Abbiamo davvero bisogno di un ulteriore album Post Rock e di una nuova band australiana che si metta sulla scia dei Dirty Three andando ad spalleggiare formazioni più note come Sleepmakeswaves o Tangled Thoughts of Leaving? Probabilmente non c’è alcuna necessità vitale ma, per i cultori del genere strumentale d’indole “cinematografica”, c’è sempre la voglia di lasciarsi sopraffare da quelle suggestioni soniche che solo questo stile, torbido più nella definizione che nel concreto ascolto, riesce a evocare e la provenienza geografica non può che fare da garante di una certa dote espositiva che quasi mai è mancata proprio a chi quel peculiare stile l’ha portato oltre i confini della nazione più selvaggia che esista. Chiariamo che i Dumbsaint non sono proprio una compagine all’esordio, andando ad affondare le radici nel 2009 e avendo concepito il primo Lp tre anni fa. Something That You Feel Will Find its Own Form fu l’ipotetico trampolino di lancio che permise a James Thomas e soci di iniziare un cammino artistico che li ha portati a questo Panorama, in Then Pieces passando per i palchi d’Australia in compagnia di This Will Destroy You, Russian Circles, Boris ed Earth. Quel trampolino avrebbe potuto far volare i Dumbsaint se solo avessero avuto ali abbastanza possenti da reggere il peso di un linguaggio che non fa dell’originalità e dell’orecchiabilità melodica propria caratteristica singolare. Panorama, in Then Pieces è un progressivo susseguirsi per quasi un’ora di ritmiche potenti, controtempi non eccessivi e chitarre ad alternare fasi più lievi e oniriche ad altre più violente e quasi Noise. Un disco assolutamente di valore sotto l’aspetto estetico e tecnico ma che ha quel sapore manieristico e ridondante che stanca già al primo ascolto. Un’opera che cerca di mostrare un lato oscuro che l’ascolto non riesce a evocare e che, probabilmente, potrebbe trovare la sua forza nelle immagini, giacché realmente quest’album ha una componente cinematografica che ora non mi è richiesto di analizzare. Quello che ho adesso è un ottimo artwork che racchiude solo gradevole mediocrità.
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Tangled Thoughts of Leaving – Yield to Despair
Dopo lo split del 2009 in compagnia degli Sleepmakeswaves, australiani come loro e postrocker come loro, e a quattro anni di distanza dall’esordio full length Deaden the Fields, tornano i ragazzi di Perth con cinque brani che uniscono gli aspetti più poderosi dell’Hardcore, alle precisioni del Math Rock di scuola statunitense anni Novanta, il tutto in forte chiave Post Rock solo in parte vicina alle icone leggendarie 65daysofstatic e Godspeed You! Black Emperor. Se gli aspetti più aggressivi e nerboruti, quasi Sludge e Post Metal a voler rischiare, sono subito messi sul piatto con l’opening “The Albanian Sleepover – Part One”, specie nei primi cinque minuti, ricalcando lo stile mogwaiano di The Hawk Is Howling soprattutto (leggi “Batcat”) la part two dello stesso brano ci mostra i Tangled Thoughts of Leaving sotto tutt’altra veste, grazie ad un uso matematico del piano, delle ritmiche, dei tempi e delle note, lambendo territori Neo Classical. Si abbassano ancora i toni con “Shacking Off Futility”, cupa ed emozionante, perfetta per evidenziare tutto l’eclettismo della band. Con “Downbeat” si torna in territori più impetuosi, infernali e oscuri, grazie ad una miscela di Noise, Avant Rock, Doom, ovviamente Post Rock e divagazioni Modern Classical prima della conclusiva e quasi toccante “Yield to Despair” che sembra voler chiudere l’album mostrandoci il lato più disturbato della formazione australiana, più tormentato e inquieto, nel suo crescendo sonico. Yield to Despair è un disco di non facile interpretazione, ponderoso per orecchie non abituate e appesantito da una moltitudine di similitudini e dalla poca freschezza del genere in sé eppure realizzato con una cura non indifferente e trasudante una sensibilità artistica notevole. Se OzProg lo ha definito come se i Dirty Three suonassero con the Necks, io non vedo loro di scrivere che i Tangled Thoughts of Leaving suonano esattamente come i Tangled Thoughts of Leaving.
Sleepmakeswaves – Love of Cartography
Quando decollano le prime note (“Perfect Detonator”) del secondo full length targato Sleepmakeswaves, la prima preoccupazione da cui il mio istinto ha cercato di sfuggire è stato dovermi sciroppare dieci pezzi di una mistura Emo Pop dalle venature sinfoniche con un qualche vocalist dall’imbarazzante intonazione in stile Gerarg Way (My Chemical Romance) a massacrare la mia pazienza. Per fortuna, la memoria funziona ancora abbastanza bene e, con facilità, ho potuto distinguere, nelle note di Love of Cartography, lo stesso stile (una specie di Ambient Rock prettamente strumentale) melodico e dalle tendenze a una certa epicità che mi colpì, senza far danni, tre anni orsono con …And So We Destroyed Everything e ancor prima, nel 2008, con In Today Already Walks Tomorrow (non sono queste però le prime produzioni del quartetto di Sidney, le cui radici vanno invece ad affondare ancor più in là, agli inizi del 2007).
Rispetto al passato, il sound di Jonathan Khor (chitarre), Alex Wilson (basso, programming, tastiere), Tim Adderley (batteria) e Otto Wicks-Green (chitarre), diviene ancor più rapsodico, gonfiandosi di un’energia che si sfalda nell’ inoltrarsi dei minuti, disfacendosi nell’incapacità di plasmare una trepidazione sonica di sorta. Perspicace la scelta di non abbandonare la melodia, alla ricerca di una sperimentazione che li avrebbe resi ancor di più difficile ascolto e costruttivo è l’uso dell’elettronica che si fa più incalzante da “Emergent”. Eppure, Love of Cartography annoia, non incanta, non fornisce la giusta carica che solo certi album strumentali riescono a dare (penso a Lift Yr. Skinny Fists Like Antennas to Heaven! dei Godspeed You Black Emperor! o The Earth Is Not a Cold Dead Place degli Explosions in the Sky) e finisce per somigliare a un album ancora abbozzato al quale si debba aggiungere una voce, più che a un’opera compiuta. Provano a spezzare la monotonia alcuni brani più elastici come “A Little Spark” e convincono altri più vicino al rock strumentale moderno (“How We Built the Ocean”) ma nel complesso, nel già intricato e contorto mondo del fosco Post Rock, c’è ancora troppa roba con un passo decisamente oltre quello di questi nuovi Sleepmakeswaves.
Toehider – What Kind of Creature Am I?
Ci sono due preamboli da fare quando si parla di questa band australiana in attività da circa sei anni. Primo, il progetto di Michael Mills è esageratamente temerario e il risultato è senza ombra di dubbio di quelli che si faranno apprezzare dal pubblico innamorato del moderno Progressive Rock. A questo possiamo aggiungere che molto attraenti sono le illustrazioni a cura di Andrew Saltmarsh che ci riconducono al titolo stesso dell’opera, What Kind of Creature Am I?. Secondo, questo modo di suonare Prog mi urta parecchio i nervi; è pretenzioso, vecchio, inutilmente ridondante e sfiora in diverse occasioni l’autocelebrazione. La musica contenuta in queste dieci tracce è di chiara e manifesta influenza Queen, con particolare attenzione alla teatralità della lirica quasi a guisa di una Rock Opera che (così pare) si concreta in tutta la sua epicità, non priva di una discreta dose di umorismo, nelle esibizioni live. Noti, oltretutto, per la loro eccezionale prolificità che li ha portati a produrre ben dodici Ep nel giro di dodici mesi, i Toehider sprigionano un’energia pazzesca grazie alla velocità esecutiva strumentale e canora, grazie a ritmiche potenti e accelerate e a cambi di tempo da capogiro.
Eppure What Kind of Creature Am I? è proprio uno di quei dischi che non vedi l’ora di togliere dallo stereo, mettere da parte e dimenticare. Perché tutta quella tempra di cui parlo è troppo lontana dallo spirito di chi poi quei brani deve ascoltarli. E non bastano i diversi inserti strumentali, le citazioni, i tecnicismi e quant’altro a dare una parvenza di vitalità a un genere che, devo ammetterlo, mi stanca con facilità quando manca proprio di quello slancio produttivo che possa portarlo oltre quello che il Prog ha rappresentato negli anni passati. Non posso continuare ad ascoltare cose di questo tipo, come non ho tempo per andare a leggere altre stronzate di Gramellini o sprecare ore preziose dietro a film di Gabriele Muccino che m’indicheranno la via per la felicità. Abbiate pietà di me, ma per pulirmi le orecchie butto giù una dose massiccia di Hitchhiking to Byzantium.
Anubis – Hitchhiking to Byzantium
Se qualcuno dovesse porvi la domanda, stupida a dire il vero, su quale sia, a vostro avviso, il genere, lo stile musicale che più incarna l’idea di vetusto, cosa vi sentireste di rispondere? Non ho dubbi che il principale indiziato sia il Progressive ed è abbastanza chiaro anche il motivo di tale scelta. Il Rock Progressivo ha, del resto, già nelle sue fondamenta qualcosa di maturo, serioso, poiché voleva essere lo strumento per dare un valore più alto alla musica Rock. I testi e i brani erano complessi, lunghi, articolati e tecnici e non certo adatti a un pubblico grezzo, impreparato e proprio questa lacuna divenne l’arma principale di diffusione del Punk Rock, che, al contrario si basava su velocità, aggressività, semplicità. Con l’avvento del Punk, fu questo, con tutte le sue evoluzioni future, a incarnare l’archetipo di stile “giovane” e, man mano, il Prog divenne la risposta all’insulsa questione che trovate a inizio articolo. Eppure, ci sono band che sono riuscite negli ultimi anni, a rielaborare le lezioni del Progressive tornando a suonarlo non solo per un pubblico di esperti e “anziani” ascoltatori ma anche per le più fresche generazioni. Ovviamente, questo processo è necessariamente passato per le più disparate contaminazioni che ne hanno modificato sia la parte formale sia quella sostanziale, ma è indubbio che quanto fatto da band come i Marillion negli anni 80, i Porcupine Tree il decennio seguente e Tool o The Mars Volta all’inizio del nuovo millennio, è qualcosa di sensazionale.
In tale ambiente, s’inseriscono con cautela gli australiani Anubis, a dire il vero mai veramente capaci di imporre il proprio marchio a un pubblico anche solo moderatamente più ampio e che, con questo Hitchhiking to Byzantium spostano un poco indietro quel processo di rinnovamento del genere di cui abbiamo parlato. Cerchiamo di capirci, non si tratta certo di un lavoro mediocre o di scarso valore, anzi, probabilmente è questo il migliore dei dischi della band capitanata da Robert James Moulding e gli appassionati non dovrebbero certo lasciarsi sfuggire quest’uscita ma il punto è che tanta “classicità” in un disco Prog rischia di diventare un’autorete in pieno recupero, se mi passate la metafora calcistica. La principale novità rispetto alle opere precedenti sta nelle liriche e nella sua composizione. Non più affidate al solo Robert James Moulding ma ora lavoro di tutti i membri della band e quindi non più un unico fluire narrativo ma un insieme di diverse tematiche ed esperienze. Musicalmente nessuna novità, brani lunghi, epici, accenni di psichedelia, note di piano che fanno da sfondo agli assoli notevoli ma non eccessivamente sopra le righe. Tutto suonato alla perfezione, tanto che non ci sono dubbi che questo Hitchhiking to Byzantium possa essere annoverato tra le migliore uscite Neo Prog dell’ultimo decennio, almeno se a stilare un’eventuale classifica fossero fanatici di quel genere. Il problema è che io non lo sono, o meglio ho uno spettro di ascolti più ampio di qualunque tipo di fanatico ed ho interesse a che un album non sia solo di pregevole fattura ma possa anche rappresentare un passo avanti rispetto al passato, specie quando si tratta di musica che nella sua stessa definizione ha il nemico pubblico numero uno.