Cantautorale Tag Archive
iFasti – Palestre
C’è un bellissimo spirito dietro a questo Palestre de iFasti, ex Seminole. Un disco che, nelle loro intenzioni, è esercizio mentale e allenamento al pensiero critico, in una scaletta che riprende brani già editi e li ripropone ri-arrangiati e ri-registrati per l’occasione, insieme a canzoni nuove. Anche le coordinate sonore sono interessanti: un’Elettronica Cantautorale molto ritmica con qua e là momenti più ariosi che ricorda, a volte anche troppo, gli Offlaga Disco Pax (“Gracidi”, “Mercy”). Ciò che li ferma è la resa che spesso non decolla, soprattutto per la parte vocale, che non riesce a ingranare (di Max Collini ce n’è uno). I brani, se sulla carta vivono di uno spirito battagliero e “dalla parte giusta”, nell’aria si perdono in qualche banalità di troppo e non riescono a crearsi un’identità veramente personale e interessante. Un disco non da buttare che racconta storie anche curiose e con uno sguardo con cui viene facile simpatizzare, ma che purtroppo non riesce a rimanerci nella memoria e nel cuore quanto dovrebbe.
Davide Solfrini – Muda
Dopo Circadian Blues e Shiva e il Monolocale (primi due EP autoprodotti) ed un album live, Davide Solfrini ci presenta, in collaborazione con New Model Label, il suo album di debutto: Muda. È romagnolo, è ispirato e sa quello che fa e ce lo comunica attraverso un album da tener d’occhio. Lo stile è ispirato senza dubbio ad un Pop datato, ma di notevole interesse, al punto tale da avere il retrogusto di un tentativo modernizzazione dello stesso. Le dieci tracce di cui si compone l’opera risultano tutte ben riuscite. Lo strumentale è leggero ed orecchiabile, com’è giusto che sia nel rispetto del genere. L’ingrediente segreto a garanzia del risultato risiede nel particolarissimo e sottile timbro vocale di Davide, che non può assolutamente passare inosservato, congiuntamente con la stesura di testi coinvolgenti ed intriganti. Inevitabile la domanda: ma cosa vuol dire Muda?
La risposta perviene direttamente dall’artista attraverso la open track, che dona il titolo all’opera. Muda è il caos, la legge che governa gli equilibri di cui l’intero Universo non può fare a meno. E ce lo racconta attraverso sfumature Folk, che sanno quasi di ballata nottura intorno al focolare, adornata da riti tribali. Senza dubbio la versione live, che trova collocazione come credit track, rende molto meglio l’idea. I toni si fanno più aggressivi e l’autore non si risparmia orazioni dal tono sostenuto. Di differente interesse sono tracce come “Marta al Telefono”, un richiamo al Pop di Battisti in perfetto stile, adornato da chorus sottilissimi e quasi impercettibili, o come “Domenica”, di ritorno agli 80 di Viareggio. Track by track è possibile scorgere influenze Folk che richiamano gli America e tutto lo scenario che ha caratterizzato l’epoca, ruotando intorno al genere. A dir poco invidiabile la capacità di Davide di sintetizzare al meglio passato e presente, sporcandolo qui e lì di tracce di un futuro che forse saremo in grado di apprezzare meglio nei suoi prossimi lavori. Un disco alla portata di tutti e che ben saprà interessare la critica anche più pretenziosa. Discorso a parte per la “poppeggiante” “Equilibrio”, simpatica, interessante e che sa ben farsi cantare ai piedi di un palco, un po’ come il disco intero. Difficile non canticchiare le melodie proposte, dopo un attento ascolto dell’opera nella sua integrità.
Un lavoro assolutamente notevole, dunque, Muda, meritevole di ripetuti ascolti e di minuziosi approfondimenti. A quanto pare Solfrini ha colto nel segno e fa del suo disco d’esordio un “disco zero”, dall’intenso profumo di promessa. Testi e musica si miscelano a formare un’intensa esperienza d’ascolto, pur mantenendo le proprie identità ben identificabili in ogni secondo inciso. D’altronde è il caos, che tutto confonde e che tutto regola con assoluta precisione matematica. L’algoritmo perfetto per il Big Bang (per chi ci crede). Chissà che non ce ne sia uno in serbo anche per il talentuoso romagnolo.
Adolfo De Cecco – Metromoralità
Se non fosse per l’anagrafe che lo lega fermamente alla terra abruzzese, sarebbe fin troppo facile scambiare Adolfo De Cecco per un cantautore uscito dai Folk Studios di Roma negli anni settanta.
Metromoralità è un disco che , prodotto artisticamente dal maestro Vince Tempera, noto ai più per essere stato l’autore o il coautore delle sigle di diversi cartoni animati degli anni settanta e ottanta (uno tra tutti Ufo Robot Goldrake) e da Guido Guglielminetti, da anni fido bassista di Francesco De Gregori, trasuda però influenze dal grande Bob Dylan e dai nostrani Claudio Lolli e Luigi Tenco. La title track ha tuttavia il sapore della protesta degli anni sessanta sostenuta da versi polemici quali “L’Italia è il paese della memoria di una generazione che non farà storia” contrapponendosi nettamente a “Tempo Tecnico” in cui si citano Beatles, Rolling Stones, Iphone, Facebook, Kerouac e Hemingway. Del resto essere al passo coi tempi musicalmente oggi significa anche raggiungere le generazioni moderne con testi semplici ed essenziali ma mai banali quali delle due canzoni appena citate. In “Chiara che Pensi?” c’è tutto l’amore di un cantautore che appare già abbastanza maturo con il suo secondo disco ufficiale. I versi di “Metromoralità” che mi hanno colpito maggiormente sono “Touchscreen il mondo è uno schermo che se lo sfiori lo muovi ma se non ci finisci dentro oggi magari non vivi”; ritratto perfetto di una società informatica che ci ha fagocitato nel giro di appena un ventennio? Non so sinceramente se le intenzioni di Adolfo De Cecco fossero quelle da me percepite, ma sarei pronto a giurare che sia così…
“Il Tempo dell’Amore” è invece una ballad che non avrebbe sfigurato se uscita dalla penna di Neil Young o di Jackson Browne (di certo di tutte e dieci le tracce dell’album è quella che si discosta di più dallo stile italico). “L’amore Paziente” e “Canzone Semplice” ci rimembrano il già citato Francesco De Gregori mentre “Come si Coltivano i Fiori” ci fa ritornare nel giro di pochi secondi alla scuola americana. Poco meno di dieci minuti e sole due tracce, “Dietro le Nuvole” e “A Cena da Soli”, ci separano dalla fine di questo disco, che ha saputo con la sua semplicità ed eleganza stupire in ogni singola nota. Merito anche delle prestigiose presenze? (Vince Tempera, Guido Guglielminetti, Elio Rivagli, Alessandro Arianti per citare i più importanti). Io credo che forse questi grandi nomi avranno certamente avuto il loro peso nella qualità di quanto ascoltato, ma di certo Adolfo De Cecco ci ha messo tanto talento, passione ed entusiasmo.
Francesco Vannini – Dinecessitavvirtù
L’artista siciliano Francesco Vannini arriva al primo lavoro discografico con l’Ep Dinecessitavvirtù, cinque pezzi che raccontano l’arte di arrangiarsi sfruttando il poco che si possiede nella vita, insomma, racconti di vita quotidiana. La scuola cantautorale siciliana, come tutti avranno notato, vive un periodo di felicità impressionante, ormai (ma non è solo così) il musicista siciliano viene associato involontariamente al cantautore. La produzione artistica dell’Ep in questione è affidata a Fabio Rizzo dell’etichetta 800A Records, quella di Pan Del Diavolo, Black Eye Dog, VeneziA e tanti altri di cui vi lascio il piacere della scoperta. “Bomboletta Spray” apre il supporto con un ritmo incalzante e travolgente, il brano più importante per il cantautore/sociologo Francesco Vannini. Deve molto alla fragranza del pezzo, il cantato non arriva mai all’eccelso, ma i cantautori sono sempre così. “I Treni” si presenta con l’opposta emotività della precedente, in questo caso la tristezza prende il sopravvento, un ribaltamento emotivo spiazza la mia condizione di ascolto. Però ci provo gusto, in fondo le canzoni tristi sono sempre le più belle, sono quelle che ci fanno viaggiare con la mente: “I treni ormai non li conto più, e ho smesso di pensare se non mi pensi”. Tanta scuola cantautorale classica italiana nei testi, tante atmosfere tipicamente nord europee nella musica.
Arriviamo alla title track “Dinecessitavvirtù”, il cuore dell’Ep. Ancora una volta si cambia completamente registro, i riff diventano quasi caraibici, o meglio, isolani. La voce ed il testo riescono a reggere l’attenzione perfettamente, il quadro generale della canzone è più che positivo nonostante qualche piccola scopiazzata vocale ad Edoardo Bennato. Ma niente di serio, forse soltanto inutili sensazioni. Da piccolo brivido “Soltanto una Canzone”, sarà quel bellissimo pianoforte che sembra essere messo a raccogliere lacrime, un brano che scava il cuore. Antonio DiMartino dietro l’angolo guarda soddisfatto l’evoluzione della sua lezione artistica nonostante come potenza siamo ad altri livelli. Si continua sulla stessa linea con “Un Uomo Qualunque”, meno strappa lacrime ma con un armonica fantastica, la voce nella migliore performance dell’intero Ep. Si piange e si ride durante l’ascolto de Dinecessitavvirtù, Francesco Vannini dimostra di avere le carte in regola per entrare a far parte della schiera dei musicisti siciliani che contano. Con un Ep purtroppo non è possibile leggere il futuro artistico di Vannini, aspettiamo l’album ufficiale e se il buongiorno si vede dal mattino… ci aspetta una giornata di sole.
laMalareputazione – Panico
laMalareputazione, con la minuscola ché ci tengono, escono con il loro secondo disco, Panico, e ne fanno una sorta di concept un po’ oscuro su “le contraddizioni della vita, che si incastra in una routine, uno schema di gesti ripetuti quasi a diventare ossessivo compulsivi, come a voler scacciare il pericolo di un attacco di panico, dovuto proprio all’incapacità di avere tutto sotto controllo”. Lo impacchettano in un Rock Cantautorale senza troppi guizzi, riuscendo solo parzialmente a mescolare un impianto che vorrebbe apparire “colto” con un’energia neanche troppo graffiante, dal filo forse consunto, comunque troppo morbida e prevedibile per scuoterci dal torpore cantilenante che predomina (ci provano: ogni tanto appare una chitarra ruvida, una batteria meno ovvia – “Irene e il suo Cavallo” – ma l’esperimento riesce poco).
Panico suona come i Negramaro senza Giuliano Sangiorgi, o come dei Modà che però apprezzano Modigliani (il dittico “Il Talento di Modigliani” e “Parigi” è dedicato proprio all’artista) e citano Jean-Luc Godard (“Conosco il Tuo Segreto”). Questo non vuol dire che suoni male, intendiamoci: è un disco fatto con tutti i crismi, e laMalareputazione ne esce a testa alta, almeno per quanto riguarda l’aspetto dell’esecuzione e della composizione più puramente tecnico. Ma a Panico mancano le ali, manca il salto, quello vero, che ci farebbe stringere lo stomaco e appannare lo sguardo: paga lo scotto di un’eccessiva codardia (musicalmente parlando), che lo rende noioso e floscio (vedi “La Folle Corsa”, primo singolo, o “Ora che è Semplice”). Ci sono degli spunti molto interessanti (“La Parte Più Sana” ha degli attimi che forse sarebbe bello vedere sviluppati altrove: sarà che qui non fanno finta di voler fare Rock, abbracciando invece un sound più rarefatto, più lieve), ma nel complesso il secondo disco de laMalareputazione scorre abbastanza innocuo, ed è un peccato, date le indubbie capacità della band. È triste dirlo, ma di dischi del genere non abbiamo proprio bisogno.
Marrone Quando Fugge – Il PreFagiolismo
Marrone Quando Fugge è il nome d’arte di Massimo Lepre, cantautore astigiano che attraverso nove brani propone il suo disco d’esordio Il Pre-Fagiolismo uscito per la Volume! Records. Ad accompagnare il cantautore in questo viaggio c’è anche Sauro Ferraris alla chitarra, Simone Fratini al contrabbasso e Alberto Silengo alla batteria.
Tutto parte con un bellissimo pianoforte in “Miseria Stabile, Ricchezza Mobile”. Una melodia molto semplice che accompagna il dialogo diretto e rivolto al sistema, al presente, alle persone che spesso e volentieri rovesciano la medaglia, immergendosi in pensieri e valori fasulli. Ma si cambia atmosfera con la musica gitana di “Meno di Te” che attraverso il ritmo allude e racconta un’intimità guardinga e beffarda. Ed arriviamo al video ufficiale che da anche titolo all’album “Marrone Quando Fugge”, protagonista è una chitarra melodica e un’atmosfera semplice che sottolinea la necessità di abbandonare una vita morta dando importanza ai bisogni primari lasciando da parte tutto ciò che ci fa marcire, reagendo con ricchezza interiore e speranza nelle piccole cose. Si prosegue con “Cenere e Whiskey” e con la bella chitarra slide di Andrea Anania, e con “Modestino” e il mandolino che accompagna la domanda “A chi appartieni, wagliò? A chi si figlio?” immersa e profonda nella quotidianità popolare.Poi ci si tuffa in “Fango”, nella visione distruttiva dell’amore e nella sua atmosfera Soul, grazie alla voce di Sabrina Turri. Ma è solo una “Questione di Loquacità” che riecheggia le atmosfere di Paolo Conte, assieme alla facilità di buttare, pezzo dopo pezzo, il nostro pianeta in stati di assoluto degrado (”La Discarica delle Anime”). Ma l’intrigo e la fine si scoprono in “Un Principio di Alzheimer” con loop elettronico e poche note di pianoforte.
Pochi elementi ma ben usati. Melodie semplici di strumenti primari e piccole preziose aggiunte che non fanno altro che rendere quest’album ancora più profondo nei suoi significati e nelle sue atmosfere. Il Pre-Fagiolismo grazie alla sua ironia e ai suoi testi ricrea la tipica arte cantautorale italiana, della sfera dei Maestri Paolo Conte e Vinicio Capossela. Una voce, quella di Massimo Lepre, che non è solo canto ma anche e soprattutto dialogo, pensiero e stimolo verso questa generazione ad andare più a fondo, a cercare e lavorare per una vita globale migliore anche se difficile.
Teresa Mascianà – Shine
Vivere a Milano comporta il dover convivere frequentemente con vedute nebbiose e giornate uggiose, tanto da maledire parecchi santi in paradiso e desiderare di emigrare verso sud. Teresa Mascianà invece a sud ci è nata e nella sua musica questo tratto è decisamente marcato e persistente. Il suo nuovo lavoro si chiama infatti Shine e racchiude nelle nove tracce, che lo compongono, tutta la luce e solarità della giovane cantautrice calabrese. Come la sua terra brulla e aspra e al contempo paradiso dalle acque cristalline quest’album offre sul piano musicale diversi pezzi interessanti e piacevoli come l’apripista “Have a Good Time”, molto happy Rock and Roll da giornata spensierata al mare, o il brano di chiusura “Carry me on” decisamente più intimistico e intenso nei suoni e vicino a tematiche più complesse come il suicidio. Alba e tramonto tutti in un disco con mezzo di tutto un po’, dallo scioglilingua eritreo direttamente da Asmara di “Gundo Senado” alla ballata Contry Pop “Melissa Knows”, che fa il verso agli esordi della giovanissima Taylor Swift, al brio frizzante della cassa che dona leggeri tocchi elettropop a “Away”. Se musicalmente Teresa e la band, che la segue fin dai suoi esordi i Donatori d’Organo, riescono a essere convincenti creando melodie orecchiabili, vivaci e accattivanti, ricche d’influenze molteplici dal Rock californiano alle sonorità africane, passando per il pop anglosassone, la parte testuale e vocale non fanno alttrettando un buon lavoro. Le nove tracce dell’album sono per il 90% cantate in inglese, ad eccezione del brano “Non Ci Penso Più”, e se non ci fosse stato questo brano probabilmente non mi sarei mai accorta della bella voce di Teresa, che nella translazione da italiano a inglese perde molto della sua corposità per risultare meno potente, a tratti stridente e nel complesso meno emozionante. Questa modalità di canto molto moderna nel gusto si perdono molte sfumature, che nel mondo del cantuatorato spesso fanno la differenza. Comprendo che l’inglese sia metricamente e musicalmente bello, comprensibile a un vasto pubblico, ma forse non è sempre la scelta ideale. Rimanendo sull’argomento “lingua” trovo che anche i testi vengano penalizzati dall’inglese in quanto non riescono a creare forti immagini e suggestioni, ma questa potrebbe anche essere semplicemente una scelta stilistica ed espressiva che predilige la semplicità e l’essenziale. La differenza tra un cantautore e cantastorie a mio avviso sta tutto nel peso delle parole semplici o complesse che siano. Il lavoro di Teresa è fresco, vivace ricco di spunti per tutta la parte musicale, ma un po’ zoppicante sui contenuti e sulle storie che raccontate, che non creano empatia e struggono l’animo. Un disco di mezzo che convince a metà, una buona capacità di scrittura musicale che ha bisogno di essere sostenuta da un migliore songwriting.
Eternauti – Il Vuoto è Segreto
Gli Eternauti sono un giovane gruppo pugliese formato da Dario Bissanti, voce e chitarra, Giuseppe Carucci, basso, Antonio Attolini, batteria, con l’aggiunta nel 2013 di Claudio Giuseppe Fusillo, tastiere e seconda voce. Il loro percorso inizia nel 2009 quando incidono la loro prima demo casalinga assieme alla mini demo La Majorité C’est Vous del 2010, continua sui palchi della Puglia e dei più svariati festival (Controfestival, Festival Fuori dal Comune, Dirockato, Giovinazzo Rock Festival) e anche grazie al crowdfunding. Infatti in Puglia si è sentito parlare degli Eternauti proprio perché sono stati il primo gruppo ad affidare la promozione del loro disco alla piattaforma MusicRaiser, avvenuta grazie alla più tipica raccolta fondi ricambiata poi con svariati regali (una foto, un autografo ecc).
Nel 2013 finalmente esce il loro disco d’esordio Il Vuoto è Segreto, registrato e missato a Milano, con copertina e disegni di Claudio Losghi, fotografie di Nicola Boccardi e grafica interessante di Giuseppe Carucci.L’album è formato da undici brani registrati dalla band esclusivamente in analogico e al riparo dal “gelo” dei supporti digitali, il che è assolutamente apprezzabile. Naturalmente in tutto l’album si sviluppano testi che vogliono raccontare, come loro stessi dicono, riflessioni, storie personali, rapporti passati e futuri, visioni, ostacoli e omaggi come per esempio nel secondo brano “La Fotografia Dei Led Zeppelin” interessante e piacevole soprattutto nel ritmo. Ritmo che si sviluppa in quasi tutto il disco anche mediante un approccio Pop-Rock (“Senza Fine”, “Carro Armato”), Cantautorale (“Malinconica Giornata”, “Essere Meraviglioso”, “Solo tu”) e dissonante (“La Formula”, “Voglio Diventare Come Te”).
Se si ascolta più attentamente si scopre anche come un album di protesta, come già detto prima contro i supporti digitali che appiattiscono il suono facendolo diventare quasi finto o contro qualsiasi forma di oppressione (Protesta se vuoi per la libertà, nessuno lo fa è una questione di priorità). Al centro inoltre c’è il significato del vuoto in senso metafisico e sociale come loro stessi dicono “siamo circondati da tonnellate di orpelli inutili. Ma basta grattare in superficie per scoprire che dietro questi orpelli c’è solo un grande vuoto, di cui dobbiamo liberarci, rendendolo palese”. Insomma un album che si conquista la sufficienza grazie a certe idee espresse, al ritmo e a qualche brano interessante, ma che non va oltre proprio per la mancanza di particolari pregi vocali o colori strumentali. Inoltre nessun brano o parte di esso risulta emozionante in senso stretto o talmente particolare da essere catturato dalla memoria orecchiabile nei giorni successivi agli ascolti. Questo è certamente un vuoto che andrebbe colmato con lo studio, la costanza ma soprattutto la bravura e la voglia di esprimere qualcosa di emozionante e degna di essere ricordata.