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Xiu Xiu – Plays the Music of Twin Peaks

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Probabilmente non esistono molte persone nel mondo occidentale che non associno il nome Twin Peaks al capolavoro di David Lynch d’inizio anni 90. Se qualcuna di queste però sta leggendo la mia recensione, sappia che si tratta di una serie televisiva realizzata dal maestro del surrealismo cinematografico che racconta della morte della giovane Laura Palmer e delle indagini che ne sono seguite dentro una misteriosa cittadina al confine tra Stati Uniti e Canada. Chi sa di che parlo troverà riduttiva e semplicistica la mia descrizione ma non è questo il luogo per parlare della pellicola che invito tutti a riscoprire, in attesa dell’agognato seguito. Quello di cui discutiamo oggi è invece l’ultimo lavoro di una band meno nota del telefilm ma che meriterebbe più attenzione e almeno una volta nella vita una vostra presenza a un live.

Gli Xiu Xiu sono un’eclettica formazione californiana che ruota attorno al talento di Jamie Stewart e che, nel corso degli anni, ha visto più di una volta stravolto il proprio stile tanto quanto la sua compagine. Partendo da una materia prima New Wave, hanno esordito con lavori sperimentali degni di nota come Knife Play o A Promise di stampo sintetico ed elettronico, profondamente inclini ad ambientazioni malinconiche, sconfortate, mortifere, tragiche, tutto fino al capolavoro Fabulous Muscles in cui, mantenendo intatti i punti fermi estetici, hanno amplificato la loro vena Art Rock al massimo. Da qui in poi (era il 2004) hanno messo al mondo un numero impressionante di opere che non hanno disdegnato di accarezzare territori diversi e più morbidi come il Pop (“Angel Guts: Red Classroom”) ma anche lo Spiritual e l’Avant Rock oltre ogni immaginazione, con pochi lavori degni di nota e tante porcherie, specie in tempi recentissimi con Neo Tropical Companion Hearts, Tired of Your World… Peru e Kling Klang eppure quello che mi ha sempre spinto a tenerli d’occhio è un incredibile coraggio dovuto a una necessità di mantenere intatta la loro (in realtà sua, perché è Stewart il cuore degli Xiu Xiu) libertà espressiva.

A questo punto arriviamo a Plays the Music of Twin Peaks, una scommessa apparentemente persa in partenza viste la difficoltà di ridare linfa a una colonna sonora che è stata incredibile a tal punto da aver reso l’opera di Lynch ancor più intensa, terrificante, inquietante e memorabile tanto che bastano un paio di note di Angelo Badalamenti per far venire la pelle d’oca a noi trentenni che con l’incubo di Bob siamo andati a letto ogni sera.

Chi invece sa bene di cosa parliamo starà chiedendosi in che modo possano aver proposto questa parziale rilettura ed è quello che mi sono chiesto anch’io e che ho scoperto solo poco fa. Certamente lo stile tetro, perturbato e disperato degli americani ben si sposa con l’opera di Badalamenti eppure forte è il rischio che le esasperazioni sonore da loro adorate finiscano per stravolgere eccessivamente gli originali. Quello che, invece, hanno fatto ottimamente gli Xiu Xiu è stato abbassare i toni sugli aspetti loro meno consoni come quella certa eleganza jazzistica e quella soavità a metà tra Chamber e Dream Pop, per amplificare le parti più crude, brutali, senza per questo esagerare nell’interpretazione personale e suggerendo un punto di vista diverso allo “spettatore”, ora meno vittima sessuale e sacrificale al fianco della Palmer e più vicino alle figure malefiche del film. Tutto è meno tormentoso; le postille rumoristiche dilatano l’eccitazione e spezzano quell’inquietudine donando maggiore energia; la voce, nei pochi casi in cui compare, è perfetta nella sua disuguaglianza con l’originale per seguire l’impronta di questa versione disarmonica dei brani e il senso di angoscia è comunque riproposto con una forma dissimile (si pensi al lungo monologo -anzi no, ma non vi rovino la sorpresa- finale, “Josie’s Past”). Questo Plays the Music of Twin Peaks non può e non deve essere visto come una semplice riproposizione di vecchie canzoni e brani di una grande serie e soprattutto non deve essere inquadrato collegando le sue note alle immagini che avrete bene impresse nella mente se avete visto la serie. Quelle icone, le tende rosse, la luce soffusa, la nebbia del nord America, gli abiti sensuali delle ragazze del One Eyed Jacks, la convenzionalità yankee della casa di Leland, l’oscurità del bosco, sono già state descritte con perfezione e minuzia da Badalamenti e queste nuove trasposizioni non riuscirebbero a dare lo stesso effetto. Per riuscire ad apprezzare al meglio il collegamento tra audio e video dovreste vedere una versione di Twin Peaks che non è mai stata impressa su pellicola, mai probabilmente immaginata, una versione in cui ogni momento è vissuto nella testa disturbata dell’assassino.

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John Grant – Grey Tickles, Black Pressure

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Vive di paradossi affascinanti, questo terzo album dell’ex frontman de The Czars, di scarti minimi e diversioni apparentemente casuali. Un impianto minimale, di suoni elettronici qui frizzanti e là cupi, in cui John Grant sciorina flussi di coscienza tra vita quotidiana e paranoie notturne, zampate sensuali e paure profonde della malattia (è affetto da HIV) e della perdita. Pecca di Grey Tickles, Black Pressure è la sua linearità: sonora, quando questi brillii di beat secchi, questi fondali di synth, questa voce bassa e suadente iniziano a confondersi tra un pezzo e l’altro; e lirica, quando le rime baciate diventano un gioco ritmico più che una necessità poetica, quando il quotidiano si infiltra con troppa immantinenza per permetterci di uscire dall’hic et nunc di quella vita, di quel vissuto. La sfida vinta, invece, è sulla piacevolezza immediata, sul sapere essere profondamente Pop portando il minimalismo elettronico nell’area del Funk, del groove, del suonare cool intrinsecamente, senza sbavature, con un gusto melodico lanciatissimo che ricorda le grandi star inglesi, la scuola del titanismo popular anglosassone (potrebbe essere un Robbie Williams di un Rudebox meno paraculo, per intenderci), capace di suonare freak e insieme radiofonico, travolgente. Non so se questo disco passerà alla storia, ma di certo è un disco sincero fino alla nudità, dove John Grant si spoglia e, con un’ironia che fa trasparire una sensibilità malcelata, ci canta davvero il suo intricato vivere, le sue vibranti viscere.

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John Grant – Pale Green Ghosts

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L’abito non fa il monaco”, recita un vecchio adagio popolare. Infatti, a giudizio esclusivo della front cover – non eccezionale, ammettiamolo – il secondo appuntamento discografico di John Grant (già leader dei Czars), Pale Green Ghosts, si configura a prima vista come il solito e dozzinale prodotto Country statunitense, elemento che ben si accorda con l’estrazione geografica del soggetto in questione (la cittadina di Parker, Colorado). Ed invece no. Pale Green Ghosts é tutta un’altra storia. ”Non é lo stesso fottuto campo da gioco, non é lo stesso campionato e non é nemmeno lo stesso sport”, affermerebbe seccato Samuel Lee Jackson nei panni del sicario filosofo Jules Winnfield.

L’esordio solista di Grant si concretizza in Queen of Denmark, dato alle stampe nel dicembre 2010 ed accolto nel panorama discografico internazionale con il plauso unanime di critica e pubblico (album dell’anno secondo l’influente rivista specializzata Mojo). Il cantautore di Denver, dopo la militanza decennale negli Czars e la malinconica esperienza Folk Rock dei Midlake, persevera nel proprio percorso artistico dando libero sfogo al lato più sintetico della sua indole creativa, riportando alla luce (soprattutto nelle bonus tracks della versione deluxe) le fredde e marziali partiture elettroniche di New Order, Ultravox e Depeche Mode, straordinarie colonne sonore di una generazione indomita e ribelle che affollava i club Synth Wave sul finire dei mitici anni ottanta.

Tutto sembra girare per il meglio, quando… deus ex machina. Grant viene a conoscenza di una realtà infausta e terribile: la positività al virus HIV. A questo punto bisogna ricomporre con lucida pazienza i frammenti di un’esistenza trascorsa tra follie ed eccessi di ogni genere, archiviare definitivamente il passato nell’angolo più remoto della coscienza per cavalcare, ancora una volta, la cresta più alta dell’onda. Un bisogno impellente di tranquillità, da raggiungere ad ogni costo, con ogni mezzo. Il cantautore statunitense sceglie la via dell’esilio, emigrando tra i solitari ghiacci d’Islanda dove, nel celebre studio Oroom di Reykjavik, viene alla luce Pale Green Ghosts, con il fondamentale contributo artistico di Chris Pemberton (il tastierista che da tempo accompagna Grant nei suoi tour), Birgir Þórarinsson dei Gus Gus, Paul Alexander e Mckenzie Smith (rispettivamente bassista e batterista dei Midlake, presenti in due ballate ortodosse come “Vietnam” e “It Doesn’t Matter to Him”), il sassofonista Óskar Gudjónsson e la celeberrima Sinead O’Connor nell’inedita e compiaciuta veste di backing singer (autrice di una splendida performance in “Why Don’t You Love me Anymore”). Il multiforme e tormentato Pop/Folk Rock targato Czars/Midlake viene ripetutamente filtrato attraverso un flusso elettronico malsano, percussivo e minimale (particolarmente evidente nella title track “Pale Green Ghosts”), vero e proprio marchio distintivo del talentuoso Birgir Þórarinsson a.k.a. Biggi Veira, partorito attraverso l’ausilio di drum machine e sintetizzatori dal sapore squisitamente ottantiano. Troneggia su tutto il sorprendente registro baritonale di Grant, in grado di regalarci, per l’ennesima volta, liriche estremamente pungenti e sarcastiche (assolutamente fantastico in “GMF”: “sono il più grande figlio di puttana che potrai mai incontrare”); esperienze di vita vissuta, cronache di prostrazione e rivalsa, omosessualità ed omofobia, fino alla sconvolgente rivelazione della positività all’HIV, affidata al sax tenore di Óskar Gudjónsson nel brano “Ernest Borgnine” (“dad keep looking at me says I got the disease…”).

Per i feticisti del dettaglio: lo stesso John Grant, rievocando con una certa dose di malinconia gli anni ruggenti della gioventù, rivela che all’epoca era solito percorrere l’interstate 25 per raggiungere i vari club Synth Wave della zona; nei quaranta chilometri del tratto Denver – Boulder l’autostrada era fiancheggiata da numerose piantagioni di ulivi russi, le cui piccole foglie argentate acquisivano una particolare luminosità al chiaro di luna (le Pale Green Ghosts del titolo, per capirci). Fenomenologia e poetica dell’immagine, celebrazione tramite emotività e ricordo, rappresentazione figurativa che di per sé vale già il prezzo il biglietto.

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