Diciamocelo subito: Universal Themes è il classico disco di cui ci si può innamorare solo per riflesso. Se in calce non recasse la firma di Mark Kozelek, sarebbe di gran lunga più difficile dedicare un’ora abbondante del proprio tempo all’ascolto del settimo lavoro in studio targato Sun Kil Moon. Ancora una volta il cantastorie dell’Ohio di certo non mette a suo agio l’ascoltatore, per le lunghe ininterrotte scariche di parole incuranti di ritmi musicali e narrativi, per il costrutto sonoro su cui si poggiano, di frequente scarno, quasi sempre sghembo e lunatico.
Per le stesse ragioni Universal Themes non è un disco per neofiti. Il lavoro cristallizza definitivamente la formula di un progetto nato dalle ceneri Slowcore dei Red House Painters ed evolutosi fino a giungere al ruvido songwriting di Benji dello scorso anno. Sotto il moniker Sun Kil Moon, Kozelek ha ormai scelto di vestire i panni del menestrello, cantore delle sue stesse eroiche gesta (siano esse un tour mondiale o il sopravvivere alle brutture di questo mondo), con poche pizzicate di chitarra e uno Spoken violento, che quando non inghiotte le note finisce per snobbarle. A tratti ancor più ostica dei flussi di coscienza del suo predecessore, in Universal Themes la narrazione procede col ritmo della cronaca e una perturbante maniacalità nella descrizione dei dettagli.
Delle otto tracce che compongono il disco, molte sfiorano i dieci minuti. La dinamica dei racconti nasce dal contingente, che diventa pretesto per elucubrazioni su temi ardui e sconfinati. A far da sfondo per tutta la durata dell’ascolto, il più universale dei temi (e il più sviscerato nelle produzioni di Kozelek): la morte e tutte le sue implicazioni.
To live another day is much better than to not: tra gli arpeggi bucolici e le percussioni stillicide di “The Possum”, un pensiero positivo generato dal ricordo di un opossum morente nel retro di casa sua placa la frenesia alienante degli impegni quotidiani.
Le mandole gitane di Admiral Fell Promises tornano in “Birds of Flims”, un report didascalico dei giorni trascorsi sul set di “Youth” di Sorrentino, intriso di nostalgia di casa propria, fatti e sensazioni che si alternano scanditi dal verso costante di una specie di volatili di cui nessuno a Flims sembra conoscere il nome. And I thought: what is life if not a fight? Non è tanto il fatto che Kozelek si lasci andare allo sproloquio: è che in alcuni casi le conclusioni a cui giunge sono così universali che rischiano di suonare scontate.
Le ambientazioni sonore mutano spesso. Drastici intermezzi strumentali violentano le storie in cui si annidano, secondo strategie compositive lontane ormai anni luce dalla forma canzone. In “Ali/Spinks 2” un ossessivo cantato Rap di repente si interrompe per schiantarsi in un collasso emotivo di distorsioni Garage, procedendo per alternanze di musica e parole, come se non ci fosse abbastanza spazio per entrambe.
Prolisso anche nei titoli, in “With a Sort of Grace I Walked to the Bathroom to Cry” torna in Ohio e sembra un encore di Benji, tra digressioni all’infanzia e graffianti arpeggi Hard Rock.
La tensione fluisce di rado: nel raffinato arrangiamento delle chitarre di “Garden of Lavender”, e ancor più in “This is my first day and I’m an Indian and I work at a gas station”, la più melodica del lotto, ancora una volta in compagnia di Ben Gibbard.
Col Kozelek di oggi l’impresa è riuscire a valutarne la cifra stilistica delle produzioni senza lasciarsi influenzare dalla singolarità del personaggio, che divide il mondo indipendente esattamente a metà tra veneratori e haters. L’intimità disturbante à la Sufjan Stevens e l’approccio schietto di Bill Callahan non bastano a comporre il puzzle di un Kozelek che sovverte ogni priorità: gli arrangiamenti sono una mera superficie su cui stendere i propri pensieri ad asciugare, in una narrazione minuziosa, sfiancante e senza filtri, in cui la lecita introspezione cantautoriale degenera nell’autoreferenzialità senza pentirsene.
Prendere o lasciare.