Sold-out a Milano, pienone a Torino, all’Hiroshima Mon Amour, lo scorso 19 marzo, per l’esibizione dei Brmc, terzetto composto da due californiani, Peter Hayes e Robert Levon Been, e dalla danese Leah Shapiro. Due date imperdibili che coincidono praticamente con l’uscita dell’ultimo album, Specter at the Feast, acquistabile dal 18 marzo e già ascoltabile gratuitamente su Spotify. Un disco diverso dal precedente Beat the Devil’s Tattoo, forse più incentrato sulla cura del suono che non sul ritmo, più riflessivo che di pancia, ma dotato del solito energico groove a cui la band ha abituato i suoi fans. E proprio con pezzi stravolti del nuovo lavoro, aprono il concerto: su “Let the day begin” tutti iniziano a saltare e ballare perché il fumoso shoegaze della band è commisto a un blues sanguigno e alla cassa in quattro, in un ideale mix di Kasabian da una parte e Black Keys dall’altra. Al quarto pezzo c’è già qualcuno seminudo che fa crowsurfing sulle prime file. I Brmc sono impenetrabili. Suonano un brano dietro l’altro senza dire neanche una parola, scenicamente non fanno nulla di nulla. Il massimo del movimento è l’inversione dei posti di Peter e Robert che indifferentemente cantano e suonano chitarra e basso, spostandosi quindi solo per assecondare la posizione degli amplificatori. Eppure l’occhio sul palco è indispensabile e si cerca sempre di capire da dove arrivi un certo suono, guardare quanto la corporeità, seppure fissa, stia sottolineando una frase o un crescendo dinamico. Ed è proprio nelle dinamiche che sta la grandezza dei live dei Brmc: solo tre componenti e dei crescendo calibratissimi che arrivano a raggiungere muri sonori corposi e impensabili per un organico tanto ridotto. Personalmente rimango impressionata dal suono della batteria (e sono andata debitamente a sbirciare il palco post concerto e cercare informazioni il giorno dopo): la Shapiro suona una Sonor customizzata per lei, tutta in legno (rullante escluso), con un suono caldo e una pacca precisa, secca ma avvolgente. Bacchette lunghissime e una compostezza invidiabile: schiena drittissima, capelli lunghi che quasi neppure oscillano dietro i suoi movimenti, polsi fermi e tanta velocità. La stragrande maggioranza dei presenti non aveva avuto modo di sentire l’album nuovo e la cosa si nota soprattutto per la reazione entusiasta con cui invece vengono accolte le vecchie glorie: “Beat The Devil’s Tattoo”, “Whatever Happened to My Rock’n’roll”, “Spread Your Love”, “Love Burns”. I veri cultori impazziscono quando la band attacca “Screaming Gun”, una b-side del 2002, raramente presentata dal vivo.
Quasi due ore di concerto e non sentirle: sul finale l’atmosfera si fa serissima, finalmente i Brmc salutano e ringraziano e chiudono con un’intimissima e intensa versione di “Lose Yourself”, la mia preferita di Specter at the Feast. Andate e perdete voi stessi, vivete a pieno, del tutto, sembrano dirci. E l’unica cosa con cui si torna a casa è il pensiero che si poteva perdere tutto, ma non una piccola perla come questo concerto.
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Black Rebel Motorcycle Club
Black Rebel Motorcycles Club – Specter At The Feast
C’è qualcosa che torna da lontano, ineffabile nelle pastorali psicotrope dei sempiterni Black Rebel Motorcycles Club, sì una nebbia vaticinante ora scarna ora ingrassata a pedaliere, e Specter At The Feast riafferma il magnetismo conquistadores che la band americana spalma nella sua – propedeutica sognante? – energia al rallenty che ogniqualvolta si (ri)presenta travolge sensi e teste in un trip da acchiappare al volo.
Disco maledetto dalle malelingue che vuole Peter Heyes e Robert Been al filo di lana di una creatività posticcia e riempiticcia, nulla di più falso, certo qualcosa si è smagnetizzato dagli esordi, ma il clangore calmo e la destrezza emozionale è ancora intatta, sottovoce e dreaming come poche, rimangono – loro – un marchingegno sonoro intimo e sofisticato che è tratto distintivo di una maturazione che pare non avere fine, sempre pronta a rimettersi in gioco e ad assimilare la giusta via di mezzo tra rock e una certa metafisica ondifraga che sebbene figlia adottiva di certi Jesus And Mary Chain o Primal Scream, lascia intendere una spiccata personalità customerizzata a dovere, senza ma senza se; dodici stati per una scaletta che carbura a dovere, un binomio – quello di Heyes/Been – che rimane in sella ad un bagliore “stradaiolo” esteticamente stiloso.
Polveroso e nebulizzato, l’album è una apparizione sonora dietro a territori volatili, distorsioni accennantemente seventies e quella decadenza drogata di certe visioni Altmaniane a fare da bastione a languidezze da desert-road “Fire Walker”, “Lullaby”, spettacolarità e derive alla metedrina pura “Some Kind of Ghost”, “Lose Yourself”, sgasate garage “Rival” ed una rivisitazione velocizzata di “Let The Day Begin” dei Call since 1989, un pathos che riempie l’animo e che dimentica certe similitudini forzate, specie quando il multistrato sonico di “Funny Games” rimbomba tra echi di estati d’amore e paure messianiche.
Abbreviando il moniker della band in BRMC, no si “smoscia” la tempra né la voracità d’azione, è solo un vezzeggiativo per sentirli ancora più vicini e ancor più “nostri” come riserva per momenti di vuoto in cui si vuole stare a tu per tu con l’armonia dell’elettricità.
Per cuori teneri e ardimentosi!