L’album d’esordio dei campani Il Quarto Imprevisto è un piccolo gioiello di Pop scintillante e vellutato. È elegante, accogliente; scritto, prodotto, arrangiato ed eseguito con una competenza rara, dove nulla è lasciato al caso, tutto sta al suo posto: ogni suono, ogni variazione, ogni scarto. I suoni sono caldi ed avvolgenti, la voce di Antonio Gera sa prendersi il suo spazio senza strafare, Giovanni Feliciello si occupa delle chitarre con gusto, e tutta la band, nella sua interezza, suona compatta e sicura, senza troppi dubbi. Due i difetti che trovo: innanzitutto un eccesso di epicità, di retorica, di barocchismo, che spunta qua e là nelle direzioni prese dai brani, ma che potrebbe essere l’altra faccia della medaglia rispetto alla versatilità e alla passione, unite alla bravura indubbia che i quattro si portano dietro (vedere “Non è il Caso”); e poi, ma qui si passa al gusto soggettivo, ci sento pochi graffi, pochi morsi, e più un lento accarezzarsi, o abbracciarsi, che non spiazza e non sbilancia, ma lascia lì, come un vento leggero, una lieve corrente tiepida. Resti è un album che potrebbe essere sulla strada giusta per tentare lo sfondamento mainstream (“Pare Sia Normale” suona già come qualcosa di minore dei Negramaro), ammesso che Il Quarto Imprevisto riesca a farsi ancora un po’ più radiofonico senza perdere l’eleganza. D’altra parte, è troppo morbido e con troppa classe per le mode correnti, per l’indipendenza. Un paradosso che incuriosisce.
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Il Quarto Imprevisto – Resti
Giuseppe Righini – Houdini
Tra torbido e danzereccio, un disco capace di essere sofisticato senza perdere in fruibilità.
Continue Reading“Nero” è il nuovo video dei Plunk Extend
“Nero” è il secondo singolo dopo “Rosso” tratto da Prisma e uno dei cinque brani – ciascuno intitolato come un colore – che formano quello che, pur avendo la lunghezza di un ep, è per i Plunk Extend a tutti gli effetti un disco vero e proprio. Prisma è infatti un concept album dove i colori sono una metafora per raccontare storie dal carattere esistenziale, accomunate da un desiderio di fuga e di rifiuto della realtà così come è. I brani sono tutti contraddistinti da un suono art-rock multicolor che ha lo spirito dei Settanta ma si muove nel presente mescolando indie-rock, pop, psichedelia, hip hop, cantautorato, prog e molto altro. In concomitanza con l’uscita del nuovo video i Plunk Extend hanno iniziato un mini-tour partito lo scorso 25 marzo dal Barrio’s Cafè di Milano (dove “Nero” è stato proiettato in anteprima). Le prossime date saranno il 18 aprile al Factory Live di Cormano (MI) e il 23 maggio al Garbage Live Club di Pratola Peligna (AQ).
Arcane of Souls – Cenerè
Davanti a un disco per me nuovo ho la (cattiva?) abitudine di regalarmi un primo ascolto digiuna di ogni contorno. Così metto su Cenerè di Arcane of Souls conoscendone nient’altro che il nome, convinta che un moniker così non possa che celare un progetto dal substrato Metal. E invece schiaccio play e “L’Oro in Bocca” inaugura il disco col più classico dei Rock’n’Roll. L’ingannevole pseudonimo nient’altro è che l’anagramma di Alfonso Surace, cantautore che ha fatto della necessità di autoprodursi un marchio di fabbrica. Caso piuttosto comune nel mondo della musica indipendente nostrana (fervente sì, ma che praticamente mai consente ai propri abitanti di vivere della propria arte), Surace realizza anche questo secondo lavoro, dopo Vivo e Vegeto del 2012, nei ritagli di tempo che riesce a rubare alla sua esistenza diurna e con l’aiuto delle persone che ne fanno parte. Ne vengono fuori cose come il video del primo singolo estratto, “Gennaro”, che ironico e casereccio fa il verso al celebre domino del clip che accompagna “This Too Shall Pass” degli Ok Go. “Gennaro” presenta un album con cui condivide solo alcuni aspetti. La voce di Surace si diverte a suonare roca e gridata, da bluesman che si rispetti, e in molti frangenti giunge l’eco di personaggi singolari del cantautorato italico del passato: complice la somiglianza anche nel timbro vocale, alcuni tra i brani di Cenerè starebbero bene in bocca a Rino Gaetano, ed anche nelle corde scanzonate di Freak Antoni. Gli episodi più convincenti sono però quelli fatti di contaminazioni delicate, piuttosto che i brani schiettamente Blues Rock: “Maggio” coinvolge con un rincorrersi di violino e percussioni dal sapore etnico, “Respirare” spezza la monotonia delle linee vocali sostenute col suo sussurrato Psych Folk, “Settembre” ammicca al Math Rock, “Opera” è la ballad docile che si fa attendere fino alla fine del disco. Tanta varietà, pur essendo in linea con la spontaneità su cui tutto il progetto è costruito, penalizza un po’ il risultato finale, ricco di spunti interessanti negli arrangiamenti ma che vive di una immediatezza che quasi mai si cura di approfondire. L’impulsività giova invece alle liriche, che giungono schiette e piacevoli raccontando del quotidiano di un personaggio a cui ci si affeziona con facilità. Concedetegli più di un ascolto.
Albedo – Metropolis
L’ultima fatica degli Albedo è un ancora una volta un concept album, anche se in senso meno stretto rispetto al poetico viaggio nel corpo umano che fu Lezioni di Anatomia un paio di anni fa. Gli spunti che trae dal capolavoro di Fritz Lang da cui mutua il nome confluiscono nelle atmosfere e nelle liriche, tracciando un filo conduttore mai troppo vincolante, che rende l’album un lavoro organico ma che lascia spazio a molti temi: la città e le sue contraddizioni, l’incomunicabilità di realtà sociali che coesistono senza toccarsi, ma anche la religione, i confronti generazionali, i meccanismi con cui si innesca l’odio. Sembra un po’ che le dieci tracce di Metropolis si prendano l’onere di andare a verificare le inquietanti previsioni di una quella che fu una pellicola estremamente lungimirante. Metropolis non è immediato come il suo fortunato predecessore perchè è meno irruente: la tracklist è intervallata da incisi di pochi minuti che conferiscono un ritmo un po’ inusuale all’ascolto, per poi srotolare gli episodi più catchy alla fine, senza mai ricorrere ad escamotage sfacciatamente Pop. Se Lezioni di Anatomia ha il pregio di colpire al primo ascolto, in compenso Metropolis merita tutti gli ascolti che necessita. Il sound poggia su un valido Alt Rock che si concede ispirazioni Post Punk (“Partenze”) e New Wave (“Replicante”) e costruisce un mood inquieto e viscoso fatto di giri di chitarra ben assestati, che spingono sulle parole scelte con cura. Il songwriting è tagliente sia nelle citazioni più testuali, come in “La Profezia”, meno di due minuti di piano e riverberi per dipingere le vuote esistenze dei privilegiati in cima ai grattacieli della città di Metropolis, che nelle derive più introspettive (“I Miei Nemici”, “Sei Inverni”) e nei quesiti spiazzanti di un dialogo in prima persona con Dio (il singolo “Higgs”). A starlo a sentire, il Rock degli Albedo non sembra affatto volersi attardare su strade già percorse, e con radici sonore ben piantate si dimostra capace di trovare ogni volta il modo giusto per raccontare una nuova fase. Buon per tutti, compresi noi.
Umberto Maria Giardini – Protestantesima
Una tigre che domina un teschio ed un plenilunio sullo sfondo che racchiude tutta la scena: è con questa immagine suggestiva (nata dal progetto grafico di Pasquale de Sensi) che si presenta nel suo involucro esterno Protestantesima, l’ultimo lavoro di Umberto Maria Giardini. L’artista marchigiano, dopo La Dieta dell’Imperatrice e l’EP Ognuno di Noi È un po’ Anticristo persiste con la sua azione di “Riforma” in ambito musicale, presentando per l’ennesima volta un lavoro complesso e curato nei dettagli. Protestantesima è un nome imponente, di genere femminile, perché femminile è l’anima che vive al suo interno, fatta di sonorità rotonde, fluide, melodiche spesso in contrasto con chitarre distorte e sezioni ritmiche incisive: mare e terra che coesistono, si alternano, si scontrano. Una maggiore presenza delle percussioni caratterizza l’album conferendogli un cuore vivo e pulsante. Lo mette in chiaro già la prima traccia omonima, “Protestantesima”, e lo evidenziano maggiormente brani come “Urania”, dove chitarre e batteria quasi scandiscono il ritmo di una marcia, “Amare Male”, che a tratti riduce al limite i suoni con la sola presenza di voce e percussioni, e ancora “C’è Chi Ottiene e Chi Pretende”, introdotta da colpi di tamburo che faranno da sfondo all’intero brano. Suoni che richiamano le vibrazioni della terra, sui quali si adagiano sonorità più acquose, come in “Molteplici Riflessi”, dove le linee melodiche dettate dalle chitarre e dalla voce melliflua di Giardini si allungano, vanno via e poi ritornano come fa un’onda. Ci sono pezzi poi, come “Sibilla” e “Seconda Madre”, che sono maree; si dilatano in lunghi assoli di chitarra si arricchiscono di suoni elettronici o note di pianoforte che affondano in secondo piano il ritmo dettato dalle percussioni. Una coesistenza di suoni forti ed eterei, tenuti insieme dalle linee melodiche della voce sulla quale vengono cucite liriche articolate, ma che talvolta non usano eufemismi per descrivere la realtà (…a Milano il denaro serve sempre a tutto perché piace la cocaina… – “Il Vaso di Pandora”). Un disco che va ascoltato più volte prima di poterne percepire tutte le contraddizioni, note generatrici di bellezza.
Colapesce – Egomostro
Sono trascorsi tre anni dall’ultimo disco ufficiale di Colapesce, tre anni durante i quali il cantautore siciliano ha raccolto pezzi di “mostri” in giro per l’Italia, tre anni per dare vita al nuovo Egomostro. Un disco diverso dalle precedenti produzioni sotto ogni punto di vista, Colapesce appare più maturo e in un certo senso abbastanza “sperimentale”, il sound profuma di anni ottanta, Lucio Battisti che lascia la sicurezza Mogol per sperimentare liberamente. Con il precedente Un Meraviglioso Declino avevamo conosciuto un artista molto legato alla leva cantautorale degli anni zero, apprezzabile e godibile, niente però riusciva a tirarlo fuori dalla mischia con spiccate autorevolezze compositive. Le cose cambiano inevitabilmente, sia nel bene che nel male. Egomostro rappresenta la maturità artistica di Colapesce, un disco certamente poco diretto ma capace di entrarti dentro pian pianino per restarci prepotentemente. Ad un certo punto della vita senti il bisogno impellente di approfondire le cose, di capirne il senso, non per sembrare presuntuoso, soltanto per viverle a pieno. Egomostro racchiude la consapevolezza della maturità che non si ferma davanti alla facciata, Colapesce decide di entrare nel vecchio palazzo per ammirarne tutte le stanze, per respirare quell’aria di chiuso che a molti darebbe fastidio. Dopo l’intro, il disco dimostra subito di essere elettronicamente diverso, quasi Punk, con “Dopo il Diluvio”. Roba fresca, diversamente attraente. Le mie papille percepiscono dell’agrodolce in “Reale”, la ritmica incalzante mette allegria ma l’aria non è delle migliori per sentirsi felici, la tristezza in un certo senso rende riflessivi. Lo stomaco si chiude, la bellezza incontrastata di “Sottocoperta”, la canzone italiana che offre grandi sensazioni, quelle capaci di farti accapponare la pelle, quando pensi che non avresti chiesto di ascoltare di meglio. Colonna sonora da dedicarsi nei momenti più intimi, ad ora il miglior pezzo dell’album almeno per emozioni trasmesse. “Egomostro” torna a portare sperimentazione fine anni settanta, non mi esalto troppo ma ne apprezzo le potenzialità, Colapesce ha deciso di spostare tutte le sonorità del disco su quella strada, sarà la sua personale passione nei confronti di Battiato. Ascolto il mare, penso al vento che taglia la faccia, penso alla dolcezza di una carezza, “L’Altra Guancia” scioglie ogni riserva emotiva alla quale ancora mi ero attaccato. “Maledetti Italiani”, rappresenta tutto il brutto della nostra società, una protesta a cui ultimamente siamo abituati, a cui non facciamo neanche più caso, della quale tutti ci sentiamo vittima senza reagire, inerti. Di Egomostro riesco ad apprezzare quasi tutto, la non convenzionalità dei brani mi rende fiducioso sul futuro della musica italiana, Colapesce si mette in gioco pesantemente e vince. Il disco è indubbiamente di duro impatto, fermarsi al primo ascolto significa non capirne la volontà, significa avere un approccio mediocre e superficiale verso l’arte. Colapesce è tornato in grande stile registrando un disco considerevole, questa volta riesce a togliersi l’etichetta di piccolo cantautore diventando grande, dimostra di saper comporre musica diversa e scrivere testi calibrati. Egomostro sono riuscito a renderlo mio, a farlo aderire alla mia personalità, a capire tutto quello che voleva trasmettere. Egomostro è un grande lavoro, avevamo tutti bisogno di un Colapesce in queste condizioni compositive, ormai non posso più farne a meno.
Andrea Arnoldi E Il Peso Del Corpo – Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate
È, pare, un disco sulla morte, questo Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate dello stralunato Andrea Arnoldi, accompagnato da tutta una serie di musicisti che va sotto il nome de Il Peso Del Corpo. Ma questo suo status di concept escatologico potrebbe sviare l’attenzione, potrebbe confondere e dare un’idea sbagliata: Le Cose Vanno Usate ecc. è un disco di cantautorato leggero (e non per questo senz’anima, anzi), canzoni d’arpeggi lievi di chitarra acustica affondate in atmosfere cangianti fatte di strumenti vari e curiosi, archi, theremin, organetti, fiati, sitar, campane. Una scrittura che sa essere impalpabile e piena di grazia, disposta a farsi indietro per dare spazio agli arrangiamenti, vero gioiello di questo disco che si espande e si gonfia in code e introduzioni oniriche, celesti, su armonie comode ma prendendo strade anche poco battute nel folto selvatico di volumi contenuti e rigoglio sonoro, ricco di timbriche originali e sognanti. La scrittura di Andrea Arnoldi è sommessa e gentile, si muove per scarti sottili, evanescenti (“tu risplendi come i melograni / e hai rami al posto delle mani / io sono vuoto come un cruciverba / e sulla testa mi cresce l’erba”, da “Àncora”; “E quanti anni abbiamo adesso / e dove siamo? / Ne avete quasi mille / e siete biologia”, da “L’Ortica”; “e per ringiovanire recatevi in un campo / scavatevi una fossa, sdraiatevici dentro / davvero è poca cosa ma del vostro triste corpo / si nutrirà una rosa / e questo, che io sappia / è il solo scudo contro l’aldilà”, da “Ringiovanimento”). Una poetica delle leggerezza, del peso nascosto e alleggerito, sussurrato, in equilibrio. Unica pecca la voce, poco incisiva, con un timbro che a volte stride, ma che, bisogna riconoscerlo, è stata adattata il più possibile al mood etereo del disco. È un disco da scoprire e riscoprire, sperando che non passi senza lasciare traccia, sperando che rimanga nell’aria il tempo di farlo penetrare nelle orecchie e nella testa come l’acqua che filtra nella terra o come la luce che ci bagna le retine sotto le palpebre chiuse in un giorno di sole. “Non voglio perdere la meraviglia / di amar qualcosa che non mi somiglia”.
Fabi Silvestri Gazzè – Il Padrone della Festa
Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè insieme per un album corale, in parte scritto a sei mani e in parte fatto di apporti personali dei tre cantautori della scuola romana. Apprendo la notizia sul web ad aprile dello scorso anno, a ridosso dell’uscita del primo singolo estratto, “Life is Sweet”. Un banner pubblicitario lampeggia sulla pagina web, sono mio malgrado alla ricerca di una macchina nuova e non c’è modo di sfuggire agli algoritmi della rete, e accanto all’articolo l’ironia della sorte ha appiccicato un annuncio che recita “usato garantito”. Sono in molti a dire che l’arrivo di un lavoro corale fosse prevedibile e alcuni lo auspicavano da tempo. A metà settembre, la release ufficiale de Il Padrone della Festa. È inequivocabile sin dal primissimo ascolto che il succitato padrone qui è Fabi. Tra le dodici tracce individuo i brani di Max Gazzè con un pizzico di fatica in più di quella che avevo preventivato. Il suo sound ironico fa capolino solo in “Arsenico”, giustapposizione di fiati e liriche sottili, dopo tre brani sufficienti a sancire il ruolo di deus ex machina di Niccolò. Non si discute l’eccelsa fattura del prodotto finale. Esecuzione raffinata e cura puntuale nelle registrazioni sono garantite da un esercito scelto di musicisti, tra cui Roberto Angelini e Adriano Viterbini solo per citarne un paio, oltre che ovviamente dall’esperienza dei tre generali. Ciò nonostante resto perplessa sulle dichiarazioni del trio sulla natura ludica e spontanea dell’esperimento. Il Padrone della Festa ha piuttosto l’aspetto di un’esca da lanciare nei palasport, non di un divertente e sperimentale mescolarsi. Eppure in passato li avevamo visti collaborare fruttuosamente (indimenticabile “Vento d’Estate” di Fabi e Gazzè, raro caso di pop contagioso e al contempo raffinato) o guidarsi vicendevolmente l’uno nelle fatiche dell’altro senza contaminarne la natura. Li ritroviamo ora miscelati in un modo che finisce per appiattire le peculiarità di ognuno, quei dettagli che pur gravitando nello stesso circuito li avevano sempre piacevolmente contraddistinti. Inevitabile è perciò che questo “usato garantito” che i tre propongono oggi suoni meno potente se paragonato agli episodi del passato di ognuno dei tre. Sì, insomma, sono un po’ incazzata, perché penso che con qualche sforzo in più e qualche sold out in meno ora io avrei tre ottimi dischi da ascoltare mentre invece me ne ritrovo uno soltanto con cui devo anche in qualche modo tentare di far pace, ed anche che dopo il successo del tour in Italia e in Europa la situazione appaia ormai consolidata e dovrò probabilmente accontentarmi di metter su “Lo Spigolo Tondo” quando avrò voglia della vocazione gitana di Silvestri, di “Canzone di Anna” come condensato degli arrangiamenti orchestrali di cui Fabi è capace, e accenderò un cero a “Il Dio delle Piccole Cose” pregandolo di concedermi a breve un Max nella sua forma migliore, tutto intero.
Emiliano Mazzoni – Cosa Ti Sciupa
Un bel mood quello creato da Emiliano Mazzoni nel suo ultimo Cosa Ti Sciupa, domanda senza punto interrogativo che è rovello interiore sulla scomparsa della bellezza (della “splendenza”, come dice lui). È un mood di pianoforti, fisarmoniche, elettriche distanti, batterie, una voce sghemba che tortura accenti e metriche però poi sa appoggiarsi ad immagini (anzi, visioni) di allucinata potenza (“Ci spogliammo come due trionfi sull’altopiano”, da “Ma Perché Te Ne Vai”) mentre si raccontano storie d’amore carnale e spirituale, abbandoni, viaggi, panorami antropomorfi. È un mood raccolto, che più è raccolto e più funziona: “Un’Altra Fuga” con la sua corta coda strumentale che è già da sé un racconto, o “Ragazza Aria”, fatta di scambi di chitarre ventose e pianoforti gocciolanti, che poi entra un’armonica e tutto sta dove deve stare. Le batterie più dritte (la marcetta di “Canzone di Bellezza”), le filastrocche scanzonate (“Hey Boy”), le atmosfere più sixties (“Nell’Aria C’Era Un Forte Odore”) spezzano qui e là la concentrazione, ma non è detto che sia un male. Anzi. Emiliano Mazzoni è un cantastorie da pianoforte, con le mani sui tasti bianchi e neri e i piedi scalzi nell’erba della montagna (o così almeno lo immagino io); è notturno e selvatico, c’è del vento e ci sono ombre di alberi dentro le sue canzoni, ci sono pelle e terra (che poi sono la stessa cosa) e qualche, intensa, mancanza. Si stacca con leggiadria dalla sfilza di cantautori col chitarrino da quattro accordi per volare nella luce netta di un tramonto boscoso dal peregrinare meno ovvio, e meno male.
L’Officina della Camomilla – Senontipiacefalostesso Due
La band-giocattolo brainchild di Francesco De Leo torna ad un anno di distanza dall’esordio con il seguito, Senontipiacefalostesso Due, titolo esplicitamente strafottente e che già dà l’idea di quell’arroganza bambinesca e sognante che sorregge tutto l’immaginario de L’Officina della Camomilla. Più che il seguito del primo disco, comunque, Senontipiacefalostesso Due è considerabile come una sua seconda parte, e ne prosegue il discorso in modo omogeneo (è cosa nota che il repertorio de L’Officina sia pressoché infinito, e che lo sia stato già da prima dell’uscita su Garrincha). Abbiamo anche qui due direttrici che fanno da scheletro ai quindici brani del disco: un cantautorato giocattolo, naif, fatto di chitarre acustiche, arpeggi, pianoforti che gocciolano, archi malinconici, tastiere e synth; e un Post-punk indie dalle chitarrine acide e la batteria pestata, distorsioni spuntate da forbici arrotondate. Personalmente riesco a farmi convincere più dal primo dei due mood (“Piccola Sole Triste”, “E Londra e Londra”, “Gentilissimo Oh”, “Bucascuola”) che dal secondo, che mi sembra un po’ più paraculo, come se fosse un vezzo più superficiale (anche se, ogni tanto… per esempio, “Rivoltella”). In ogni caso, l’asso nella manica del quintetto è la voce di De Leo, e quando scrivo “voce” non intendo solo il timbro vocale e lo stile canoro, ma tutto il punto di vista, ingenuo e tagliente, meravigliato e cinico, spensierato e lunare, malinconico e ironico assieme. È su questo fulcro che gira tutta la band, e se non sapete farvi trascinare dai flussi di in-coscienza di questo “bambino stronzo” allora per voi ascoltare L’Officina della Camomilla sarà piuttosto una tortura che uno strano, vergognoso piacere. Che possa convincere o meno, De Leo si è creato un mondo, fatto di nazipunk e kebabbari, campi a grancassa, gente col labbro spaccato e meringhe e lexotan, biciclette e squatter, licei che sembrano fabbriche, muri che sbavano… uno stile inconfondibile, che per forza di cose divide in estimatori e bestemmiatori. Io, mio malgrado, mi trovo nel primo gruppo, ma sarò capace di lasciarmi andare senza sensi di colpa solo quando riusciranno a perdere la strafottenza indie sopra le righe, ché sembra sempre che debbano strafare per convincerci a schiaffi (“Biciclettapirata”, “Ho Visto un Nazipunk sul Tram”), quando potrebbero tranquillamente sussurrare storie nella penombra e farci innamorare perdutamente (“quella giovane donna appartiene a nessuno, e a nessun altro”). Spero, ardentemente, nel loro invecchiare.
La Madonna di Mezzastrada – Lebenswelt
Lebenswelt, ovvero “Le vite degli altri”. Non è dato sapere se La Madonna di Mezzastrada, singolare nome di questa band di perugini di adozione e di fortuna, avessero in mente proprio la pellicola di Henckel von Donnersmarck. Fatto sta che il loro Post Rock venato di archi non si abbinerebbe affatto male alle torbide atmosfere del film in questione. Questo secondo lavoro segna un netto cambio di stile. Tra Lebenswelt e il precedente Cantiche ci sono una radicale revisione della line-up, un brano incluso nella compilation de La Fame Dischi (“Tunisia”) e nuovi apporti in fase di registrazione, tra cui Daniele Rotella di The Rust and the Fury. Se è vero che le sonorità scelte per questo secondo lavoro rievocano certo Rock italico recente e non, dai Marlene Kuntz a Le Luci della Centrale Elettrica, è vero anche che le liriche hanno tutt’altro intento. Su arrangiamenti puliti, al riparo dal rischio di suonare consueti perché impreziositi da incursioni di piano e ukulele, scivola un cantato-parlato volutamente monocorde e disturbante: un cantautorato che si prende la briga di andare a recuperare la componente sociale, che lascia poco spazio all’autoreferenziale e all’astratto ed estende lo sguardo al di là delle periferie padane di Vasco Brondi (che, diciamocela tutta, ci hanno anche un po’ scassato). “I piccoli drammi borghesi non mi interessano” è quanto dichiarano senza mezzi termini in “Piccoli Drammi”, sintesi estrema di una poetica fatta di frustrazioni giovanili contemporanee e concrete, confronti generazionali, immigrazione e quotidiana convivenza delle diversità. Dal Punk degli esordi a Lebenswelt, il salto non è solo quello che passa da un universo sonoro ad un altro, ma è anche un salto di qualità che lascia ben sperare che La Madonna di Mezzastrada abbia imboccato la direzione giusta.