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Recensioni | Giugno 2016
Never Trust – The Line (Alternative Rock) 6,5/10
Energico Punk’n’Roll influenzato dai Paramore degli inizi e dalla melodia acida dei Guano Apes. Il timbro camaleontico di Elisa Galli conferisce ai brani una marcia in più. In “Turmoil” aleggia lo spettro dei Lacuna Coil, aprendo le porte ad influenze Gothic che hanno un senso compiuto nel contesto del brano. Peccato che le cartucce più spinte vengano sparate tutte nell’arco dei primi pezzi, ammorbidendo troppo il sound col passare dei minuti.
[ ascolta “A.I.M.B.” ]
Anadarko – Tropicalipto (Post Rock, Noise) 4/10
Gli Anadarko sono un trio di Trieste e propongono un Post Rock molto spigoloso, fatto da riff netti e decisi ripetuti in loop, vitalizzati ogni tanto da influenze Jazz. Quasi tutti i brani hanno lunghi momenti di ripetizione, ma risultano monotoni non avendo molte stratificazioni sonore e cambi di ritmo. Questo fa si che non si riesca mai a catturare l’ascoltatore e trasportarlo nel mondo raccontato. La ripetizione non genera ossessione, i suoni non ti lanciano nel cosmo o ti rinchiudono in un quadro post apocalittico. La sensazione e che ci si trovi davanti a brani figli di sessioni di improvvisazione piuttosto che a lavori rifiniti e cesellati da sofisticati incastri sonori. Le basi ci sono ma andrebbero esplorate e ampliate.
[ ascolta “Aterfobia” ]
Hoax Hoax – Shot Revolver (Post Rock, Noise) 4/10
L’ambizione di questo progetto è strettamente legata alla dimensione live, perchè è quella di creare un palcoscenico globale dove ciò che viene offerto per l’esperienza è al punto di incontro tra la musica degli Hoax Hoax, le video proiezioni e la luce. Nel loro Post Rock ci sono tanti sconfinamenti, come col Noise di “Huacos”, ma talvolta nettamente fuori contesto. Nel complesso quello che manca non è un senso logico ed organico, ma è un lavoro che senza il contesto multimediale non può essere apprezzato a pieno.
[ ascolta “Ablution” ]
Light Lead – Randomness (Dream Pop) 6/10
I bresciani Davide Panada, Beppe Mondini e, soprattutto, la voce di Michael Israeli confezionano questo Ep d’esordio dal sapore vagamente Beach House, anche nello stile vocale molto simile a quello di Victoria Legrand, ma con una maggiore semplicità e, purtroppo, decisamente meno talento. Eppure le cinque tracce di Randomness rapiscono già ai primi ascolti, grazie a suoni incastonati alla perfezione tra i vuoti delle corde vocali e a melodie eteree e rilassanti. Assolutamente da rivedere sulla lunga distanza, partendo dalla straordinaria opening “We Won’t Get Lost”.
[ ascolta “We Won’t Get Lost” ]
Rufus Party – Connections (Alternative Rock) 3/10
Gli emiliani Rufus Party gonfiano il proprio ego ri-presentandosi con un’opera che vuole essere una sorta di concept sul collegamento che intercorre tra gli uomini e la realtà attuale, sulla saldezza dei rapporti e delle relazioni che si instaurano tra i diversi attori che solcano il palco della vita. Una sorta di concept che però concept non è e che, dal punto di vista musicale, miscela Blues, Soul, Grunge in un miscuglio informe, banale, mal costruito e dal sound che oscilla tra inutilità e mediocrità. Cantato interamente in inglese, Connections è tutto quello di cui non avevamo bisogno, gradevole come una rassegna di band locali a costo zero alla sagra della birra di un paesino di provincia.
[ ascolta “Mothership Connections” ]
Mandela – Paint-sweating Hands (Alt Jazz) 7/10
Ottimo e purtroppo breve concentrato di Alt Jazz sinuoso e avvolgente come le spire di un grosso, lucido serpente. I cinque Mandela ci trasportano sul fondo di un oceano che si agita maestosamente e con placida grazia, tra il torrido di richiami esotici e il rarefatto di atmosfere nebbiose. Tastiere e synth mai fuori luogo, batterie che sanno venire in primo piano per poi arretrare, chitarre frizzanti e inserti di fiati che pennellano sapienti. Più cool di così si gela.
[ ascolta “Massive” ]
Weird Black – Hy Brazil (Psych Pop) 7/10
Italianissima formazione dedita a esperimenti lisergici ma senza prendersi troppo sul serio, che alla lezione Neo Psych dei C+C=Maxigross applica l’approccio scanzonato e Lo Fi di Mac DeMarco e una mollezza Folk da menestrelli d’altri tempi, elettrificata nei momenti opportuni, ad aprire parentesi sinistre (“In The Grave Of Lord”) oppure semplicemente a ricondurci nel presente, evitando abilmente di cadere in mere citazioni.
[ ascolta “Despite The Gloom” ]
Leave The Planet – Nowhere (Dream Pop, Synth Pop, Nu Gaze) 6,5/10
Duo londinese dalle origini italiche, i Leave the Planet sono Jack ai riverberi e Nathalie ai sussurri Shoegaze. Il Dream Pop del loro EP di esordio cavalca l’onda sintetica revivalista à la Slowdive, per sei gradevolissime tracce fatte di molti layer, soffici e giustapposti. L’assaggio stuzzica il palato, non resta che augurarsi che alla prova in full-length i due arrivino con qualche elemento in più a personalizzare la propria cifra stilistica.
[ ascolta “Forever” ]
Femme – Debutante (Pop, Dance, EDM) 6,5/10
Un pixie cut rosa candy che campeggia sulla copertina del suo debut, ritmi easy da dancefloor sempre al limite del pacchiano e voce squillante e zuccherosa che ogni volta salva il tutto, specie quando si placa nelle ballad: è questa la formula di Femme, che si va a collocare nel folto esercito delle eroine del Pop danzereccio internazionale, per portarci una manciata di singoli appiccicosissimi, un’estetica accattivante e una buona dose di ironia.
[ ascolta “Light Me Up” ]
23 and Beyond the Infinite – Loath: Insane Mind Festival (Noise, Psych) 5,5/10
Quella della formazione beneventana è una psichedelia che deve molto alle origini del genere, chitarre distorte che si afflosciano narcotizzate, le liriche in inglese del cantato allucinato, esotismo quanto basta per catapultarsi nei mitologici 60’s. “From The Future to You” si sbilancia verso un Garage Rock oppiaceo ma è una promessa ingannevole: ci si gode il trip ma si resta insoddisfatti quando al termine dell’album appare chiaro che il viaggio è verso il passato, ed è di sola andata.
[ ascolta “From The Future to You” ]
Ben Harper & The Innocent Criminals – Call It What It is
Questo ritorno di Ben Harper con gli Innocent Criminals, gruppo col quale ha scritto le migliori pagine della sua carriera, è stato per me (ed immagino di non essere il solo) come un regalo ricevuto da un gruppo di vecchi amici ed una delle uscite, nel suo ambito, che più ho atteso in questo primo terzo di 2016. L’ultimo lavoro di Ben coi Criminals, risalente ad 8 anni fa, fu indubbiamente l’episodio meno riuscito del loro sodalizio ma le meravigliose pagine precedentemente pubblicate rimangono per il sottoscritto tra le più belle che una band ci abbia regalato negli ultimi vent’anni.
Ben coi Criminals (presenti, seppur non sempre con uguale formazione, anche nei dischi pubblicati a nome del solo Harper fino appunto a Lifeline) ha coniato quello che a tutti gli effetti possiamo considerare il suo linguaggio: una miscela di generi che trovano le proprie radici nel Blues ma che affiorano nelle più svariate forme in modo naturalissimo ma con grandi contaminazioni nonché con uno splendido dialogo tra i vari strumenti e le varie anime di una band che riesce a dare colore come essenzialità alle doti chitarristiche e canore del suo leader andando così a creare un sound che è un vero e proprio marchio di fabbrica.
E dunque, dopo l’inatteso e benvenuto tour di reunion dello scorso anno, ecco arrivare questo nuovo lavoro in studio.
Diciamo subito che i tempi del magico decennio ’94-’04 non sono raggiunti ma che sicuramente questo lavoro suona meglio della loro ultima fatica insieme, cosa non così scontata, e che volendo fare un paragone col passato questo nuovo disco potrebbe essere un Both Sides of the Gun riassunto in un unico disco (il magico decennio si era da poco concluso ma qualche buona cartuccia da sparare ancora c’era), emblematica è la bella ballata “Deeper and Deeper”, che pare uscire dal disco bianco del sopracitato lavoro.
Call It What It Is pur avendo passaggi un po’ scontati (il Blues in odor di Stones di “When Sex Was Dirty”), paraculi (il rock dall’incedere moderno e appiccicoso di “Pink Ballon”) e non del tutto convincenti (la title track che punta il dito contro gli omicidi della polizia sugli uomini di colore senza grande originalità di scrittura ma in modo comunque estremamente diretto e sincero) non manca di momenti assolutamente godibili. Sotto questo punto di vista da citare il Reggae di “Finding Our Way” (bel lavoro di Jason Yates all’Hammond e Juan Nelson al basso), che pur non avendo la struggente profondità della meravigliosa “Jah Work” o il calore (ed il colore) di “With My Own Two Hands”, ci mostra un uomo ed una band che quando toccano questo genere non deludono mai, impossibile dopo un paio di ascolti non immaginarsi a ballare e cantare questo pezzo sotto un sole caraibico con una collana di fiori al collo.
Altro ottimo momento è il Soul di “Bones” (perfetto per casa Strax), brano pulito, profondo, con l’ottima voce di Beniamino accompagnata da una bella sezione ritmica e da un buon lavoro dei Criminals tutti. Oltre alla già citata “Deeper and Deeper” sono presenti altre profonde ballads, meritano una citazione l’Afro Folk ricco di pathos di “How Dark is Gone” (dedicata ad un amico morto in prigione), “All That Has Grown”, malinconico Blues per sola slide che riporta molto indietro nel tempo garantendo un risultato indiscutibile, e la toccante “Goodbye to You” con la quale, nel più classico dei modi, si chiude il disco del ritorno a casa di Ben.
Questo Call it What It Is è dunque un lavoro che tutto sommato non delude ma che sicuramente ci propone una band ancora lontana dai suoi giorni migliori, una band che osa troppo poco pur muovendosi con invidiabile disinvoltura tra i soliti svariati generi. I ragazzi, che live sono una meraviglia, affronteranno insieme un nuovo tour (da noi a Milano il 7 Ottobre) che potrà dirci se questo ritorno di fiamma sia un fuoco di paglia o qualcosa di più grande; sperando nella seconda ipotesi credo che in futuro quella voglia e quella fantasia che in questo disco vengono un po’ meno, ma che i Nostri sicuramente non hanno ancora perso, si potranno ritrovare facendoci così scartare un regalo forse meno inatteso ma più vicino a quel buon sapore dei giorni andati, come ci si confà a buoni amici di vecchia data.
Uli – Black and Green
Uli gioca all’ombra della schiena di Nina Simone a rincorrere i fantasmi di Bill Hicks, ma in realtà è una italianissima cantautrice e ha le idee piuttosto chiare per essere una che è appena al suo album di esordio. Al secolo Alice Protto, la Uli di Black and Green riparte dai tre brani dell’EP dello scorso anno e sceglie i colori con cui tingere la devozione nostalgica al sound atemporale del Folk e del Blues americani che già allora aveva confessato.
Eloquente nel chiarire il processo compositivo è ciò che accade all R’n’B delle liriche di “Nina Simone’s Back”, riarrangiata ora in chiave Psych su un fondale di elettronica discreta dai toni scuri, con la voce effettata che rimbalza nelle cavità profonde delle percussioni. Il nero intramontabile è quello di una Nancy Sinatra nell’intro di “Hicks Y Z” che occhieggia alle tonalità di “Bang Bang” e si destreggia sapientemente tra pieni e vuoti. Il verde lisergico è il Folk scanzonato di una KT Tunstall nell’incalzante “Martial Hearts”.
A confermare la bontà dell’intuizione c’è il fatto che i momenti migliori sono quelli in cui le cromie si mescolano a dovere: nell’incedere della marcia di “Dry River” col cantato di Uli che avvolto nel sax rimane sospeso nel tempo, negli accenni sintetici di una ballad ritmata come “Emerald Dance”.
La formula di Black and Green è semplice ma è declinata in maniera suggestiva, narrata da un timbro Neo Soul immediato come quello di Gabriella Cilmi ma immersa in un liquido amniotico à la Daughter che le dona il magnetismo giusto per distinguersi dal mero Pop. C’è più di uno spunto valido da coltivare in futuro.
Guignol – Abile Labile
A meno di due anni dal precedente Ore Piccole ritornano i milanesi Guignol con il loro sesto lavoro in studio ed una band nuovamente rinnovata. Troviamo infatti, oltre al leader Pier Adduce ed al confermato Enrico Berton alla batteria, l’ingresso in formazione di Paolo Libutti al basso e Raffaele Renne alla chitarra; in svariati brani la band sarà supportata anche dal polistrumentista, nonché produttore del disco, Giovanni Calella. Abile Labile è il titolo scelto per questa nuova fatica, titolo che ben rappresenta personaggi e situazioni che si muovono tra stati d’animo e circostanze agli antipodi, figure ordinarie e straordinarie di questo presente sempre più alienante, pronte a
prendersi la loro rivincita sulla vita come a soccombere ad essa, libere o ancora alla ricerca della propria identità.
Incontreremo stacanovisti (il Rock Blues di “Salvatore Tuttofare”) piegati allo sfruttamento ed alla disumanizzazione del mondo del lavoro, pronti a fare qualunque cosa senza mai raggiungere un miglioramento della propria precarietà non solo lavorativa, sino all’inevitabile cortocircuito; accompagnati da un’introduzione bucolica (cade sul davanzale e cade sul balcone/sull’orto di tuo padre chino sotto il sole) visiteremo la malata terra di Taranto colpita nel profondo dalle polveri prodotte dalla sua grande acciaieria nella sentita e riuscitissima “Polvere Rossa, Labbra Nere”, tra voglia di verità e resistenza e tristi pensieri (dubbio che pende giù come un nodo scorsoio/meglio morti di fame o respirando acciaio?). Troveremo, nella tirata “L’Uomo Senza Qualità”, un cane sciolto che dopo una vita ai margini cerca la propria rivincita e per costruirsi una nuova e forte personalità si convince persino di poter diventare un terrorista pronto a spingersi sino al gesto estremo. Osserveremo due bellissimi quadri metropolitani: “Il Cielo Su Milano” che, non senza riferimenti politico-sociali, partendo dal pretesto meteorologico, ci racconterà l’abbruttimento piccolo borghese di una città dove quando soffia il vento pulisce un’aria opaca e tesa a tal punto che la visione del cielo dopo il suo passaggio potrebbe considerarsi pari a quella dell’acqua nel deserto, e “Luci e Sirene”, brano randagio, periferico, dalla grande potenza visiva, nel quale l’atmosfera notturna verrà illuminata solo da inutili lampeggianti blu (sotto il cielo di questo viale/luci e sirene scuotono le sere/per presidiare chissà che cosa/mentre accade quel che deve accadere), delicati soffi melodici impreziositi dall’ottimo lavoro di Francesca Musnicki al violino. Incontreremo anche un divo del porno catalizzatore di desideri ed invidie (“La Coscienza di Ivano”, godibilissimo divertissement con ospite Guido Rolando Giubbonski al sax) pronto a presenziare ovunque pur di accrescere la propria popolarità (Priapo un po’ mondano tra ironia e clamore volerà il tuo nome), e l’irriverente maîtresse di un vecchio bordello (“Sora Gemma e il Crocifisso”) che associa la figura del Signore a quella di un figlio perso chissà come e riempie la casa di crocifissi senza esimersi dall’esercitare la propria professione (nella casa del piacere la profana devozione), libere e geniali figure di brani ben riusciti che in alcuni passaggi ricorderanno facilmente personaggi e situazioni tipicamente nostrani. Libere e geniali come indubbiamente era Piero Ciampi, grande personaggio ai margini, di cui la band propone una rilettura de “Il Merlo”, pezzo che potrebbe sembrar scritto a 4 mani da Arturo Bandini, famoso alter ego di John Fante, e dal Bukowski più sfatto. L’ottimo lavoro della band e di Pier Adduce che lo interpreta con grande teatralità e lo arricchisce con l’uso dell’armonica, rendono il brano forse meno fragile ma ancora più ubriaco ed affamato di quanto già non fosse, donandogli un’urgenza che lo farebbe dire loro; credo che persino il suo autore applaudirebbe o concederebbe una smorfia di approvazione, sicuramente applaudo io.
La poesia e la sardonica ironia che da sempre contraddistinguono i testi di Adduce raggiungono dunque in questo lavoro nuove vette alle quali la band, nonostante i continui cambi, regala ottimi abiti pur rischiando, se solo i nostri fossero un bene più comodamente fruibile, il remix facile in un paio di occasioni (per quanto dopo “Geordie” credo ormai non esista brano che non corra tale pericolo), tanto da farmi trovare sempre più gradevole l’idea che questa formazione provi a spingersi un po’ più in là; al contempo è un piacere poter ascoltare del buon sano e schietto Rock che non necessiti di prefissi catalogatori ad anticiparne il vecchio e caro nome, ma che suoni alternativo ed indipendente per innata attitudine.
The Chanfrughen – Shah Mat
Sono iniezioni lisergiche e rinvigorenti gli otto brani di Shah Mat dei liguri The Chanfrughen. Viaggi psichedelici e psicotici in terre inesistenti o rese tali da un’immaginazione sferzante, appuntita, che ci porta, di traccia in traccia, nel caos fuggitivo dell’America Centrale, nel vuoto freddo della Siberia, nei Balcani insensati e sanguinanti, nelle vie che per l’Asia Minore portano all’Estremo Oriente o chissà dove. Frizzano di distorsioni sgarbate, di ritmiche imprevedibili e scostanti, e pestano duro, con voci che spintonano, e creano paesaggi arzigogolati e scaleni di Rock seventies che sa essere ipnotico senza troppi fronzoli, immerso in un Blues sanguigno e ossessivo, tra synth e arpeggiatori e riff che, pur elementari, scavano le orecchie come la goccia che tortura la pietra. Shah Mat è un disco dall’immaginario denso ed evocativo, che dà il suo meglio negli episodi più enigmatici, nelle insenature più esotiche (“Belize”, la title track) e rallenta un po’ quando si bagna in modo eccessivo nel mare scuro del Blues più lineare (“Rhum, Spezie, Sciac Tra”, per esempio). I testi a volte sorprendono nella loro franchezza sopra le righe: quello di “Belize” al primo ascolto sembra quasi fuori luogo, poi scopri invece che si incastra perfettamente nelle pieghe del brano con una lucidità allucinata, sciamanica, laterale. Non va sempre così, intendiamoci: altrove l’eloquio si fa più ingenuo, meno a fuoco. Stessa cosa per alcuni passaggi strumentali che forse avrebbero giovato di un’ulteriore affilatura. Rimangono però piacevoli le lunghe fughe, le corse aperte di chitarre e sintetizzatori, la cura ritmica per prendere sempre in contropiede l’ascoltatore, e in generale l’arroganza – sacrosanta – dell’inventarsi un disco libero da paranoie su lunghezze, accessibilità, e altre aberrazioni limitanti. Un giro di giostra che sa di libertà e convinzione.
Parranda Groove Factory – Los Parranderos [VIDEOCLIP]
Un producer di musica elettronica, un bassista e 8 percussionisti uniti in un unico progetto: mischiare gli strumenti della tradizione percussiva brasiliana con le sonorità della musica Funky, Reggae, Blues, House ed Elettronica.
Le Capre a Sonagli – Il Fauno
Tornano i curiosissimi Le Capre a Sonagli e lo fanno con Il Fauno, un disco che è un’unica allucinata e lunga (ma neanche tanto) canzone psicotropa. Quattro suite che sono anche colonna sonora di un mediometraggio animato ma che a me suonano tantissimo come soundtrack di un videogame indie, folle e vorticoso, da smanettoni con le occhiaie. Ci troviamo all’incrocio tra un Rock dalle sonorità acustiche e svisate Blues, tanta passione per stilemi Folk e Country e uno spirito avventuroso e sconfinante molto anni ’90, tra il Desert Rock più immaginifico e certo sperimentalismo ibrido che non guarda in faccia a niente e nessuno. Diciamo insomma che il gusto di questo disco sta proprio lì, nel farsi portale per un viaggio psiconautico dove inseguire il protagonista Joe Koala nel suo andirivieni tra i mondi magici e ultraterreni della sua personale odissea. I brani, proprio perché pensati come parti di suite, sono brevi, secchi (il più lungo conta poco più di tre minuti): sviluppano una singola, circoscritta idea, spesso geniale: il riff di “Celtic”, l’ondeggiare ubriaco e molesto di “Demonietto nell’Organetto” (capolavoro) con quel fischio spettacolare che mi ricorda tanto “My Patch” di Jim Noir, il pestare semi-acustico con echi di Korn – giuro – di “Serpente nello Stivale”, il Brit Pop stile Blur di “Nonno Tom”, il valzer retrò di “Bobby Solo”… potrei andare avanti all’infinito, tanti sono i rimandi e i cristalli nucleari che si nascondono in questi brani-caramella. Ecco, forse l’unica macchia de Il Fauno è il concentrarsi maggiormente sul modulo, sull’elemento, sulla rifinitura (estrema) del dettaglio in quanto parte di un tutto, abbandonando, nei singoli pezzi, la costruzione architettonica, l’approfondimento. Insomma, diorami che rasentano la perfezione, ma non monumenti. Rischio accettabile, comunque, nella costruzione di un concept così strutturato, in cui per forza di cose la parte è in debito col tutto. Un disco del genere, in ogni caso, oggi serve, e moltissimo, perché ci ricorda che la musica è magma e può andare ovunque, è tappeto volante e polvere magica e ci può portare fin dove possiamo immaginare di arrivare. Quando sento gruppi da quattro accordi in quattro quarti o cantastorie da arpeggio sempre uguale mi viene da pensare a Le Capre a Sonagli e alla distanza siderale tra il loro immaginario (ricco, infinito, sempre nuovo, libero, strafottente) e la povertà di certe idee riciclabili. Lunga vita a Il Fauno.
Ty Segall – Manipulator
In questo calderone di produzioni vintage (che tanto piacciono da fine anni 2000 in avanti) potrebbe entrare di diritto anche il ragazzo prodigio Ty Segall. Nato a Laguna Beach e classe 1987. Per chi non lo conoscesse vanta già una vasta produzione discografica con una ottima media di un disco all’anno. Penso che tutti siamo d’accordo nel sostenere che quando si fa revival il rischio di inciampare su un terreno arido di idee è molto elevato. Ma il giovanotto sa che questo e ben altri rischi sono la supposta quotidiana da mandare su per chi vuole vivere di passioni. E allora, senza guardarsi nè troppo avanti, nè troppo indietro, prende il meglio del sound più marcio di fine anni 60 inizio 70 e lo strapazza dentro un vortice di frenesia moderna che già scalpita in “Manipulator”, brano che apre e da il nome al disco. La title track è un viaggio distorto e psichedelico, guidato da un organo strafatto fino al midollo. “Tall Man Skinny Lady” fa intendere che la produzione a sto giro è stata curata sicuramente meglio degli altri suoi lavori. Non disperiamo, il grezzo viene fuori sempre, come la mano di uno zombie che rompe la tomba pronto ad azzannare gole nel più trash dei B-Movie. La chitarra di Ty Segall è un uragano, un fiume in piena pronto a spazzare tutti i fighetti e i loro occhiali con le montature grosse. Altro che facile revival! Attenzione, i compromessi ci sono. E forse sono gli episodi più caratteristici e portano (sempre con spiazzante naturalezza) il disco ad un altro livello. “It’s Over” si avvicina al confine del Brit Pop e pare giocare con un groove che ha il sapore dei tempi splendenti e combattenti dei The Who. La gioiosa “The Clock” riporta il suond acustico che ci aspettavamo. Ad accompagnarlo ci sono archi tanto inattesi quanto magistralmente incastonati in questa perla di melodia antica. La melodia come non mai. Melodia straziata e presa in giro, sia in “The Singer” con i falsetti autoironici che in “Don’t You Want to Know? (Sue)”, ballata scanzonata da pomeriggio londinese di timido sole. “The Connection Man” invece riporta il suono di Ty alle origini, con un bel pezzo Garage fino al midollo e che non rinuncia ad un buon gioco di stile vocale, tanto per non rendere neanche un istante di questo lungo lavoro (sono comunque 17 brani!) banale e ripetitivo. L’assolo in questo pezzo è uno di quei momenti in cui sorridi e capisci quanto sia sincero a volte il Rock’N’Roll. La parte finale di archi in “Stick Around” non ha mezze misure e mi convince ancora di più a sostenere che l’album sia il lavoro più riuscito e completo di Ty. Nonostante si possa pensare ad un gran pastone citando le influenze, che passano da Oasis a T-Rex, da Black Sabbath a Nirvana, dalla psichedelia dei Love alle scorribande degli MC5, tutto con una disarmante armonia. No niente The White Stripes o Black Keys, per loro ormai c’è l’olimpo. Qui si preferisce marcire in questo sporco mondo, ancora pieno di odori sgradevoli, luci offuscate e vecchi fantasmi. Tutto narrato con la facilità e l’onestà di chi corre volentieri un altro gran rischio, bruciandosi ancora con il suono bollente delle sue valvole.