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Kiasmos – N/A

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Non una parola. Ma un cielo di suoni. A volte nuvoloso, a volte minaccioso di neve, a volte completamente annebbiato da non farsi vedere. Un’infinità di sfumature di grigio insomma (nessuna citazione letteraria!) e qualche sprazzo di timido sole del Nord, giusto ad intiepidire la pelle, seccata da un freddo costante ma più vitale del calore. Già, cosa potevamo pretendere da un progetto definito “Elettronico sperimentale” portato alla luce da due islandesi (per la cronaca Olafur Arnalds e Janus Rasmussen, quest’ultimo leader dei Bloodgroup)? In questo caso la geografia è la perfetta cornice delle vibrazioni sonore, si perché di vere e proprie canzoni non si può parlare. Gli otto episodi del progetto Kiasmos sembrano ad un primo ascolto essere un divertente esercizio di stile, dove la tecnologia incontra il classico, le diavolerie dei suoni computerizzati abbracciano violini e pianoforte. Sarebbe in questo caso tutto fine a se stesso, facile da ballare ma anche da piazzare in un lounge bar per un aperitivo con tanto alcol e poche tartine. In verità scopriamo presto che non è molto difficile andare oltre a tutto ciò.
Le tracce sono intitolate con una e una sola parola, ad indicare che li dietro ci sta il mondo dei suoni. La marcia di “Lit” è granitica ma intima, con le bacchette di legno che sembrano suonare direttamente sull’hard disk di un pc. La fusione tra i due mondi è poi completata da un intreccio d’archi da grande opera classica. I brani sono tutti attaccati, senza pause, come una lunga odissea di emozioni, tutte caratterizzate da un freddo polare, che non blocca però lo scorrere del nostro sangue, turbato come le onde di questo oceano. In “Held” un orecchio Pop (come il mio dopotutto) si sarebbe aspettato un bel canto, la voce soave di Bjork che esce dalle acque quasi come una sirena. Ma nulla di tutto questo accade e le note di piano soddisfano comunque qualsiasi richiesta. “Looped” e “Swayed” sono più ritmate, pronte alla dancehall, loop insistenti e sfumature sempre diverse, sempre vellutate e soffici, quasi ad introdurre una fitta nevicata. Lo xilofono colora l’eterna cavalcata di “Thrown”, le acque sono in tensione, quasi ad indicarci aria di tempesta, scampata all’arrivo dei violini sul finale. Forte e massiccia è invece “Bent”, quasi a creare un contrasto, ma tutto si placa poi in “Burnt”. Ultimo gioiello di dieci minuti in cui ogni dettaglio già osservato ritrova il suo spazio, quasi come un riassunto di tutto il viaggio sonoro fatto in compagnia del duo. L’odissea è finita e la miriade di suoni ci ha regalato le sue parole. Che sono molto più profonde di quelle trovate in innumerevoli dischi Pop.

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The Knife – Shaking the Habitual

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Un gioco di percussioni e vocalismi in “A Tooth for an Eye” apre Shaking the Habitual, il quarto disco dei The Knife. Ritmi alla Talking Heads che appaiono forse un po’ datati, ma al contempo proiettati negli anni 2000, in un perfetto caos e disordine sonoro che però non è disprezzabile e che ritroveremo più avanti soprattutto in “Without You my Life Would be Boring”. Annunciato già nel 2011 sul sito della band e nel 2012 con un breve teaser su Youtube, l’album venne dato alle stampe nei primi mesi del 2013 tra curiosità e soddisfazione / insoddisfazione dello zoccolo duro dei fans.

Certamente la performance vocale appare ancora una delle più intriganti della scandinavia (potrebbe contendere lo scettro alla celebre Bjork), ma dal precedente Silent Shout sono passati ben sette anni e quindi forse ci si attendeva un po’ di più da un gruppo dall’indubbio talento e spessore come il duo svedese. Elettronica allo stato puro (sempre e comunque) che soffre tuttavia di una durata esageratamente lunga (oltre settanta minuti sono davvero troppi da digerire persino per le orecchie più forti) e una scrematura dei brani avrebbe forse giovato ad apprezzare di più questo lavoro che appare a tratti intrigante, a tratti noioso.

Il coltello scandinavo è tornato quindi a colpire, ma lo fa con timidezza, senza osare mai troppo, senza spingersi oltre quei confini che da sempre lo contraddistingueva, mentre passava da una musica House a un Synth Pop post moderno senza eguali. Durante “A Cherry on Top” sembra infatti di stare ascoltando un disco solista di Thurston Moore o di Lee Ranaldo dei Sonic Youth (ma i loro sono sempre lavori geniali) e se non fosse per l’incantevole voce (che arriva però dopo cinque minuti!) verrebbe voglia quasi di passare alla traccia successiva.

Meno male che a rialzare la media ci pensano capolavori sonori quali “Raging Lung” o “Fracking Fluid Injection” in cui il duo osa davvero tanto ed ammalia l’ascoltatore e nella finale “Ready to Lose”. Insomma un disco che non passerà di certo alla storia e che quasi sicuramente dividerà i fans del gruppo.

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Rivoluzioni musicali in mostra alle OGR di Torino

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Quando si parla di musica, ognuno ha senza dubbio i propri riferimenti, i propri miti, le stelle polari che lo guideranno lungo il corso della propria esistenza ,in lungo e in largo, a destra e manca, forever and ever, “finché morte non vi separi”. Alcuni di questi miti, però, non fanno solo parte del nostro universo musicale, ma sono delle vere e proprie pietre miliari della storia della musica, simbolo di un’ epoca, esempio per le generazioni future ed esponenti di rivoluzioni che hanno deviato il corso della storia stesso.  Ed è proprio a questi Dei dell’Olimpo musicale che fa riferimento Alberto Campo, curatore della mostra fotografica Transformers – Ritratti di Musicisti Rivoluzionari, allestita presso i Cantieri OGR di Torino e visitabile dal 28 settembre al 3 novembre 2013. Il filo conduttore che la caratterizza è quello della “Trasformazione”, tema tanto caro alle ex Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie (una delle ultime testimonianze della storia industriale della città), oggetto di un recente restauro che le ha restituite alla popolazione torinese sottoforma di “Cantieri Culturali”, sede di eventi musicali, teatrali, mostre, fiere ecc.

Ed eccoli allora sfilare uno per uno i Grandi della musica, in una serie di scatti che li ritrae durante la loro vita di artisti (con una predilezione per quelli realizzati durante gli eventi live) e di comuni mortali; un richiamo all’idea della “Trasformazione” come trapasso dalla dimensione pubblica a quella privata. Le fotografie sono attinte dal vasto bacino messo a disposizione da Getty Images, ed abbracciano sessant’anni di musica (dall’avvento del Pop negli anni ’50 all’era del web e delle tecnologie digitali odierne); il sottofondo musicale è una lunga colonna sonora composta da canzoni-simbolo degli artisti considerati. Campo fa cominciare tutto con Elvis (e come dargli torto!), opportunamente inserito nella sezione “Origini della Specie” e fotografato durante una delle sue celebri mosse di bacino. La seconda tappa porta il titolo de “l’Invasione Britannica” ed i protagonisti non potevano che essere Beatles e Rolling Stones, considerati perennemente in antitesi. Gli anni ‘60 si tingono anche di Folk e dei ritratti di un giovanissimo Bob Dylan, che con la sua “Blowin’ in the Wind”, cantata come inno di chiusura dei comizi di Martin Luther King, diviene il rappresentante della “Canzoni di protesta”, mentre Miles Davis e James Brown lo sono del Jazz e del Soul-Funky nella sezione “Black Power”. Si conclude un decennio e ne comincia uno nuovo, segnato dall’ “Utopia Hippie” che vede i suoi massimi esponenti nei Doors e in Jimi Hendrix (immortalato mentre dà fuoco alla chitarra elettrica durante il festival di Monterey), mentre il Transformer per eccellenza, David Bowie (nelle vesti di Ziggy Stardust) trova posto nella sezione “Rock a Teatro” insieme alla primissima formazione dei  Velvet Underground (fotografati con l’immancabile Andy Warhol ), quella di cui faceva parte anche la splendida Femme Fatale Nico, immortalata in un primo piano stupendo, mentre indossa una maglietta riportante la scritta Fragile. Nella sezione “gli Outsider” si piazzano Tom Waits e Frank Zappa, mentre l’unico artista italiano preso in considerazione, Ennio Morricone, non poteva che collocarsi nella sezione “la Musica Come in un Film”. Passano gli anni, cambia il modo di far musica, che diventa “definitivamente prodotto dal vivo su larga scala”: Led Zeppelin e Pink Floyd sono esempio dell’ avvento dei grandi concerti che riempiono gli stadi. Dall’altro capo del mondo, sempre in quegli anni, “One Love”, Bob Marley si faceva portavoce di un nuovo genere musicale: il  Reggae. Altra rivoluzione musicale degna di nota in quegli anni è il Punk, rappresentato nella sua forma più grezza dai Sex Pistols (lo scatto che ritrae Johnny Rotten nel tentativo di armeggiare un paio di forbici enorme parla da sé) e nella sua forma più colta da Patti Smith, la sacerdotessa del Rock che sembra non aver alterato con gli anni l’espressione che ha in volto mentre canta. Gli anni ‘80 sono quelli dell’ Hip Hop dei Beastie Boys, del re e della regina del Pop: Michael Jackson e Madonna. Gli anni ’90 segnano una frattura col decennio precedente grazie all’avvento del Grunge e dei Nirvana: il primo piano di Kurt Kobain troneggia in sala (forse è una delle immagini più belle della mostra), mentre ha in mano la chitarra che riporta la scritta “Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face”. La mostra arriva fino ai giorni nostri, e si conclude con l’ “Evoluzione della Rockstar” verso una musica sperimentale e ricercata, i cui esponenti sono rappresentati da Björk e Radiohead (riconoscere una foto scattata durante il loro ultimo tour del 2012 ti fa sentire fiero di esserci stato) per chiudersi definitivamente con l’avvento della musica elettronica dei Kraftwerk e dei Daft Punk nella sezione “Technologia”.

I grandi assenti? Tanti, ognuno sicuramente troverà qualche suo “mito” mancante all’appello. In ogni caso, non è un buon motivo per privarsi di questa mostra, che non è una semplice esposizione fotografica, ma un viaggio visivo e sonoro indietro nel tempo, verso tappe della storia e rivoluzioni musicali compiute dai musicisti che tanto amiamo. Allacciate le cinture, si parte.

Fonti: http://www.ogr-crt.it/events/transformers-ritratti-musicisti-rivoluzionari/

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Múm – Smilewound

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Il panorama musicale islandese, mai come negli ultimi anni, ha attirato così tanto l’attenzione su di sé. Sulla scia dei successi internazionali di Björk prima e di Sigur Rós dopo, sono emersi band della forza di Amiina, Agent Fresco, FM Belfast, Of Monsters And Men e i Múm. Pur con declinazioni molto diverse in ogni esito, la formula che sta alla base delle composizioni di questi artisti sembra essere sempre la medesima: una commistione di Pop, musica colta, folklore, elettronica, ciascuna in percentuale diversa a creare un panorama musicale variegatissimo ma anche immediatamente collocabile sul piano culturale-geografico.
Uscito il 6 settembre scorso, Smilewound, l’ultimo disco dei Múm, sembra essere una summa di tutte le precedenti esperienze della band. Il disco si apre col singolo “Tootwheels”, un brano dal sapore particolarmente trip-hop, con un contrappunto di archi pizzicati e pianoforte che lascia lo spazio a sonorità elettroniche da carillon. “Underwater Snow” è una ballad con un’introduzione pianistica alla Yann Tiersen e il cantanto alla Julia Stone (o Emiliana Torrini, se vogliamo pescare fra i connazionali della band). Una rivisitazione degli artifici elettronici anni 80 sembra essere la base di “When Girls Collide” (come della successiva “Candlestick”, in fondo), con un motivetto in loop ipnotico e quasi fastidioso, che però ben si amalgama con le voci spesso in deelay. “Slow Down” ricorda particolarmente Björk ed è forse la traccia più studiata e costruita, con un continuo slittamento di accenti ritmici e l’uso massiccio di rumori coloristici. “One Smile” è il brano che più si discosta dall’omogeneità stilistica del disco: la melodia principale, affidata a un metallofono, rimanda all’estremo oriente e la freddezza del timbro di questo strumento viene subito scaldata dalle chitarre e dagli archi, in un crescendo ritmico-dinamico che diventa una specie di cavalcata nervale frenata solo dalla delicatezza vocale. Per “Eternity Is the Wait Between Breaths” sembra che i Múm si siano rivolti nuovamente a Tiersen: il brano sarebbe perfetto per una sonorizzazione cinematografica, con il mix di rumori sintetici e patina vintage con cui è costruito. “The Colorful Stabwound” è probabilmente la traccia più Pop di tutte, sia per la linea melodica, ben più lineare e convenzionale, sostenuta solo dal basso che scandisce l’incalzante ritmo della batteria, sia per la costruzione strofica.

“Sweet Impression” sottolinea moltissimo la precedente impressione sulla parentela fra la voce dei Múm e le rese canore di Emiliana Torrini e Julia Stone. La mia traccia preferita, comunque, è “Time to Scream and Shout”,  meravigliosamente ossimorica, visto che invece di essere urlata, l’esecuzione è placida, greve, con atmosfere trasognanti alla Himogen Heap. Piccola chicca del disco è la collaborazione per “Whistle” con Kylie Minogue che, chi l’avrebbe detto, si amalgama perfettamente col sound della band e non solo non disturba, ma conferisce addirittura un certo tocco di grazia al brano. Smilewound è un album veramente da ascoltare, un bello spaccato della produzione di una band e un gradevolissimo susseguirsi di ispirazioni e suggestioni.

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Cocorosie – Tales Of A Grass Widow

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Arrivate al quinto album, le sorelle pazzoidi Bianca e Sierra Casady in arte Cocorosie, da un vezzeggiativo forgiato dalla loro madre, mantengono invariata la formula di alt-pop nostalgico che hanno usato per farsi conoscere dappertutto, e tra odi e amori che il pubblico e critica gli riversano addosso, loro, le sorelle lunari con questo Tales Of A Grass Widow, dimostrano quanto sia importante fregarsene di tutto e tutti per andare avanti, non per una alternativa selvaggia, ma solamente per una presa di pugno testarda di fare dischi per farli, un azzardo che si perpetua da tempo e senza . osiamo dire – ritegno.

Come sempre uno strano miscuglio torbido ed impreciso tra Bjork e Bath For Lashes, un vezzo pseudo-cantautoriale che vorrebbe maliziosamente lasciare tracce di sé e illuminare di bagliori i nuovi percorsi del Rock in generale, ma questi brani non danno sostanza, sembrano quasi un drama pentecostale che non solo non vanno  a fondo per fuggire via, ma rimangono a galla ad infastidire orecchie esauste e istinti mostruosi a distruggere con un potente cazzotto l’innocente impianto stereo di proprietà. Sapori retrò e una lancinante trascendenza che cresce come una febbre maligna e che si impossessa di ogni poro d’ascolto, tracce – per rimanere prettamente al giudizio critico da mestierante – che non alleviano nessuna forma di nostalgia, malessere e soglie minime di sopportazione.

Forse le nostre sorelle Casady non si sono rese conto che non è per niente facile – dopo magari un  esordio sbalorditivo – seguitare a mantenerne alte le vibrazioni, magari per loro l’azzardo è una forma di potere o- ancor peggio – che seguitare a tormentare l’alternative sia cosa saggia e da prendere come esempio, ma la verità sta nel mezzo, che la loro propulsione primaria è svanita via e non gli resta che abdicare e chiudersi per qualche annetto nel silenzio e ricostruirsi una fisionomia sonora; undici brani  – pescando a caso – versati ad un Pop monco, da prendere con le molle “Child Bride”, “Tears Of Animals” con vellutate francesi a fare da sfondo, il senso dei folletti delle fiabe “Broken Chariot o i fumi divinatori hippies che ancora si aggirano fecondi tra le trame di “After  The Afterlife”, un saliscendi di romanticismi out e frivoli.

Non si vuole infierire contro le donne, solamente che queste Cocorosie  senza controllo sono in giro ancora a piede libero purtroppo, e la cosa peggiore che seguitano a fare dischi, e questo ultimo “spreco di tutto” ce lo potevano evitare. In una parola, inutile.

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