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Have a Nice Life – The Unnatural World

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Ascoltando il secondo disco degli Have A Nice Life, The Unnatural World, si sente un brivido lungo la schiena, quasi come se la morte per settantuno minuti rimarcasse ossessivamente la sua sovranità sulla vita. Dan Barret e Tim Machuga continuano imperterriti, dopo sei lunghi anni dal loro concept Deathconsciousness, a tuffarsi nelle acque più buie dell’animo umano con una passione e un trasporto atroce, congelando minuto dopo minuto le fioche speranze di un individuo alla ricerca della propria stabilità, annullandone completamente l’istinto di autoconservazione. L’eco arriva da lontano, come la loro musica distesa su una fitta coltre sonora, riportandoci indietro a più di tre decenni fa nella nebbiosa periferia di Manchester, dove un ragazzo appassionato di Rock e poesia cantò al mondo la sua disperazione, il senso diinettitudine totale nei confronti tutto ciò che lo circondava ed una solitudine siderale, finendo poi soppresso da tanto peso a soli ventitré anni. Ma The Unnatural World va al di là di semplici riferimenti didascalici e musicali; la sofferenza ce la senti come una morsa che ti stringe lo stomaco e ti lascia senza respiro.

“Guggenheim Wax Museum” apre l’album con un poderoso synth distorto memore dei Depeche Mode di Black Celebration; un cantato baritonale, caldo molto simile a Dave Gahan ma con qualche feedback in più. “Defenstration Song” non rallenta il fiato: un Post Punk diretto e veloce condito di chitarre Post Gaze e litanie industriali sottovoce. L’eterea “Burial City” ci trascina con calma apparente, verso la dissoluzione con tocchi di Ambient; il Drone ancenstrale di “Music Will Unntune the Sky” richiama riti funebri di vestali deliranti. Il capolavoro dell’ album è “Unholy Life” dove basso e batteria creano una struttura ritmica gelida e rassicurante infranta dallo strillo di una lancinante chitarra Noise. “Emptiness Will Eat the Witch” chiude il cerchio con il suo incedere lento e delicato, la chitarra tratteggia contorni indefiniti, il lamento di Barrett è struggente e denso di tetra inquietudine, di chi ha accettato l’ineluttabilità del proprio destino (ricorda molto il Robert Smith di Faith). Un disco non facile: non si gioca a fare il maudit ma ci si confronta con le proprie paure e angosce più recondite , se non si hanno i nervi saldi  ci si può far male.

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