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Matinée – These Days
La fuga dei cervelli è un’epidemia che va espandendosi senza quiete e ha colpito persino il mondo dell’arte. Siamo infatti innanzi a quattro ragazzotti made in Italy, abruzzesi DOC, emigrati in quell’est londinese forse alla ricerca di orizzonti più ampi e di folle più appassionate. Malinconia a parte, i Matinée debuttano nel mese corrente e lo fanno attraverso dieci capitoli di Brit Pop, tenuti saldi all’interno del loro primo album: These Days. Il synth di Luigi Tiberio (voce, chitarra e synth) accompagna l’intera stesura dell’album, donandogli sottili venature Indie in pieno stile Mando Diao. Particolarmente interessante la title track, dai netti richiami The Killers. Una batteria che pompa, una melodia orecchiabile, una chitarra leggera e qualche effetto a rendere il tutto degno di attenzioni e di pause riflessive. Sapiente l’utilizzo di chorus, azzeccatissimo il complesso. Stessa strategia, dotata tuttavia di una ben più marcata aggressività, si riscontra in Said I, capitolo quattro del romanzo anglo-italico. Di traccia in traccia è quasi inevitabile scorgere toni freddi invernali, nulla di negativo, solo un certo nonsoché che richiama in qualche modo i bui tramonti pomeridiani, la sera alle quattro del pomeriggio, un camino acceso e il freddo fuori. Torna inesorabile l’incontro fra Matinée e The Killers. Il tutto sembra funzionare e coinvolgere al punto giusto l’ascoltatore. Pretese interessanti sono riscontrabili in più di un capitolo e l’attenzione è ben catturata dal settimo episodio della serie: Nobody Like Me. Ascoltare per credere. Quattro minuti e mezzo di perfetta armonia. La batteria di Alessio Palizzi si sposa perfettamente con il basso, appena distorto, di Alfredo Iannone, Giuseppe Cantoli fa vibrare saggiamente le corde e Luigi pensa al resto. Suoni tanto armonicizzati e ben miscelati da far pensare ad un lavoro alla Mogwai, alla Silversun Pickups, di quelle opere di perfetta fusione artistica che soltano loro sanno come realizzare. Cambia lo stile, cambia il genere, cambiano i toni, questo è certo, ma qui si parla di armonia, di quel tocco che fa l’80% di un pezzo. Ma si sa, nulla è per sempre. È attraverso 40 Years Old che i giovani emigranti ci salutano. Un saluto leggero e non forzato, in tenuta con il nordic style da camino, maglione e neve fuori. Inevitabile soffermarsi sull’idea che quella ascoltata sia tutta roba nostra. Inevitabile constatare e prendere coscienza del fatto che sia volata via con il primo volo. Inevitabile la malinconia. Tuttavia fa bene al cuore sapere che da qualche parte c’è chi si impegna per realizzare i propri sogni. I Matinée hanno stampato un biglietto da visita in carta elegante e raffinata, rivendendo la propria arte nel migliore dei modi. These Days è il primo album ed in quanto tale ne ha tante da raccontare. Noi siamo qui che ascoltiamo ben volentieri. D’altronde è buio, è freddo ed il camino è già acceso.
Matinèe – These Days (singolo)
A volte è difficile credere che un gruppo o un artista italiano che non sia una Laura Pausini o un Eros Ramazzotti trovi fama abbondante oltralpe. I Matinèe sono fra i pochi eletti che ce l’hanno fatta riuscendo ad aprire i concerti di The Lumineers, Doughter, Mistery Jets e Futureheads senza mai sfigurare e tenendo alta la bandiera dell’Italia musicale. Nel loro curriculum possono persino vantare esibizioni dal vivo in tutti i live clubs londinesi più importanti per le giovani band come il 100 Club e un’apparizione alla Death Disco Night di Alan McGee (fondatore della Creation Records e scopritore degli Oasis). Il nuovissimo singolo “These Days” è stato realizzato con la collaborazione di Chris Geddes dei Belle&Sebastian alle tastiere sotto gli occhi e le orecchie attenti del produttore Tony Doogan (già al lavoro con Mogwai, Carl Barat dei Libertines e Glasvegas). Il sound della band appare molto più maturo rispetto a quello degli esordi, in cui persino i Franz Ferdinand si accorsero di loro ospitandoli ad un loro concerto italiano.
Le chitarre sono molto più incisive, con i loro riff accattivanti che si incastonano alla perfezione col drumming preciso del batterista e con la voce del cantante. In poco più di duecento secondi è condensata tutta l’essenza e la purezza del Brit Pop più eclatante ed anche quella del Rock indipendente inglese, perché le radici del gruppo sono sì italiane ma ormai i Matinèe sono a tutti gli effetti trapiantati nel Regno Unito. La canzone si presta molto all’ascolto ed è facile immaginare che verrà trasmessa anche sulle frequenze delle principali stazioni radiofoniche e sarebbe bello quindi se i Matinèe riuscissero a spopolare anche qui da noi. Noi di Rockambula facciamo il tifo per loro, consci di poter scommettere su una futura promessa del Rock Italiano. Mi rimane solo da chiedermi se la loro prossima hit sarà cantata nella lingua di Dante o in un inglese perfetto quale quello esibito da Luigi Tiberio (che nel gruppo suona abitualmente anche synth e chitarra) e da Alfredo Ioannone che è tra l’altro anche un ottimo bassista.
Tripwires – Spacehopper
C’è tanta, tantissima inglesitudine nel disco d’esordio dei Tripwires. Spacehopper (che, detto per inciso, ha una copertina bellissima) è un frullato molto godibile ed abbordabile di stili che sono stati moda per periodi più o meno lunghi negli ultimi vent’anni, soprattutto in terra d’Albione: c’è il Brit Pop (ma più dalle parti dei Blur che degli Oasis: se non nelle sonorità, di certo nell’inventiva e nel caos creativo), con ritornelli intensi, tutto sommato orecchiabili, da cavalcare in cuffia o in qualche dj set (“Shimmer”); c’è il Rock, nelle distorsioni frizzanti e nella batteria sixties, in un impianto Indie che potenzialmente potrebbe aprire ai Tripwires la porta di radio e tv musicali (“Paint”); c’è lo Shoegaze, tutto nei cori sognanti e nei soundscape che coprono lo sfondo (la title track), negli effetti gonfi dei distorti e nei suoni (e nelle linee) di chitarra, pungenti e nasali, caotici, disseminati qua e là con sapienza (“A Feedback Loop of Laughter”).
Spacehopper è un’ottima via di mezzo tra il gusto un po’ onanista del suono panoramico e della psichedelia old school (“Love Me Sinister”) e qualche sapore più propriamente Pop/Indie Rock, canticchiabile, radiofonico, anche se, ad essere sinceri, la bilancia pende più spesso verso il primo elemento – e meno male (vedi il bell’intro di “Under a Gelatine Moon”, o l’atmosfera sospesa di “Catherine, I Feel Sick”). La voce, di rimando, oscilla senza paura tra il timbro di un Bellamy smorzato e meno primadonna (“Plasticine”) e paste con salsa Beatles (“Tin Foil Skin”, coraggioso pezzo-monstre da sette minuti e cinquanta), e il tutto, frullato, produce un cocktail dal sapore notturno, agrodolce e frizzante, da accompagnare ad una corsa in tram dopo mezzanotte, o a momenti introspettivi durante lunghi tratti ferroviari privi di luce naturale. Ne risulterà un viaggio comodo, anche per chi magari non è tanto abituato a viaggiare.
Stereonoises – Colours in the sky
Hanno fatto davvero un buon lavoro questi siciliani Stereonoises, qui al decollo ufficiale con “Colours in the sky”, un nove tracce abbastanza intrigante, ben suonato e puntato direttamente oltre le scogliere di Dover, lì in quell’Inghilterra filtrata attraverso i Ray-Ban a goccia di Bono degli U2 “Time”, “I’m still here”, “How long”, il Noel Gallagher “Something you should know” della spinta solitaria ed il concetto impattante di una certa ruvidezza morbida sullo stile Kelly Jones degli Stereophnonics “Tonight”, “Room on fire” e tutto ciò non fa altro che lievitare “in alto” le azioni di quest’album che riunisce due anime e culture diverse ma senza la presunzione d’essere “terrificante”, soltanto un buon esempio di come una qualità emergente sia all’altezza, pronta, per produzioni dalla mira verticale; la band da vita ad una ricchezza di suoni capaci di mediare brillantemente fra certe atmosfere indie che s’innestano come satelliti vaganti e lo spunto – ora uggioso, ora estetico – del brit meno glucosato, di quella concezione apparentemente non allineata che non si porta dietro i modelli generazionali, piuttosto le planimetrie riconoscibilissime di un’epoca che ha dato pathos e sangue dolciastro, fino a ritrovarle beatamente adagiate dentro questo registrato.
Buoni gli arrangiamenti ed il respiro internazionale che gli Stereonoises esaltano senza sforzo, una caratterialità quasi naturale che li rende autonomi dalle vetrofanie di tanti loro colleghi, una dosatissima miscela d’elettricità e tensioni melodiche che – una volta evidenziata dalla bella vocalità del cantante – si mette a disposizione di un ascolto molto, ma molto interessato; dunque antenne puntate sulle venature leggermente rock-wave tratteggiate nella title-track o nella punta di diamante dell’intero disco, quella ballata che ti trascina dentro consistenze vaporose e sofferte, dove puoi incontrare sia il Billy Corgan, il despota del melone sfracellato sia il passo lento e ironico di un Lou Reed spelacchiato ed imberbe, lungo i marciapiedi umidi e tristi della Hassle Street Newyorkese “Makin’ a circle”.
Davvero un buon lavoro per una band che ha costruito le proprie basi su di un sound deciso, determinato, una dotazione sonora e poetica che sa rallentare e darsi a manetta con professionalità insospettata, che mi strappa un punto in più oltre la lode, semplicemente vincente, esordientemente grande.