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Paolo Nutini 15/07/2015
Il concerto di Paolo Nutini a Pescara era uno degli eventi che in zona erano più attesi. Il cantautore scozzese tornava infatti nella cittadina adriatica dopo ben tre anni (era stato ospite del Pescara Jazz risultando l’evento più seguito della rassegna del 2012) portando con sé una band di ben nove elementi. Prima di lui erano previsti i Thegiornalisti (che hanno annullato l’esibizione appena un giorno prima comunicandolo tramite il loro account Twitter e la loro pagina ufficiale Facebook) e Levante. Quest’ultima ha dato prova della sua bravura in poco più di mezz’ora pescando brani dal suo repertorio e infiammando il pubblico con la sua hit più conosciuta “Alfonso”. Si presenta sul palco in jeans e camicia (tenuta poco idonea per il caldo della giornata come lei stessa ha tenuto a puntualizzare) e con la sua chitarra acustica color pastello. La sua è una bellezza tipica mediterranea fatta di lineamenti naturali e il pubblico sembra gradirla nonostante non si presenti svestita come fanno spesso molte sue colleghe approfittando del loro sex appeal. Il suo secondo album Abbi Cura di Te ha segnato il suo passaggio dalla Inri alla Carosello rendendone ancor più evidenti le sue qualità di autrice. Del resto ormai il suo nome ha iniziato a circolare anche all’estero avendo preso parte recentemente al prestigioso festival “South by Southwest” di Austin nel Texas.
Alle 22:02 è la volta di Paolo Nutini, che sale on stage invocato a gran voce dal pubblico dopo una breve introduzione. Il suo look è da vera rockstar, camicia a quadri rosso-nera apertissima sul petto che lascia a bocca aperta le ragazze presenti e un paio di jeans. Le movenze sono un mix perfetto fra Mick Jagger e Bruce Springsteen, pur essendo forse un po’ troppo statico sul palco (ma capace di ammaliare il pubblico spingendosi talvolta persino vicino alle transenne). Pur risultando poco loquace riesce sempre a stabilire la giusta alchimia fra lui e i presenti che gli dedicano persino dei cartelloni a lui inneggianti nelle prime file. Il rapporto che lo lega all’Italia (forse non tutti sanno che suo padre era di discendenze toscane) è davvero forte, tanto da arrivare a proporre anche una cover di “Guarda che luna” del grande e compianto Fred Buscaglione durante uno dei bis durante i quali però dimentica di presentare la sua band. Un rapporto che ha saputo costruire nel tempo, in soli tre album (“These Streets”, “Sunny Side Up” e il recente “Caustic Love”), con piccoli ma grandi gesti, come quello del mese scorso a Trieste, quando ha cantato davanti la sala matrimoni del Comune un miniset di tre canzoni in acustico per i circa duecento che avevano resistito alle intemperie che lo avevano costretto a cancellare all’ultimo momento la sua esibizione.
I dati della data pescarese invece parlano chiaro: oltre due ore per due concerti di due grandi artisti, una italiana e uno scozzese, per circa 4000 paganti; cifre impressionanti per una regione quale l’Abruzzo che sta puntando sempre più sui suoi eventi per “creare” nuovo turismo. Cifre che fanno ben sperare nel futuro musicale del territorio, trascurato dai grandi tour in passato ma che aprono uno spiraglio nuovo per una realtà assetata di concerti. Ed ora si inizia già a pensare all’edizione 2016 di Onde Sonore Festival che si afferma sempre più come miglior festival Rock abruzzese.
The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 Il Reportage
The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 La Photo Gallery
Normalmente, quando si fa un live report ci si astiene dall’analizzare anche alcuni fattori logistici legati all’organizzazione, ma quando il nome del gruppo che si esibisce in concerto è The Rolling Stones allora bisogna proprio cambiare incipit analizzando i pro e i contro relativi a un evento di tale portata internazionale.
Sicurezza: purtroppo tocca dire che ha lasciato molto a desiderare in quanto all’interno dell’area sono stati introdotti diversi oggetti “proibiti” tipo ombrelli, bottiglie in vetro (mentre a me è stato possibile introdurre appena una bottiglia di acqua ma senza tappo!), reflex digitali gigantesche (se lo sapevo…), telecamere e chi più ne ha più ne metta. Se davvero erano 1000 gli steward presenti (si vocifera anche di 300 forze dell’ordine, ma probabilmente queste erano di più),cosa facevano durante i controlli agli ingressi e perché all’interno dell’area scarseggiavano in quanto a presenza?
Disposizione degli spazi all’interno dell’area concerto: ancora ci si chiede il perché decine di gazebo con stand che ostruivano la visuale disposti a caso all’interno del prato. Normalmente, in manifestazioni simili, tali strutture vengono messe solo ai lati del palco mentre qui, vi assicuriamo, erano disposte in maniera casuale e tale da non far vedere nulla a chiunque capitasse dietro di loro anche a decine di metri di distanza. Non sono mancate quindi le polemiche all’uscita dei fan che hanno fatto notare che gli unici che hanno potuto usufruire di una visuale perfetta sono stati i pochi e fortunati possessori dei biglietti del Parterre Gold (che ovviamente avevano un costo nettamente maggiore rispetto a quello del posto unico).
Bagni: in quanto a numero erano davvero tanti e per fortuna sono stati sufficienti a reggere l’impatto di oltre 70000 presenti che ne avrebbero avuto bisogno nel corso della giornata. Peccato però che per raggiungerli ci voleva davvero molto tempo.
Trasporti: giustissima la scelta di chiudere la fermata locale della metropolitana, perché così gli spettatori sono defluiti in maniera più veloce, per la felicità di tutti, divisi fra le fermate di Piramide e Colosseo.
Audio: suono perfetto percepibile ovunque (merito anche di un gran lavoro fatto dai tecnici nel primo pomeriggio durante il sound check, che ovviamente abbiamo potuto ascoltare solo da fuori dell’area, tra l’altro coperta interamente da teli alti circa due metri).
Affitto dell’area: l’organizzazione pare abbia pagato circa 8000 euro al Comune di Roma, ma, come giustamente ha fatto notare il sindaco della città in un’intervista a RaiNews24, l’evento ha fruttato ben 25 milioni di indotto economico in alberghi, taxi, ristoranti, bar ed ha anche ovviamente assicurato un ottimo ritorno d’immagine a Roma. Una perfetta operazione di marketing territoriale quindi.
Biglietti: venduti sul circuito Ticketone, su Point Service S.r.l. (Greenticket) su Postepayfun e su qualche altro canale in limitatissima quantità (ad esempio sito del Corriere della Sera), sono stati i più economici del tour europeo nonostante venissero 78 euro + diritti di prevendita. Evento subito esauritissimo, tanto che alcuni hanno cercato di accaparrarsi il prezioso tagliando di ingresso usando circuiti alternativi, nonostante la Di and GiSrl., organizzatrice dell’evento insieme al Comune di Roma e al Postepay Rock In Rom, avesse comunicato nei giorni scorsi che alcuni biglietti erano stati falsificati. Ovviamente la ditta si era anche attivata presso la competente Autorità giudiziaria per far luce sulla vicenda.
Servizi extra: è stata lanciata la App gratuita per Android e Iphone“Room on fire” con le notizie, aggiornate in tempo reale sul traffico, il meteo, eventuali variazioni di programma ed altre informazioni utili, coi percorsi per raggiungere il Circo Massimo e la mappa per orientarsi nell’area, con l’indicazione dei punti notevoli, dalle fermate dell’autobus, ai parcheggi, alle uscite di sicurezza, e tanti extra, con approfondimenti sui Rolling Stones, sul supportact John Mayer, sul Circo Massimo e la photo-gallery del concerto.
Eventi in contemporanea: qualche polemica pure per lo svolgimento in contemporanea di una delle due date italiane dei Pearl Jam (a Trieste), ma chi voleva assistere allo show del gruppo di Seattle in fondo poteva anche optare per la data del 20 giugno allo stadio San Siro di Milano. Inutile quindi quest’ultima diatriba!
Potremmo dilungarci su questi e mille altri aspetti, ma il nostro compito è quello di dedicarci prettamente all’aspetto musicale e quindi inizieremo col sottolineare che il cosiddetto supporter John Mayer, vestito con una shirt bianca, in realtà ha dato vita a un acceso miniconcerto di enorme qualità in cui hanno trovato spazio molte canzoni vecchie (tra cui “Gravity”, famosa hit del 2006, che ha chiuso l’esibizione) e le sole “Wild Fire” e “Dear Marie” dall’ultimo disco del cantautore statunitense, Paradise Valley del 2013. Da sottolineare che la sua è stata l’unica esibizione in suolo italico e che per ora non sono previste ulteriori date nella nostra penisola. Qualche minuto prima delle dieci è poi il turno degli attesissimi The Rolling Stones, trainati dal solito Mick Jagger che si presenta inizialmente con una giacchetta color oro e che saluta la folla dicendo “Che bello tornare a Roma!”. Durante l’intero concerto continuerà a ridere e scherzare col pubblico in italiano, soprattutto durante la presentazione della band, in cui si rivolge al suo amico Ron Wood dicendo “Ronnie non mangia abbastanza pasta…” e a Charlie Watts con un simpatico”alla batteria Charlie Roberto Watts“.
Nella scaletta romana pesanti sono state le assenze di hit quali “Angie”, “Harlem Shuffle”, “Lady Jane”, “Let It Bleed” e “Paint it Black” ma ciò era inevitabile considerato che gli Stones hanno “solamente” 50 anni di carriera alle spalle da coprire. Comunque sia andata, questo è stato sicuramente l’evento Rock dell’anno (c’è chi azzarda persino del secolo!) essendo stata l’unica tappa italiana del tour mondiale “14 On Fire”. C’è stato persino chi ha dormito davanti agli ingressi del Circo Massimo per accaparrarsi la migliore location possibile, mentre centinaia di fan hanno preferito presentarsi davanti all’hotel dove alloggiava il gruppo, essendoci stata una fuga di notizie nei giorni scorsi su tutti i mass media nazionali. Le grandi sorprese della giornata sono state l’esecuzione perfetta di “Respectable” (brano scelto tramite referendum online dai fans) con John Mayer ospite e “Miss You” dove uno straordinario Darryl Jones (ormai da anni a fianco della band) ha dato il meglio di sé stesso al basso con uno stupendo assolo introdotto da Mick con un “Darryl, come on…Come on, do it!”. Peccato solo per l’assenza di Bruce Springsteen, di cui si era vociferato da giorni un cameo sul palco dopo la sua apparizione sul palco a Lisbona dove ha cantato “Tumbling Dice”. Per ora però preferiamo ricordare la bandana giamaicana di Keith Richards, l’entusiasmo con cui Charlie Watts ha picchiato per tutto il concerto sulle pelli e sui piatti della sua batteria e la chitarra graffiante di Ron Wood e “ci si accontenta” di aver rivisto un Mick Taylor (nella band dal 1969 al 1974) sempre in ottima forma nonostante qualche chilo ed anno in più.
Tra il pubblico accorso diversi vip quali Livio Magnini dei Bluvertigo, Zucchero, Edoardo Bennato, Alex Britti, Beppe Grillo (leader del Movimento 5 Stelle), il giornalista Gianni Minà, Roberto D’Agostino, Lucrezia Lante Della Rovere, l’attrice e conduttrice televisiva Giorgia Surina, Emanuele Filiberto, Giorgia, Paola Cortellesi, Sabina Guzzanti e il premio oscar Paolo Sorrentino. E c’è già chi ha incoronato Mick Jagger, che ha salutato con un semplice “Grazie. Ciao Roma, ciao Italia”, ottavo re di Roma giurando che gli Stones siano eterni come la Caput Mundi perché senella valle del Circo Massimo fosse avvenuto il mitico episodio del ratto delle Sabine, in occasione dei giochi indetti da Romolo in onore del dio Consus, oggi è stato tempo di un altro avvenimento che rimarrà per sempre nella storia. Poco importa alla fine se gli Stones non erano dei gladiatori, in fondo hanno acceso l’arena lo stesso. Alla fine anche un piccolo spettacolo pirotecnico dal palco.
Un ultimo aneddoto: Mick Jagger, pur non indossando la maglietta della nazionale di calcio come nel 1982, ha azzardato un pronostico sui Mondiali di Brasile 2014 “L’Italia vincerà la Coppa del Mondo, eh? In bocca al lupo per martedì. Penso che la partita finirà 2-1 per Italia”. Avrà avuto ragione sulla squadra allenata da Cesare Prandelli?
Bruce Springsteen – High Hopes
Due premesse sono dovute. Punto primo: sono un fan del Boss dal 2009 (ovvero dalla prima volta che l’ho visto dal vivo) al punto da esserne quasi patologico. Quattro concerti (solo?) in stadi che quella notte sembravano il salotto di casa mia pieno di 70.000 parenti e amici del cuore. Un inequivocabile tatuaggione tamarro sul polpaccio a citare “Born To Run” (con tanto di font uguale al disco). E soprattutto non passa giorno della mia vita che non ascolti almeno una sua canzone, come una medicina contro qualsiasi accenno al mal di vivere o semplicemente per amplificare qualunque piccola o grande emozione. Punto secondo: ad essere onesti, su questo disco di “grandi aspettative” non ne avevo proprio. Non sono per nulla un sostenitore del chitarrismo di Tom Morello, soprattutto in tutto ciò che va fuori dal suo seminato (che a mio avviso si limita ai Rage Against The Machine e poco altro). La notizia della sua presenza in quasi tutti i brani di un album costruito da canzoni rispolverate dal passato non mi convinceva per nulla. Lo ammetto mi puzzava di un disco di auto-cover, registrato in tour con take recuperate dagli archivi. E non ne capivo la necessità. Ma Springsteen non fa nulla a caso e sapevo che la sorpresa sarebbe stata dietro l’angolo.
High Hopes infatti è un buon lavoro, incredibilmente compatto nella sua disomogeneità. Un blocco unico nonostante il minestrone di canzoni pescate qua e la nel tempo. È solido ed è il disco più Rock’n’Roll del Boss dai tempi di Lucky Town/Human Touch. Meno ispirato del rabbioso e corale Gospel di Wrecking Ball, da cui eredita però un pugno chiuso e il muscolo teso. Ma quello quasi mai è mancato nella discografia dell’eterno ragazzo del New Jersey. Anche la produzione, mescolata pure quella tra il superbig Brendan O’Brien e Ron Aniello, segue comunque una linea ben definita con la chitarra di Tom Morello che spinge tutto sull’acceleratore e la voce di Bruce, sempre più in forma e sempre più espressiva. A tracciare una strada che non presenta alcuna incertezza. E poi c’è tutta la E-Street Band, comprese registrazioni dei compianti Clarence Clemons e Danny Federici. Sentirli suonare (anche su disco) è sempre un brivido sulla pelle. La title track è una cover dei californiani The Havalinas. Rullante incalzante, percussioni, chitarre acustiche, cori e fiati a profusione. Poi l’inconfondibile chitarra di Morello, forse non quello che ti aspetteresti, ma il corpo si muove senza freni: ottimismo e fede. “Harry’s Place” è scura con basso e synth in primo piano, il sax di Clarence Clemons porta la canzone ad un altro livello. “American Skin (41 Shots)” è un brano del 2001 e rinasce in chiave più rabbiosa e moderna con tanto di bit campionati. Perde però un po’ l’umanità e il melanconico incalzare presente nella versione del “Live in New York 2001”. In ogni caso registra il miglior assolo di Tom Morello in questo disco. Non c’è dubbio che il suo modo di suonare (a meno di sbrodolamenti eccessivi) sia a dir poco geniale. Anche “Down The Hole” parte su suoni campionati poi ruba il ritmo a “I’m on Fire”, non risulta memorabile nonostante la splendida voce di Patti Scialfa, l’organo di Danny Federici e il testo di una spiazzante semplicità e che (come al solito) trafigge il cuore: I got nothing but heart and sky and sunshine, the things you left behind. “Heaven’s Wall” risolleva decisamente il morale: cori Gospel, temi biblici e l’assolo di Morello anche qui superispirato. La speranza si trasforma in allegria dentro la pazza storia di Shakespeare e Einstein che si bevono una birra insieme e discutono sull’amore in “Frenkie Fell in Love”.
Discorso a parte per la stravolta “The Ghost of Tom Joad” che provoca in me sentimenti contrastanti. Ad accompagnare Springsteen c’è la voce dell’onnipresente Tom Morello. Ottimo interprete vocale, ma ora la sua chitarra è troppo. Molto più vera e sentita la versione acustica del 1995. Certo, anche ora l’odore della strada e della lotta non vengono meno. Il sali-scendi da manuale è dopotutto firmato della magica E-Street Band. Il brano più toccante è il Valzer dal sapore dylaniano “Hunter of Invisible Game”, colma di richiami religiosi, di forza, di ricerca della pace e di futuro. Strength is vanity and time is illusion, I feel you breathing, the rest is confusion: pezzo che vale il disco. Anche “The Wall”, ballata dedicata a un soldato scomparso in Vietnam, è da pelle d’oca, già solo per l’arrangiamento e per le corde vocali del Boss. Lui è proprio il capo. Il capo capace di incanalare le nostre emozioni più forti e sbattercele in faccia con quella facilità del nonno che ti racconta la storia al bordo del tuo letto. E non ha paura a parlarti di morte e distruzione, perché sa benissimo che tu saprai essere più forte di tutto questo.
Insomma dopo innumerevoli ascolti non posso certo dire che questo sia un disco inutile. Per fortuna il mio pessimismo in partenza era eccessivo. Come tutto ciò che Springsteen fa, anche questo disco risulta essere necessario. Almeno per la mia salute.
Luca Milani – Lost For Rock’n’Roll
Luca Milani arriva al suo terzo disco da solista con la voglia di far emergere la propria indole pesantemente Rock’n’Roll cercando di scrollarsi dalle spalle le ombre troppo ingombranti dei colossi della musica Rock internazionale, non riesce a digerire le proprie origini (purtroppo per lui) italianissime e sbatte violentemente contro il muro della ripetitività. Lost For Rock’n’Roll è l’ultima fatica del musicista milanese di nome e di fatto anticipato dal singolo “Silence of This Town” uscito per l’accoppiata Hellm Records / Martiné Records. Parliamoci subito chiaro e mettiamo davanti a tutto il fatto che il disco è suonato divinamente con un forte impatto sonoro e dal punto di vista musicale risulta ineccepibile, sembra veramente di ascoltare un disco di Bruce Springsteen sotto l’ombra di una bandiera a stelle e strisce, su questo non ci piove. Lost For Rock’n’Roll alla fine dei conti (e degli ascolti) sembra sempre di più un disco suonato egregiamente (continuo a sottolinearlo) ma dagli sviluppi troppo scontati e nostalgici, manca di carattere e questo mette la testa di Luca Milani sulla ghigliottina della superficialità, il sogno americano marcato a fuoco dentro l’anima in qualche maniera rovina il risultato finale di un musicista di indiscusso talento. Potrei stare qui per ore a parlare di quanto sia tecnicamente valido il disco, di quanto sublime sia quel passaggio piuttosto che quel riff ma l’emotività dove l’abbiamo messa? Il senso di originalità gettato alla deriva senza nessuna speranza di potersi salvare, ho quasi il timore di trovarmi davanti una banalissima cover band. Coraggio, cerchiamo di essere musicalmente sinceri e genuini. Un ottima produzione artistica ultimamente non corrisponde più ad un buon disco, un presentimento personale ormai troppe volte verificato, della serie non è tutto oro quello che luccica. Luca Milani suona divinamente ma con troppi fantasmi del passato nella mente, Lost For Rock’n’Roll è un buon disco Rock come tantissimi altri in circolazione, niente di più. E’ da queste cose che un grande artista si differenzia da un bravo musicista.
Bruce Springsteen & The E-Street Band. LONG WALK HOME.
31 maggio 2013 @Padova
È sembrato proprio un lungo e inaspettato ritorno a casa quello che Bruce Springsteen ci ha regalato nelle prime tre notti italiane del suo tour europeo (23 Maggio a Napoli, 31 a Padova e 3 Giugno a Milano; abbiamo ancora da gustare l’11 Luglio a Roma). Qualcuno pensa che possa essere l’ultimo viaggio con la sua adorata band. Più che una band ormai una famiglia, sempre più larga negli anni come è largo il loro sorriso sul palco, unito non solo dalle note che fluiscono comode ma anche dagli sguardi, da come si toccano e come si parlano. E anche chi non c’è più (Dani Federici ci ha abbandonati nel 2008 e il “Big Man” Clarence Clemmons nel 2011) risplende di luce riflessa. La musica pare essere solo un pretesto, ormai, per farci osservare una delle più grandi meraviglie della musica pop: The E-Street Band.
Il Boss però a Padova sorprende tutti e sale sul palco da solo, quasi a farci capire come l’atmosfera sia diversa tra ciò che è un uomo e ciò che è un uomo con la sua famiglia. Ci spezza il cuore dal primo rauco verso di una versione struggente di “The Ghost of Tom Joad”. Chitarra e voce, solo lui e il suo pubblico, 40mila persone ammutolite dalla poesia durissima e dall’armonica che taglia l’aria fredda del capoluogo veneto. Doveva essere una data diversa e i presupposti ci sono tutti. Anche quando sale la migliore band live al mondo (non mi stuferò mai di dirlo, sono la migliore ancora oggi dopo 40 anni!). Attaccano “Long Walk Home”, non di certo una hit, ma uno di quei pezzi che metti in secondo piano e poi dopo tanti anni lo ascolti dal vivo e ti appare come un lampo nel cielo. Everybody has a neighbour, everybody has a friend, everybody has a reason to begin again, facile e diretta, capace di toccare con un solo gesto le radici e le ultime foglie dell’albero.
Si, è vero, si torna a casa e a casa ci torna pure Bruce, con la sua famiglia; è tutto amplificato. Pure le emozioni. La setlist e la band lo assecondano: “My Love Will Not Let You Down” e l’inconfondibile piano Roy Bittan, “Two Hearts” e Little Steven si diverte come un bambino gracchiando al microfono, “Sprit in The Night” e gli spiriti del gospel coprono lo stadio, che nel mentre si copre pure di nuvoloni terrificanti. Niente di grave se qui la E-Street Band suona tutto Born to Run e “Jungleland” vale da sola il prezzo del biglietto. La voce di Springsteen è in ottima forma, meglio che mai. Sempre più viscerale, sempre più vecchia e saggia. Le sue storie di sogni e di glorie rubate hanno ormai quasi 40 anni, ma oggi sono più penetranti della pioggia. Ci bagniamo volentieri.
L’acustica è uno schifo e l’organizzazione di Padova peggio (giusto per cronaca ho parcheggiato in uno svincolo autostradale camminando sul guardrail per arrivare in loco), ma lo spettacolo per fortuna non manca e non mancano i classici di questo tour come “Shackled and Drawn”, “The Rising” e la spensierata “Waiting on a Sunny Day” con la solita scenetta del bambino che canta il ritornello (per altro a questo giro intonatissimo e spavaldo!).
Sembra quasi che questo live si stia avvicinando al solito ed epico finale. Ma le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Così la prima tra le encore è “Pay me my Money Down” suonata con Caterino (curioso personaggio raccattato da Bruce tra il pubblico) alla washboard (quell’asse per il bucato che viene suonata anche da Karim degli Zen Circus, avete presente?). Caterino è nella band, è scatenato, su di giri, ma fa divertire tutti compreso Little Steven che smette di suonare per ridere di gusto. La forza di questa band sta nell’emozionare sempre, anche con le cazzate. E così il prevedibile finale sbracato con “Twist And Show” ci lascia con il sorriso, la pelle d’oca e con tanta acquolina in bocca per un concerto di (solo?) 2 ore e 45, volato via nel vento insieme ai suoi “spiriti della notte” che da lassù proteggono e custodiscono la prima meraviglia del mondo del Pop.
Certo per noi e per la band è difficile andare via da questa casa, una casa i cui mattoni sono parole di lotta e suoni di speranza.
Bruce Springsteen – Wrecking Ball
Rabbia, amore, dolore per l’amico sodale Clarence “Big Men” Clemons spentosi dieci mesi fa e amarezza non contenuta per il destino della sua nazione America e dei suoi figli che la crisi ha dilaniato insieme; il diciassettesimo disco in studio di Bruce Springsteen “Wrecking ball” è insieme urlo disperato e pathos armonico d’Irlanda, un disco che è insieme sangue e speranza sotto un cielo plumbeo e triste, tredici tapes, tredici lamenti umani d’insondabile brivido, profondità e passione che si coagulano in un unico essenziale calore che è poi la cifra stilistica inconfondibile del Boss.
E all’interno ci sono anche i riferimenti agli anti-eroi della storia, le stelle senza coda che hanno tratteggiato pagine sonore o di carta della vita, il radicalismo di Woody Guthrie “Jack of all trades” come il furore Steinbeckiano “Shackled and drawn”, poi quello che come una ventata d’orgoglio infinito arriva dietro è apoteosi di fremiti e cronache che disegnano un’America nuda, un “naked lunch” sulla bocca ingorda del Dio Dollaro “Easy money”, una lista di ballate e out-style nate in precedenza per essere suonate con la sola chitarra acustica ma che poi in studio session si è voluto dilatarne il raggio d’azione per essere complici vaste di un inno vero contro le ingiustizie, le falsità.
Trema il Boss quando canta in “Death to my hometown” “..hanno distrutto le fabbriche delle nostre famiglie/ si sono presi le nostre case/ hanno abbandonato i nostri corpi sulle pianure/ con gli avvoltoi che beccavano le nostra ossa…” o quando urla a vene gonfie che “..l’uomo è intrappolato nei debiti che nessun uomo onesto può pagare..” tra le righe della stupenda “Jack of all trades”, è una dimensione che fa saltare i polsi, come il gospel che incontra l’hip hop “Rocky ground”, ma è quando arriva quel pezzo di cuore in frammenti “Land of hope and dreams” dedicato all’amico di sempre, al magico sax della E-Street Band, il gigante buono Clemons che il disco lacrima davvero e che come una magia da chissà quale lassù, porta quel fascio di raggi sole ad illuminare l’America affondata del Boss con quel “domani splenderà il sole e passerà tutta questa oscurità”.
Torna il Boss con tutte le inquietudini di un mondo spaccato, torna il Boss che al contrario di quando cantava “nessun posto dove andare e nessun posto dove correre” in Born in The Usa, sa dove colpire con i proiettili duri della sua poesia disillusa.