Built to Spill Tag Archive
Gli album in arrivo a settembre
Un po’ di dischi in uscita che noi non vediamo l’ora di ascoltare (e magari anche voi).
Continue ReadingBlack Tail – You Can Dream It in Reverse
Poco importa se sarà una primavera diversa: le sofferenze passano, la bellezza rimane.
Continue Reading‘Chi Suona Stasera?’ – Guida alla musica live [maggio 2019]
Built To Spill, Zu, Fennesz… Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.
Continue ReadingIl Video della Settimana: Any Other – “Something”
Il progetto Any Other: parte dal rimettersi in gioco, dal piazzare al centro le proprie canzoni ritrovandosi un anno dopo con un disco, Silently. Quietly. Going Away. Dieci brani che raccontano chi è Adele, cosa le succede, cosa le piace e cosa no, cosa ascolta e cosa sa fare con una chitarra in mano. Così l’iniziale “Something” diventa il ponte ideale tra quello che era e quello che è adesso, da cui partire per entrare in un mondo fatto di chitarre e piccola poesia, un indierock che sfiora il college delle origini – quello caro ai Modest Mouse, ai Built To Spill, a Waxahatchee – cantato con la sfacciata sicurezza che ricorda la giovane Alanis Morrissette.
Built to Spill
Ci ho messo parecchio a compilare questo report, me ne rendo conto. Non è tanto questione di tempo a disposizione, quanto di riordinare le idee che un concerto ti dà, in un determinato contesto e in un dato periodo della tua vita. Non che i Built to Spill siano il gruppo della mia vita, sono andata al concerto più che per curiosità che per fanatismo o ammirazione, ma la band sa muovere certe corde e se sei in un mood un po’ blu, è fatta. Il sound cupo, rumoroso in modo controllato ed elegante della band di Doug Martsch risuona nel parco del Circolo Magnolia davanti a pochissime persone (pochissime rispetto a quello che mi sarei aspettata, l’area davanti al palco era zeppa di gente, ma pur sempre di dimensioni molto contenute): il concerto si apre con “Goin’Against Your Mind” e insomma, il mio scazzo non sarebbe migliorato affatto. Martsch è nevrile nel modo di cantare, saldo davanti al microfono, un fascio di nervi: crede ad ogni parola che dice e questo rende il messaggio molto più immediato.
Il pubblico è molto attento, silenzioso, concentratissimo. Sembra un concerto d’altri tempi o pare di assistere a un vaticinio. I suoni non sono sempre pulitissimi, forse colpa della location: troppe acute che disturbano. Dopo “In The Morning”, “Revolution” e “Centre of the Universe” ho già le orecchie bollite. I Built to Spill non vantano chissà che presenza scenica, parlano pochissimo, si limitano a ringraziare, in italiano, quando si ricordano. Ma non è certo quel tipo di comunicazione che ricercano, né quel tipo di comunicazione che vuole il loro pubblico. Dopo l’intensa “Get a Life” la scaletta per me scorre abbastanza placida (“Heart”, “Strange”, “Sidewalk”, “Joyride”), fino a “I Would Hurt a Fly” che mi risveglia dalla trance mistica della confusione scazzo-depressiva che mi stavo portando addosso e mi fa godere della bella esecuzione di “Else”, “Fuck 2006” e della mia preferita, “Carry The Zero”. Una bella esecuzione, sì, per quanto Martsch non ce la faccia vocalmente più da almeno cinque canzoni: le frasi vengono troncate prima di quando avrebbero dovuto essere, come se mancasse il fiato e i falsetti sono addirittura stonati in più riprese.
La band rientra per un encore inaspettato e mozzafiato: sta suonando da più di un’ora e mezza consecutiva e se ne ritorna sul palco per lanciare due rivisitazioni molto personali e molto coraggiose di “How Soon is Now” degli Smiths e di “Age of Consent” dei New Order. Qualcuno neanche se ne accorge, qualcuno si gasa per la prima volta dopo un concerto molto intimista, essenziale, impreciso in più punti ma fondamentalmente molto buono per quanto riguarda l’intensità emozionale. Se non ci siete andati, non è che avete perso gran cosa a livello puramente tecnico-compositivo, però avete mancato l’occasione di vedere che la musica è ben altro che note pulite, precisione, grandiosità scenica. E un po’ secondo me ce lo si dimentica che il live è più pancia che dita veloci e frasi a effetto lanciate dal microfono.
Aedi – Ha Ta Ka Pa
Una delle più promettenti e deliziose realtà della penisola viene da San Severino Marche e risponde al nome di Aedi. A distanza di circa tre anni dall’opera prima Aedi Met Heidi, esce proprio nel 2013 il loro lavoro più ambizioso, Ha Ta Ka Pa, realizzato sotto l’ala protettrice di Alexander Hacke, basso, chitarra e voce nei mitici Einsturzende Neubauten. Tale sodalizio, si mostrerà evidente nell’evoluzione del sound della band che, messe da parte le atmosfere pastorali degli esordi, acquista un’energia e una forza eccezionale, rispetto al recente passato.
Ritmiche quasi Math si alternano a sferzate chitarristiche stile Built To Spill nel brano d’apertura “Animale”, certamente uno dei punti più alti dell’opera nel suo miscelare quel Rock alternativo anni 90 a potenza quasi crossover senza disdegnare momenti Punk Cabaret alla Dresden Dolls (vedi anche la parte che anticipa la chiusura di “Fohn”) quando il piano delirante insegue la chitarra, sullo sfondo di una voce angelica e demoniaca allo stesso tempo.
La voce di Celeste Carboni, melodiosa, anche quando alza i toni in vocalizzi mefistofelici che ricordano Diamanda Galas (“Animale”, “Idea”) riesce a essere leggera, morbida ed eterea mostrando non solo la sua timbrica affascinante ma anche discrete capacità e qualità canore.
L’importanza di Alexander Hacke, nello sviluppo del suono nuovo degli Aedi diventa palese negli episodi in cui le ritmiche si fanno tribali e assillanti e le chitarre distorte, sferzanti e taglienti (“Idea”).
I legami col recente passato, fatto di avanguardie folk e rock minimale, della band marchigiana non mancano (“Rabbit On The Road”), cosi come si possono intravedere strizzate d’occhio alla scena Indie più attuale (di scuola Arcade Fire) in pezzi come “Fohn”, brano gradevole, vertiginoso e trascinante all’ascolto ma senza il piglio innovativo che ci ha fatto apprezzare gli Aedi passati. Certamente, se preso come un intramezzo necessario per dare slancio a Ha Ta Ka Pa, è un pezzo più che riuscito, ma le cose migliori sono altre. Discorso simile per “Nero” che invece sembra riprendere le sonorità cupe e introspettive, specie nella sezione ritmica, degli ultimi Radiohead e per “Prayer Of Wind”, che tuttavia ricalca stilemi più vicini al Dream Pop (anche se la parte corale nel finale non può non far pensare ai canadesi già citati) mantenendo intatta quella vena ancestrale che pare fare la fortuna dei marchigiani. Non è quindi un semplice divertissement quest’avvicinamento alla scena Indie ma lascia lo spiraglio per una futura possibile nuova evoluzione, fortemente rischiosa da un punto di vista artistico ma che può certamente aiutare ad ampliare la fetta di pubblico interessata al sound Aedi. C’è da dire che, soprattutto grazie allo stile canoro bucolico di Celeste Carboni, la popolarizzazione del loro sound non sembra possa mai trasformarsi in mera banalizzazione, ma sarà tuttavia il futuro a darci tutte le risposte in merito.
Dopo le note leggere e dreamy di “Tomasz” arriviamo alla parte più interessante dell’album, che inizia con la spettacolare “Yaca”, fatta di chitarre acidissime, tribalismi martellanti e atmosfere lisergiche anni sessanta/settanta. La voce lucente di Celeste vibra in un’apparente monotonia ipnotica, quasi a ricordare Grace Slick e i Jefferson Airplane di “White Rabbit”. La chiusura è affidata a “The Sound of Death”, litania languida in crescendo di quasi solo voci (in questo caso Celeste non è sola), con accompagnamento chitarristico Slow/Sadcore e velatamente folkeggiante che diventa sempre più folle, distorto, pazzoide e frastornante a mano a mano che l’enfasi vocale aumenta la sua intensità. Il modo migliore per chiudere un disco che mantiene le promesse fatte cinque anni fa e che lascia nuove speranze per i talenti del nostro paese. Un disco assolutamente da ascoltare e una band da non lasciarsi sfuggire.