Più che uno stupendo doppio raccoglitore di tapes “di seconda”, un tracciante sulla musica popolare di Bob Dylan e di quello che accadde in quella fattoria vicino Woodstock nel 1967 in cui il Maestro – in convalescenza dopo un incidente di moto – e la Band – esausta da un lungo tour – si ritirarono.per registrare per gioco e relax – in un idilliaco mix d’alcool, marijuana e risate – quello che poi – impresso su nastro di un vecchio registratore – uscì, come un miracolo, in questo Basement Tapes, disco nel 1975. Prima che la CBS mettesse le mani sulle registrazioni, le stesse furono preda di bootleg “The great white wonder” e scippi da parte di artisti che ne fecero successi: la Baez, i Byrds e Manfred Mann che con “Mighty queen” – poi mai sfruttata da Dylan – fece la sua fortuna. Ripeto uno stupendo vinile in cui la tradizione, il divertimento e la voglia di dire sprizza come una sorgente di acqua balsamica, in cui Dylan si sgola, canta e si ubriaca con i vecchi compagni di rock & road di sempre Orange juice blues, Long distance operator, suona pezzi nuovi di zecca mai sentiti prima This wheel’s on fire e Goin’ to Acapulco e si lascia trasportare all’indietro in un divertissements di old traditional Apple sucking tree, Clothes lines saga, Ain’t no more cane. The Basement Tapes è il frutto dell’allegra brigata che contemplava tra le file – oltre che Bob – Levon Helm batteria, mandolino e basso, Garth Hudson ogano, fisarmonica , pianoforte e sax, Richard Manuel pianoforte, batteria e armonica, Robbie Robertson chitarre elettriche e acustiche e Rick Danko al basso e mandolino, ma principalmente, da parte di Dylan, l’elaborazione cosciente del passaggio della musica americana dalla sua fase Folk a quella rockeggiante, ovvero l’intero patrimonio americano che viene messo in discussione. Il disco suona come un esame ed una scoperta della memoria delle radici sopra un bel sorriso, audace e venerabile ma anche un insieme di tracce che vengono a patti con un vecchio senso di mistero talmente intenso che non si è più ascoltato da moltissimo tempo; forse i vecchi demoni di Dylan che non si vogliono sopire o probabilmente l’alcool che li ingigantisce, li dilata. Ma questo poco importa a chi ne fruisce la sintesi sonora, resta solo il fatto che, in quella cantina della Big Pink Factory nel West Saugerties di New York, i nostri si sono divertiti sonoramente, fino a tramandarci memorie e fonti maestose dove abbeverarci, senza parsimonia, alla bisogna.