Bluvertigo Tag Archive

Arancioni Meccanici – Disco d’Argento [VIDEOCLIP]

Written by Anteprime

Guarda in anteprima il nuovo video della band alt pop milanese.
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Leader Negativo – Che Cosa? [STREAMING]

Written by Anteprime

Ascolta in esclusiva il secondo singolo del progetto elettropop.
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Siren Festival 2018, la musica internazionale incontra la slow life all’italiana

Written by Live Report

“Siete tutti di Vasto? Da dove venite?”, ci chiede a un tratto Neil Halstead con aria serafica e l’Adriatico che si staglia alle sue spalle, piacevolmente sorpreso di trovarsi di fronte a una folta cerchia di avventori seduti sul prato dei Giardini D’Avalos a gustarsi la sua esibizione in solo.

(foto di Francesca Santacroce)

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Mauro Ermanno Giovanardi – La mia generazione

Written by Recensioni

10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #30.09.2016

Written by Playlist

I DISCHI CHE NON TI HO DETTO | Italia sintetica

Written by Recensioni

I confini tra Rock ed Elettronica sono ormai estremamente labili e da tempo la materia sintetica si insinua anche nelle produzioni nostrane, contaminando e rinnovando la tradizione cantautoriale o rinnegandola totalmente con lo sguardo proiettato oltre i confini della Penisola.
Tra le uscite degli scorsi mesi di questo 2016 abbiamo selezionato alcuni dischi in cui, sebbene giochi di volta in volta un ruolo diverso, la componente Elettro è di certo essenziale e imprescindibile.

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Oddu – Genealogia delle Montagne

Written by Recensioni

Li si conosceva già, e non solo nell’underground piemontese, quando erano i Baroque. Sonorità Pop anni ’80, tastiere tastiere tastiere, smalto scuro sulle dita e declamato teatrale. Molto del progetto Baroque è rimasto negli Oddu, per quanto la formazione sia cambiata e siano cambiate anche le influenze, le matrici, l’età anagrafica (che comunque non è un dato trascurabile) e l’intenzione.

“Quattro Inverni” ha un’intro fresca, che dall’Indie americano scende nel cantautorato nostrano alla Tozzi, mentre “Nella Prossima Vita” strizza l’occhio al Folk Pop dei Mumford and Sons. E in due sole tracce gli Oddu sono riusciti a farci capire la babilonia di ispirazioni che sottostanno alla fase compositiva. “Atlanti Perduti” è figlia dell’esigenza di raccontare e raccontarsi, con quelle liriche impegnate e il cantato che piega il virtuosismo alla narrazione semplice e lineare; “Mostro Cammina” sa di pioggia e Francia, per dirla con Paolo Conte. Personalmente, poi, mi ha ricordato tantissimo La Rue Ketanou (se non li conoscete sarebbe più che opportuno rimediare). Con “I Buchi sul Sedere” sbucano le ceneri dei Baroque, gli anni ’80, una certa nostalgia Glam. “Un Cuore Buono” apre in maniera molto intima e introversa, con la delicatezza del piano che tratteggia un’atmosfera un po’ cupa, che si trasforma, di nuovo, in Popular, in Folk.
E gli Oddu sembrano, fin qui, averci fatto vedere tutto quello che sanno, pure forse in maniera un po’ troppo articolata e complessa. Eppure non abbiamo ancora sentito tutto: “Battisti” è una sorta di scherzo elettronico citazionistico, da Battiato (più che da Battisti) a “Jump” di Van Halen, dai Bluvertigo dei tempi d’oro a contrappunti Jazz.
L’unico leitmotiv che sembra davvero omogeineizzare la produzione degli Oddu è la nostalgia per un passato musicale glorioso, come sembra confermare anche “Non Fate Mai la Carità”: a tutti gli effetti un semplice brano cantautorale, dove però (e forse, per i tempi che corrono, stranamente), non si guarda a Capossela o Mannarino, ma più indietro, a Rino Gaetano e De Gregori, senza neppure pensare di scomodare l’inflazionato De Andrè. E’ una scrittura complessa quella degli Oddu, elitaria, macchiata dalla saudade aristocratica per i bei tempi che furono, più che animata dall’entusiasmo borghese.
“Savona 12 dicembre 2011” completa il quadro dell’eclettismo della band. Troviamo tutto: la formazione accademica, lo studio del pianoforte, il litigio con le maglie larghe del Pop-Rock. La chiusura di “Genealogia delle Montagne” è aulica e imponente sul piano fonico, un tributo al Progressive Rock, per tornare al principio.

Non è un disco semplice. Affatto. Manca qualcosa che guidi l’ascoltatore in un percorso, manca un’unità di intenti e narrazione, ma, lasciatemelo dire, è forse uno dei più interessanti lavori indipendenti che mi sia capitato di ascoltare. Un grande potenziale che spero gli Oddu sappiano incanalare nella giusta direzione comunicativa e sviluppare.

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Il 66esimo tragico Sanremo

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Liv Charcot – La Fuga

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A un primo ascolto i Liv Charcot sembrano gli eredi de Le Vibrazioni con qualche elemento preso in prestito da Cesare Cremonini in versione Lunapop. In realtà già “Cosmonauti” mostra qualcosa in più rispetto ai citati “colleghi”, qualcosa di indefinibile ma gradevole che certo non appartiene alla cultura musicale italiana. La cosa viene messa in evidenza ancor più con la velocissima “Davanti alla Macchina Ancora nella Casa” con quella sezione ritmica che sembra appunto suggerire un tentativo di fuga. Del resto, a detta del gruppo composto da Lorenzo Cominelli (voce, basso),  Tommaso Simoni (chitarra), Giulio Fagiolini (tastiere) e Nicolò Selmi (batteria), “la fuga è quella richiesta urgente che benché tentiamo di soffocare prima o poi si manifesta. I Liv Charcot sono espressione di questa richiesta”. Non manca però la classica ballad che con “Dove Andrai (Le Rondini non Tornano)” riporta alla memoria la grande hit dei Duran Duran, “Ordinary World”. Sia chiaro, il paragone con il gruppo inglese ci sta solo in questo caso, perché il resto del disco è tutta farina del sacco di questi quattro ragazzi toscani. Il Rock puro torna infatti con “Frammenti di Te” e “L’Obiettivo” che sembra essere uscita dalla penna di Matt Bellamy dei Muse coadiuvato da The Edge degli U2 (quelli più eighties). “Lettera dal Brasile” ha poco del paese dalla bandiera verde-oro ma appare un gradino sopra rispetto a quanto sentito finora e si candida immediatamente ad essere l’episodio migliore del disco se non fosse per quelle “Dicembre ’69” (dal sapore un po’ Funky degna dei migliori Bluvertigo) e  per “Non mi Basterà” aperta da un drumming deciso che viene presto supportato da basso e chitarra e dalla voce decisa di Cominelli. Difficile quindi per “Sole a Mezzanotte” non fare brutta figura (non me ne voglia il gruppo ma il disco sarebbe stato meglio concluderlo qui spacciandolo per un ep). Troppo basilare negli arrangiamenti (che a volte sembrano persino un po’ forzati) e forse pure troppo elementare nei testi. Per fortuna a rimettere in carreggiata la band arriva “Vortice” una vera ventata di sperimentazione sonora con un sax alla Lounge Lizards che argomenta con un linguaggio Jazz con il resto degli strumenti. Conclude il lavoro “La Pineta” in perfetta calma e con qualche incursione vocale femminile che dà un tocco gradevole a quanto ascoltato finora. Un bel concept album tutto sommato, forse un po’ troppo lungo, ma abbastanza curato nei suoni e nei testi. Dimenticate quindi “Sole a Mezzanotte” e lasciatevi conquistare dal resto del disco, ne varrà davvero la pena!

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Bonomo – Il Generale Inverno

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Bonomo, aka Giuseppe Bonomo, annata 1978 da Taranto, esordisce solista in queste dieci tracce di Pop Rock melodico, comodo ma competente, raccontando di tutte le cose che, nella vita, ci bloccano, ci rallentano, ci contrastano, simboleggiate dalla suggestione che dà titolo al disco: Il Generale Inverno. Bonomo mette nell’album tutta l’esperienza accumulata negli anni. Ha studiato, e si sente; ha suonato, e molto (vanta collaborazioni con, tra gli altri, Alberto Fortis, Filippo Graziani, Matrioska) e d’altronde anche in questo frangente si occupa di praticamente tutti gli strumenti – esclusa la batteria – e gli arrangiamenti, oltre a comporre tutti i brani del disco. I pezzi sono tutti molto orecchiabili e con una freschezza che arriva diretta all’ascoltatore senza eccessive complicazioni, anche grazie ai testi, che, se pure difettano in ricerca e stile, portano una leggerezza Pop che, date le coordinate del disco, può solo giovare alla sua fruibilità. Si sente l’amore per la musica d’oltremanica e d’oltreoceano (gli echi californiani de “La Visione”, o i riff Funk di “DNA”) e per il Pop elettronico (“Insonnia”), si sente la forza con cui si cerca di – e si riesce a – rendere ogni brano un potenziale singolo, anche perché Bonomo non sembra fare troppa fatica nel giostrarsi tra mood pure molto diversi, regalando al disco una varietà invidiabile: tra l’energia de “La Mia Rabbia”, pezzo alla Bluvertigo, e la dolcezza sospesa de “I Pesci Non lo Sanno” c’è un abisso, così come tra il Pop da radio primi 2000 di “Otto Ore al Giorno” e di “Araba Fenice” e la freddezza in 6/8 de “L’Ultimo Valzer”. Il Generale Inverno è, sostanzialmente, un disco di solido Pop Rock senza eccessive profondità ma che lascia un piacevole sapore in bocca, anche se magari senza rimanere sul palato molto a lungo. Le fondamenta per costruire qualcosa di più personale e inconfondibile ci sono tutte. Aspettiamo il seguito.

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Syne – Croma

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I Syne (o Syne  E∆Ǝ ) sono di Milano e rischiano grosso. Rischiano tempi dispari, testi concisi, sguardi jazzaggianti e suoni a metà tra l’Elettronica e la tradizione italiana del Progressive Rock, che ascoltando quello che è stato prodotto negli ultimi anni pare si stia del tutto perdendo. Croma è il loro primo LP e suona forte, personale, ambizioso, robotico e spaziale. Insomma come nient’altro che io abbia ascoltato negli ultimi dieci anni. L’inizio di “Verdemente” (per altro accompagnato da un video azzeccatissimo) è scattoso come un vecchio videogioco nella sua sala dismessa, ha un perfetto incastro ritmico dove la voce e le liriche di Marcello fanno breccia nel nostro cervello. Il brano presenta uno spesso involucro roccioso che contiene un dolce liquido caldo, mieloso. Scavando si trova quella melodia che pareva perduta. In Croma c’è ampio spazio per ballate interstellari come “Sono Rosso” che ricorda molto il suono vellutato dei compianti Deasonika. “Cercami” è più testarda e spigolosa e si avvicina di più al Prog e alle inquietanti cavalcate dei Bluvertigo, i cori finali si incastrano tra loro sottolineando una produzione sopraffina. Il tema dei colori torna con “Nera” e l’idea del concept album si fa più completa. “Nera” è cupa, si muove sinuosa in un paesaggio futuristico, decadente, i suoi cinque minuti pare non finiscano mai in un vortice di suoni e parole che accendono nuova luce nel panorama musicale italiano. Le similitudini si sprecano, le canzoni sono così complete che potremmo citare insieme PFM e Muse, Elio e Le Storie Tese e Hawkwind. Sia ben chiaro che questa musica rimane fuori dal tempo e non è sicuramente accessibile a tutti. A trarre in inganno il dolce intro di tastiere in “B.L.U”, subito sballata da un tempo storto e dall’eco che avvolge parole visionarie (per altro metà in inglese e metà in italiano) fuse tra loro, come se si assistesse ad un discorso tra due astronauti dispersi nell’etere. La tensione è sempre viva e palpabile, il senso di instabilità ci tiene appiccicati fino alla fine del disco. Anche la bomba Elettronica “Witches” ha  il suo maledetto perché nel suono di un cyborg che martoria la sua chitarra super effettata. Mentre “Aerie” rimanda agli anni 80 e ad un mood vicino ai Depeche Mode, il finale dedicato ad un altro colore “Yellow” pare essere la previsione di quello che sarà il Punk Hardcore del prossimo secolo. Grida lontane, batteria martellante e synth ossessivo. Potrebbe scadere tutto in un facile pastone confusionario, ma i Syne sono bravissimi ad ammorbidire tutti gli spigoli, ammortizzando gli urti. La botta in testa alla fine manca fisicamente, ma il cervello esce annebbiato, affaticato e piacevolmente sotto sopra.  Questo disco è fatto di materia grigia e di tanto sudore, tutto unito a un’enorme voglia di futuro e di novità.

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La Band della Settimana: Open Zoe

Written by Novità

Open Zoe è la rinascita di un progetto musicale i cui componenti si erano incrociati in altri progetti in vite precedenti. Per alcuni di essi l’abbandono dell’attività musicale era già realtà, per altri era un approdo delineato a seguito di delusioni e stanchezza. Dionisia, Enrico ed Ettore avevano condiviso l’esperienza musicale del progetto Etabeta (pop-rock con innesti di elettronica) che negli anni a cavallo tra il 97 e il 2002 aveva raccolto significativi riscontri in concorsi anche nazionali, recensioni (due mini cd all’attivo) e date in giro per l’Italia e Francia (anche di supporto a Bluvertigo, Cristina Donà, Rosso Maltese, Delta V) Enrico e Lele avevano portato avanti negli anni 2002-2010 gli Aulasei, gruppo di matrice dark-wave, che altresì aveva prodotto un cd e ottenuto lusinghieri riscontri critici. Tra il 2011 e il 2013 in tempi diversi Ettore e Dionisia (entrambi lontani dalla musica praticata da parecchi anni) accettano l’invito di Lele ed Enrico per dare vita ad un nuovo progetto che parta dal substrato wave degli Aulasei per svilupparsi in ambienti meno oscuri e più diretti e aperti. Tra il 2013 e il 2014 trovata l’amalgama tra i componenti e individuata una linea comune viene scritto e arrangiato il materiale per il primo disco Pareti Nude che viene registrato in varie tranche in un periodo di un anno e mezzo tra metà 2013 e inizio 2015. I testi sono di Lele Mancuso, le musiche nascono a quattro mani prendendo spunto da idee individuali. La matrice di partenza del suono Open Zoe viene riconosciuta nella new wave anni ’80 di band quali The Sound, Echo and the Bunnymen, Joy Division, Chameleons, primi U2. Lo sviluppo degli arrangiamenti e la robustezza del suono ha portato tuttavia alcuni a riconoscervi esperienze degli anni ’90 che hanno messo insieme musica organica ed elettronica (Radiohead e certi Pumpkins). Poche le incursioni live nel periodo di scrittura del disco, la band del resto è composta da musicisti che, spesso insieme nelle esperienze precedenti, hanno calcato decine e decine di palchi.

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