazione britannica di Lewis Bowman e Michael Hibbert è solo una certa vena dreamy, celestiale, spirituale, incorporea. Un po’ la stessa che si respira in alcuni brani dei Radiohead (“I Wasn’t Afraid”), considerando anche che la voce di Cory Thomas Hanson, ricalca per timbrica la stessa proprio di Thom Yorke. Non mancano reminescenze di psichedelia sixties e folk barrettiano fatto di voci melodiose e note ossessive come incubi colorati e passaggi in cui il Dream-Pop acquista una vena bucolica (“Can’t Fight The Feeling”, “Friends”) e naturista. Nella seconda parte, prevale invece l’aspetto più duro, freddo e sintetico della proposta di W-H-I-T-E, che miscela le ritmiche tipiche dei Club anni ’90, il cantautorato statunitense di vecchia data e la storica scuola dei precursori dell’elettronica applicata alla New Age e all’Ambient (“Pretty Creatures”, “Lost”) con la musica cosmica in stile Tangerine Dream (“Deep Water”).

Assolutamente gradevoli anche i momenti più essenziali, legati indissolubilmente alla linea melodica e dalla forte ispirazione Radiohead dei momenti più intimi (“Demons”), cosi come riuscitissimo suona l’incontro tra psichedelia e Dream Pop in “Swim”. Nella parte conclusiva troviamo sperimentazioni che sembrano miscelare le basi irriverenti e Lo-Fi tanto care a Beck, altro genio di Los Angeles, con il Pop-Rock britannico (“Wet Jets”) mentre III si chiude con il pezzo più oscuro, freddo, ambiguo dell’opera di W-H-I-T-E, ricco com’è di ossessioni e speranza (“Building On”).

È lo stesso Cory Thomas Hanson a spiegare bene la sua opera. “Ho iniziato a scrivere con l’idea di John Lennon che fa una registrazione sulla luna con Cluster e Eno a fare da produttori. Il tutto remixato da Moby”. Io aggiungerei questo. Pensate a brani scritti da John Lennon, cantati da Thom Yorke e suonati dai Pink Floyd con i Tangerine Dream a gestire la parte sintetica, il tutto sotto la supervisione di Cluster ed Eno e mixato da Moby. Rende ancor meglio l’idea.

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“Diamanti Vintage” Talking Heads – Remain In Light

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Stregoni acidi e invoglianti di un voodoo meticciato di Elettro-Rock, Tribal, Dance e chi più ne ha più ne metta, i Talking Heads di David Byrne (sempre con l’aura benefica di Lord Eno) approdano a questo album vivacissimo, Remain In Light, una congiura al mondo del rock abituale con un Jungle continuo di sincopatizzazioni ritmiche, tremori Afrikaneer e contraddistinguo World che emette una formula stilistica fuori dalle righe per gli ascolti classici, un disco che fa posto ad una fantasiosa fioritura di stimoli e funkadelic move-it che poi diviene storia a tutti gli effetti nonché scuola programmatica nel divenire.

Dicevamo una Jungla mai convenzionale, un fitto sottobosco di suoni, echi, idee, stranezze e cardiopalma che sono oramai il punto di forza di questa band  americana, band che in Byrne vede la lucida follia di un leader carismatico ed eternamente trendy, e la scala internazionale della loro musica è oramai diventata un hook irrinunciabile di mondi legati al clubbing, ai fool party newyorkesi e inno di una generazione etno-chic che lancia mode alternative e sound in cui riconoscersi come identità camp.
Tutto è un vibrare di sussulti, nevrosi urbane, epilettismi ipnotici, scatti surreali e orecchi pieni di tutto quello che possa far muovere, ballare e dare vita  ad un intenso percorso sensoriale world, brani terragnoli  che si intersecano con arie elettriche e che a loro volta ritornano nelle periferie per assumere sembianze di ectoplasmi multicolori e stregoneschi, mai malinconie ma un rutilante stato avanzato di sperimentalismi che lasciano stupefatti anche i detrattori più incorruttibili; un futuro Beck e altrettanti Talk Talk succhieranno da questa amalgama linfa per le loro modellazioni sonore, mentre brani funk come “Crosseyed And Painless”, “House In Motion” e la carica dance di “Once in a Lifetime” sono tutt’ora manifesti di lussuria musicale intoccabili, punti di riferimento come una fede religiosa.

La finale “ The Overload” è un omaggio nero e magmatico alla scena obscured inglese, a quei inconfessabili rapporti di pensiero che – insospettabili fino ad allora – Byrne teneva con i Joy Divison ed il loro cosmo notturno darkone, ed è l’unica rilassatezza che in questo disco si permette di staccare la spina all’argento vivo di cui si nutre in sovrabbondanza. Pietra miliare in eterno.

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Vampire Weekend – Modern Vampire Of The City

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C’è poco da ingannarsi, i newyorkesi Vampire Weekend sono tra le migliore realtà indie che l’America di ultima generazione abbia mai partorito; il quartetto, qui alle prese con l’ultimo work Modern Vampires of The City,  immaginano una componente di semplicità di cui spesso – chi sta all’ascolto – non ci si capacita, amano la loro musica e le relative funzioni quotidiane, quel torpore attento che ti tiene compagnia in ogni istante della giornata, il soundtrack perfetto per il vivere in città – magari non come la Big Apple smoggosa ritratta sulla cover –  ma che comunque ci si avvicina.

Un disco curatissimo in tutte le pieghe che tengono molto conto dell’insegnamento di Paul Simon e tenue nei colori e filamenti che legano l’ascolto per tutto il tempo, una lista di brani dalla struttura pop di lignaggio, per intenderci non piena di quegli intellettualismi spocchiosi e logorroici, ma quelle poetiche urbane dirette, che divertono rendendo inedita una pausa da un qualcosa che si sta facendo; brani anche pazzoidi, birichini come il beat che urletta “Diane Young” con un retrogusto Beckiano molto marcato oppure le apparenze afrikaneer che “Everlastings Arms” rimanda tra echi e sensazioni.

Da una recente intervista, Ezra Koening (il leader della band), dice i VW si stanno riscoprendo come spinta sonora e lentamente vogliono tornare ad abbracciare una certa tradizione con la commistione  – a tutti i livelli – del rock, chiaramente smarcandosi dalle immoralità di certe tendenze, ma un return forever che possa sorprendere e freneticare l’attuale piattezza mondiale; si sa che gli artisti spesso sono strani e boriosi nel parlare, ma per stare in tema pare che una minimale inversione in avanti pare nascere dal sound college che spira nella spensieratezza di “Unbelievers”, dalle scalmane educate di “Finger Back” o dall’improvviso cambio timbro della oscura “Hudson”, brano che prende posto in un calamitoso post-rock e che un poco spiazza, ma che dopo un minuto si adotta e si strofina come un amante vogliosa.
Il terzo disco per questa ottima formazione non è che il podio meritato di una piccola storia che non scarica versioni  malinconiche di sfighe esistenziali o qualcosa di affine, ma – e solamente – la sfida dei colori pop con l’anima trapelatamente insofferente dei Bread.

Datemi retta nei vostri prossimi weekend, fatevi succhiare il sangue da questi vampirozzi non male!

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“Diamanti Vintage” Beck – Mellow Gold

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Nel 1994 uno strampalato alieno svedese naturalizzato americano atterra sugli orecchi di mezzo mondo, e dopo le prime titubanze d’obbligo, allucinazioni da schiarire e schiaffi in faccia per riprendersi da questo fenomeno indecifrabile, Beck – l’uomo/ragazzo- innalza il manifesto della sua onnipotenza deformata, obliqua e fantasticamente innovativa, un passato/presente che brucia senza regole tutto il panorama alternativo dell’alternativa alternante che si possa trovare in giro. Mellow Gold è la cartuccia che fa fuori tutto, che straccia la forma canzone e la condisce con ogni ammennicolo sonoro che capiti a tiro, un disco stupendo che rivoluziona anche l’impossibile.

Un mini-pimer che frulla di tutto, rock, folk, sperimentazioni, blues, indie, emo, brit-pop, punk, trip-hop e una straordinaria forma malsana di poetica saturnina che ammalia, convince subito e diventa inno generazionale per una fitta schiera di nerd, sfigati, subalterni, mammoni felici ed insaziabili che fanno ressa tra divani e hamburger alla cipolla e ketchup; dodici tracce che la dicono lunga circa la situazione creativa negli States di quei tempi, uno spirito lunare che arriva come un raggio cosmico mentre la musica non ha ancora ripreso a corroborare nuove stimolazioni, ma da li a poco – con la maestria di questo musicista folle e paonazzo – tutto tornerà a rifiorire, a folgorare. Disco mutante ad ogni passaggio, un mix di allucinati mood e hype al cubo che riecheggiano ovunque e che si acciuffano nel neo-folk che balugina in “Loser”, a mollo negli anni sessanta bevuti “Fuckin With my Head”, nel centro elettronico mistificato in noise “Soul Suckin’ Jerk” se non addirittura nel funk-dance che “Beercan” mette in mostra con quel ritornello fighissimo che sventrò ogni palinsesto radiofonico yankee di allora.

Con la dolcezza storta e indù di “Steal my Body Home” e la mistica di archi e tremore ancient “Blackhole”, Beck chiude una parentesi che ne aprirà tante altre, mette in risalto un disco, uno stendardo e un indice puntato sulla società americana, mette in guardia novizi ed emuli con poche parole e un miliardo di suoni, come a dire: “Occhio i Marziani sono tra voi, salvatevi le chiappe”.

Pietra miliare!
http://youtu.be/R6sdDp5Vgjk

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