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MOOSTROO – MOOSTROO

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I MOOSTROO sono senz’altro una scoperta interessante. Non certo al primo ascolto, questo no: non colpiscono immediatamente, ma fatti passare da un labirinto d’assimilazione, un intestino d’attenzione, per così dire, ecco allora che vengono digeriti e la luce che li colpisce forma l’ombra che andremo a leggere. I MOOSTROO sono in tre, sono di Bergamo e suonano strani, dagli strumenti (“silent-guitar classica distorta, alternanza con basso a due corde”…) al timbro della voce, che già nel suono è sussurro provinciale, discorso ironico da bar con avventori più accorti di quanto possa sembrare. Il disco scorre tra ballate di una canzone d’autore (“Valzerino di Provincia”) che non ha paura di sporcarsi, di rotolarsi nel fango (In sterco veritas! è il loro motto), fino ad arrivare a piacevoli commistioni di Rock e Folk (“LPS”, con quel bellissimo riff, quel sapore alla CSI…), o a costruzioni ritmiche che strizzano l’occhio a panorami più contemporanei (“Silvano Pistola”).

Sono sporchi, questi mostri; brutti, sporchi e cattivi; ma sono il nostro specchio, che ci fa le smorfie e ride della sua ironia e della nostra incomprensione. I MOOSTROO si nascondono, si coprono di fango e feci per dissimulare il loro acume pungente, il loro ghigno beffardo. Sono irriverenti, ma sensibili, di una durezza smussata, di una semplicità che è camuffamento. Sono come dovrebbero essere gli Zen Circus. Certo, possono non piacere, soprattutto ad un certo pubblico che dal cantautorato vorrebbe l’elevazione e poco sopporta il rivoltarsi tra le frattaglie (ahimè, io stesso storco il naso su un brano come “Il Prezzo del Maiale”). C’è da capire che però ogni tentativo “altro” è meglio che la ripetizione di schemi già abusati. Quindi ben vengano i MOOSTROO e la loro finta sporcizia, che possano perlomeno insegnarci che i punti d’incontro tra la ruvidezza del Rock e l’eloquenza della canzone d’autore sono, davvero, infiniti.

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3 Fingers Guitar – Rinuncia all’Eredità

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C’è coraggio, indubbiamente, nell’animo DIY, scarno, tagliente e infuocato di Simone Perna, testa e mani del progetto 3 Fingers Guitar (accompagnato, in quest’avventura, dalla sola batteria di Simone Brunzu). C’è coraggio, follia, un’inclinazione incosciente alla spettacolarizzazione in Rinuncia All’Eredità, una sorta di concept sul retaggio di un padre nei confronti del figlio, che contiene le prime canzoni in italiano del progetto.  La musica, pensata ed eseguita quasi totalmente dal titolare, è scarna, fumosa, tribale. Chitarre violente, ritmiche ripetitive e ossessionanti, noise e polvere, intimità rarefatta, poi presa ad unghiate, come fosse troppo stretta, come non bastasse cantare, ma ci fosse bisogno di lacerarsi i vestiti, di graffiare le pareti che si chiudono intorno. L’atmosfera (il gioco) sta sull’equilibrio tra le involuzioni senza capo né coda e gli ambienti più fermi, per cui più convincenti – e più ovvi. Il pugno di “Ingresso” scuote, mentre il corpo di “Riproduzione” incanta e ondeggia. L’arpeggio della title track ci riporta all’improvviso in una zona franca, un’isola che sta da qualche parte al di là dell’oceano, in un crescendo avvolgente, che prosegue idealmente in “Fuga”, ancora più a ovest. Sale il Blues nell’intro de “L’Unica Via”, trasformandosi poi in un Post Blues iridescente e ipnotico.  La chiusura (“Fine”) è adamantina e catartica.

Croce e delizia del disco è la voce, sporca, imperfetta, fastidiosa a volte. Un timbro e un tono che possono alternativamente aggiungere profondità o creare punte di doloroso imbarazzo. Il disco è interessante, inserito com’è in un discorso di cantautorato “altro” che vuole staccarsi dalla noia dei quattro accordi con la chitarra e inventarsi un mondo (cosa peraltro non lontanissima – nell’idea – da certe evoluzioni recenti di un Vasco Brondi). Fosse amico mio, Simone Perna, gli consiglierei – da amico – di lavorare sulla pasta vocale, certamente senza snaturare il senso del suo cantare, ma levigando alcuni estremi che possono risultare spigolosi. Per il resto, la strada presa sembra gratificare ampiamente lo sforzo d’intraprenderla. Ma io Simone Perna non lo conosco, e dunque mi limito a riconoscerne i meriti, senza aggiungere altro.

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Colpi Repentini – Arriva Lo Zar

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Sei belle canzonette di Pop d’autore per spazzare via la banalità. Tanta intelligenza, sia nelle liriche che negli interessantissimi intrecci musicali, in questo EP dei milanesi Colpi Repentini. La band è di giovane formazione ma questo Arriva Lo Zar definisce bene la rotta del quintetto. “Brucio la Città” è l’inizio festaiolo e funkettone con un ritornello aperto ed epico che non dista molto dalle melodie di Cesare Cremonini. Un pizzico di teatralità e un suono un po’ chic, che pare certamente più ironico che snob. Gli ingredienti sono innumerevoli e lo dimostra anche la title track “Arriva lo Zar”, testo senza troppo criterio e suono retrò dove il piano domina la cavalcata fino all’arrivo dell’inatteso chitarrone (troppo?) distorto. In ogni caso il mix è vincente e le canzoni sono storie nonsense ma divertenti, con quella patina che le rende chic e terribilmente “milanesi”. Anche quando i ritmi calano in “Non ti ho Persa Mai” il pacchetto rimane compatto e anzi guadagna in intensità.

Senza contorcersi in complicazioni i Colpi Repentini si destreggiano bene tra l’essere piacioni e ricercati. Una sezione ritmica mai scontata e la grande espressività nella voce di Alessio Piano, che spesso sembra al servizio della musica più che delle parole, fondendosi bene con gli altri strumenti. Un ottimo collante. “Il Diavolo (da Lui si Presentò)” è una danza scura, un po’ Fred Buscaglione e un po’ Tom Waits con un finale quasi Hard Rock. Una sana dose alcolica per sciogliere gambe e cervello. “Un’Ottima Giornata” chiude l’EP. Spensierata e rilassata (a parte il video tremendo che la accompagna), la canzone rimane un buon singolo per farsi conoscere sebbene non risalti in pieno le potenzialità e il sapore variegato della band, meglio espresso in tutto il resto del prodotto. Niente per cui gridare al fenomeno. Ma questa band è un ottimo esempio di come la musica italiana possa essere colta e presentare innumerevoli sfaccettature. Senza dimenticarsi di essere semplice e bella.

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Maria Antonietta – Sassi

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Si affida a un sound più ruvido, ma ora è felice e monogama – ed ha anche imparato a non dire parolacce.
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Le Luci della Centrale Elettrica – Costellazioni

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È difficile scrivere una recensione di questo disco. Forse perché non stiamo parlando davvero di UN disco, ma di dischi, al plurale. E poi stiamo parlando di Vasco Brondi, che, volenti o nolenti, è stato considerato una voce di punta della fantomatica leva cantautorale degli anni zero. Da questo disco (il terzo) ci si aspetta qualcosa, fosse anche il proseguimento della continuità che c’era tra i primi due, ma più realisticamente si spera in un’evoluzione, un passo avanti nel percorso artistico de Le Luci della Centrale Elettrica. E quindi? Andiamo con ordine. Prima di tutto va detto che il disco è un disco denso. Non è un disco facile da esplorare. Alcuni episodi sono magari più accessibili del solito, ma si ha bisogno di tempo per entrare in tutti i dettagli, e anche scrivendo questa recensione continuo a scoprire cose e a rendermi conto di particolari prima inosservati. Questo fatto è strettamente collegato a ciò che accennavo più sopra: I dischi, non IL disco. Costellazioni (così ammette lo stesso Vasco) ha avuto una genesi travagliata, prima scritto e arrangiato “al computer” con Federico Dragogna dei Ministri, poi registrato in studio con una pletora di (peraltro ottimi) musicisti, ottenendo in pratica due dischi distinti, che in seguito sono stati “fusi” per creare questo prodotto ibrido, che Vasco sente suonare come “canzoni dalla pianura padana lanciate verso la galassia, storie piccole ma che si vedono anche dalla luna”. È un disco in cui convivono tante anime diverse, dove Vasco si è divertito a inseguire i tanti suoi gusti e punti di riferimento (CCCP e Battiato su tutti), dove ha sperimentato cose mai tentate prima (testi narrativi, più focalizzati; il cantato, che prima era esclusivamente parlato o urlato, diventa in alcuni casi più melodico; la chitarra viene spesso relegata in secondo piano, e sostituita con pianoforti, beat elettronici, oceani di synth, archi, fiati). Abbiamo quindi “I Sonic Youth”, una dolce ballata per pianoforte, elettronica e voce, ma anche “Firmamento”, elettrica e aggressiva, dove Vasco riprende “lateralmente” i generi che suonava nella sua adolescenza; c’è “Le Ragazze Stanno Bene”, scritta con Giorgio Canali, più classica, con voce e chitarra acustica a giostrare il marasma, ma anche “Ti Vendi Bene”, che è in pratica un pezzo sfigato dei CCCP (ma non per colpa di Vasco, sono i CCCP che sono inarrivabili).

Insomma, Costellazioni è un pastiche, è caos, è confusionario e sfilacciato, però è anche un disco coraggioso, perché darà nuovo materiale critico ai detrattori, scontentando al contempo quella fetta di seguaci affezionata allo stile sempre identico che Le Luci della Centrale Elettrica aveva reso quasi materiale di barzellette o di generatori automatici di canzoni di Vasco Brondi. In questo io ci vedo coraggio, perché Vasco ha saputo inseguire alcune ispirazioni che lo tentavano, lasciando i lidi comodi e sicuri della sua solita solfa, sperimentando, incastrandosi, cucendo, scucendo e ricucendo i brani. In alcuni casi questo coraggio ha pagato (il primo singolo, “I Destini Generali”, è luminoso e leggero, cosa che non gli era mai riuscita bene in passato, e rappresenta bene il filone di speranza, di “musica sotto le bombe” che attraverso il disco come una lama di luce nel buio; in “Un Bar Sulla Via Lattea” e in “La Terra, l’Emilia, la Luna” è riuscito a rendere bene l’idea di musica rurale e spaziale” tra la provincia, a cui tiene tantissimo, lui emiliano di Ferrara, e le stelle), in altri casi rischia molto di più di spiazzare l’ascoltatore (“Padre Nostro dei Satelliti”, “40 Km”, “Macbeth Nella Nebbia”, per alcuni versi “Uno Scontro Tranquillo”) e di sembrare perso, smarrito nel disorientamento causato da un overload di informazioni, idee, spunti. Il disco, insomma, è un mezzo fallimento, ma al contempo una mezza vittoria: porta Le Luci della Centrale Elettrica fuori dal pantano, verso le stelle. È vero, lo fa spesso con ingenuità e con poca chiarezza del percorso da fare, ma mi sento di dire che ascoltando Vasco parlare durante la presentazione del disco ho percepito che questo, lui, lo sa. Sa che il disco è il risultato di tentativi, di prove, di colpi di reni disperati e molto, molto necessari. E sa (e lo ammette) che il futuro sarà scegliere, tra le numerose vie che questo album-crocicchio ha aperto, quella che saprà convincerlo di più, e prenderla e percorrerla fino in fondo.

Per finire, due considerazioni: la prima è che non scherzavo quando dicevo che il disco è un mezzo fallimento, ma anche una mezza vittoria. Sono I dischi, ricordate? Quindi il mio consiglio per l’ascolto è di approcciare Costellazioni col cuore aperto, e di saper riconoscere quali canzoni riescono a parlarvi, e quali no. C’è per forza qualcosa per voi, lì dentro. Io, per esempio, sono stranamente stregato da “Blues del Delta del Po”, da “Uno Scontro Tranquillo”, da “Le Ragazze Stanno Bene”… insomma, io mi sono creato una sorta di Costellazioni privato, che mi parla in prima persona, lasciando fuori ciò che non mi arriva. In questo senso, l’avere perso focus in favore della varietà e della sperimentazione anche “strana” è stata una mossa vincente. Pezzi così, nel bene e nel male, difficilmente li incontrerete altrove. La seconda considerazione è su Vasco Brondi. In questo disco è chiaro come non mai che definirlo cantautore, se non un errore, è quantomeno un understatement. Vasco fa Punk, fa Rock, ha nelle orecchie gli anni 80, l’elettronica, i sintetizzatori, le distorsioni. Le Luci della Centrale Elettrica può diventare, ancora di più, un progetto trasversale, aperto, capace di tutto. Questo disco è un azzardo, è, se vogliamo, uno sbaglio, ma è dagli sbagli che nascono le emozioni vere. E quindi ascolto questo delirio di disco immaginandomelo con la metà delle canzoni e con una concentrazione più affinata, e so (e spero) di stare ascoltando il prossimo disco, Le Luci della Centrale Elettrica di domani, ed è un bel sperare.

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Sun Kil Moon – Benji

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Sesto lavoro di Mark Kozelek con il moniker Sun Kil Moon. Lo Slowcore dei suoi storici Red House Painters è lontano anni luce. Il prolifico Kozelek ama sperimentare – ben tre progetti nel 2013, nati da interessanti sodalizi e usciti per la sua etichetta, Caldo Verde Records – ma sembra sfoderare il moniker solo quando sceglie di tornare al Cantautorato incontaminato. Lasciate stare, non riuscirete a godere di Benji se lo scegliete come sottofondo ad una qualsiasi altra attività. Vi è concesso l’ascolto in macchina, ma senza meta. D’altronde trovo profondamente ingiusto non dedicare ad un cantatore il tempo necessario. Un’altra cosa ingiusta sarebbe tacere il fatto che in Benji muoiono tutti. Senza giri di parole. Che la morte fosse ricorrente motivo di riflessione per Kozelek era chiaro da tempo, ma non sono più i pugili adolescenti di Ghosts of the Great Highway a turbarlo. Molte delle scomparse premature di cui parla sono quelle di persone a lui vicine, e ce lo dice tutto d’un fiato. Mark è un cantastorie dei nostri tempi. Brani densi e lunghissimi, prosa schietta che si srotola urgente quasi senza alcuna attenzione a metrica e ritmo. Kozelek è sconvolgentemente diretto nel suo intimo rimuginare sull’assurdità della scomparsa di chi se ne va troppo presto. Le numerose collaborazioni (tra cui l’ex batterista dei Sonic Youth, Steve Shelley) passano forse un po’  inosservate.Il testo è tutto e non si affida ad alcuna metafora, le melodie ridotte all’acustico minimo sindacale, senza tregue strumentali.

Se ne esce spiazzati. Resto ancora un po’ in attesa di un tocco di Folk Rock – “Carry me, Ohio”, please – che però non arriva. Me ne faccio una ragione e vado avanti. Con “I Love my Dad”, fresca e Country e coi cori mutuati al Gospel, ho la sensazione che sia finalmente giunta una boccata d’aria dopo la tensione emotiva dei trenta minuti appena trascorsi. Salvo poi scoprire che il testo è uno dei più struggenti. Per dirne una, immaginate Mark bambino che torna a casa in lacrime per essere stato costretto a scuola a sedersi accanto a un compagno albino, e suo padre decide di spiegargli le meraviglie della diversità facendogli ascoltare un disco. Nella fattispecie They Only Come Out at Night, del rocker albino Edgar Winter. E se non fosse tutto così autobiografico come Kozelek vuole far crederci? Non importa, perché mi piace pensare che storie come questa accadano e inizio a considerarela possibilità che se tutti i padri si armassero di dischi per educare i propri bambini il mondo forse sarebbe un posto più carino.

È questo che farà sì che la cerchia di quelli che venerano Kozelek da sempre amerà Benji in modo particolare. Ogni storia è permeata di coinvolgenti dettagli del suo vissuto, e se la tradizione Folk americana da Woody Guthrie a Bob Dylan è vissuta di temi sociali e politici, Kozelek assume un’accezione decadente nella sua inclinazione autoreferenziale, in cui anche le tragedie collettive – in “Pray for Newtown”, quella Newtown del massacro alla Sandy Hook Elementary School del 2012 – sono osservate dal suo personalissimo punto di vista (le lettere che riceve da un fan che gli chiede di pregare per loro). Mi lascio trasportare da “I Watched The Film the Song Remains the Same”. Oh sì, sono di nuovo in Ohio. È la cronaca del percorso artistico di Mark, che inizia in un pomeriggio della sua infanzia passato a vedere il celebre film sui Led Zeppelin. Nel mentre, unico ma travolgente accompagnamento alla sua voce calda, una chitarra di ispirazione gitana. Sono grata per il fluire strumentale della mandola in chiusura che mi lascia il tempo di metabolizzare. È una concessione che pochi dei pezzi di quest’album fanno. “Micheline” corre in mio aiuto con un timido pianoforte e “Ben’s a Friend of Mine” (il suo amico di vecchia data è proprio quel Benjamin Gibbard dei Death Cab for Cuties) azzarda un sax, tornano le atmosfere a cui ci Kozelek ci ha abituati e scioglie in parte la tensione ma è un po’ tardi.

Forse è questo il limite di Benji. Non c’è spazio melodico per digerire. L’anima del songwriter ha prevalso su quella del compositore. Timore che sonorità più invadenti ci avrebbero distratto? Noi ti prendiamo sempre un sacco sul serio, caro Mark, anche quando concedi qualche incursione a suoni che ti appartengono forse meno. Perils from the Sea (dello scorso anno, con Jimmy LaValle) è stato un’intima poesia, e lo è stato anche perché sapientemente condito di elettronica minimale.  Ok, l’ho detto. Ma che ti frega? Gira voce che quei tiratissimi di Pitchfork ti abbiano dato un 9.

Quanto a me…Pitchfork, nun te temo.

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Brunori SAS – Vol.3 Il Cammino di Santiago in Taxi

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Quando ascolto un nuovo disco, tra le prime cose che faccio, mi soffermo sul titolo e spingo l’acceleratore sull’immaginazione per vedere fino a dove mi riesce a portare. Il titolo che ho davanti in questo momento è Vol.3 – Il Cammino di Santiago in Taxi della Brunori SAS, fondata da Dario Brunori. Non ho mai avuto modo di fare l’esperienza del Cammino di Santiago, ma dai racconti di chi si è cimentato in questa impresa colgo che la bellezza di tale cammino sta nel viaggio in sé, nelle tappe intermedie che lo compongono, negli incontri casuali che lo caratterizzano. Con questa premessa, la lentezza del mezzo di locomozione diventa una condizione necessaria e sufficiente per assaporarne appieno tutte le tappe ed arricchirsi interiormente sotto diversi aspetti. A piedi, in bicicletta, in autostop o in bus, immagino un viaggio a volte più lento, a volte più veloce, ma che dà sempre la possibilità di creare legami con gli esseri viventi circostanti: piccoli pezzi di vita messi nelle mani di altre vite. Cosa posso aspettarmi invece da un Cammino di Santiago che avviene in Taxi? Certo la comodità del viaggio è un aspetto allettante, ma il solo pensiero di una conversazione più o meno sterile con il tassista che riguarderà nel 90% dei casi il Meteo e nel 10%  la Crisi mi fa venire un’ansia assurda. Premo play, forse è meglio.

“Arrivederci Tristezza” arriva dopo una breve introduzione al piano. Più che un titolo è un monito: la tristezza si saluta solo con un arrivederci e mai con un addio. Il brano, che si sviluppa in un graduale crescendo, mi porta alla consapevolezza che la Brunori SAS funziona sempre più come una piccola orchestra: gli strumenti si moltiplicano, il suono si completa di sfumature che lo rendono più caratteristico, gli arrangiamenti sono più articolati, anche se non mancano brani più intimi. Tra questi ci sono “La Vigilia di Natale”, dove bastano voce e piano per raccontare l’angoscia di certi giorni festivi, dell’ obbligo alla felicità dettato dal numero rosso di un calendario, oppure “Kurt Cobain”, che introduce il tema del suicidio partendo da una serie di riflessioni sul senso della vita, e che perde di intensità nel ritornello dove vengono tirate in ballo le morti di Kurt Cobain e Marilyn Monroe come esempi emblematici (il motivo di tale scelta rimane per me ancora un mistero). La conclusione alle riflessioni sul senso della vita si risolve in un forse troppo superficiale: vivere è come sognare ci si può riuscire spegnendo la luce e tornando a dormire. “Mambo Reazionario”, dal ritmo quasi caraibico, è un modo ironico di criticare la decadenza di certi ideali di rivoluzione. I temi scottanti arrivano con “Pornoromanzo” che si rifà al tema dell’amore tra adulti ed adolescenti, dei novelli professor Humbert e delle moderne Lolite, che confondono sesso e amore, il tutto cantato con un ritmo rockeggiante ed un linguaggio esplicito che esclude ogni fraintendimento. “Le Quattro Volte” mette in risalto lo scorrere inevitabile del tempo e la routine che accompagna la vita affrontandone con tono semplice e leggero le tappe che la caratterizzano, dalla scuola elementare alla pensione, senza però considerare che il corso della vita è ormai cambiato, e che in pochi si rivedono nelle tappe descritte. “Il Santo Morto” è una sorta di zapping televisivo di immagini contrastanti, che vanno da Padre Pio al Pulcino Pio, senza tralasciare i programmi trash che ci propone Nostra Signora TV. “Il Manto Corto” spegne le parole e permette alla Brunori SAS di esprimersi con la sola forza del suono, e ciò che ne viene fuori è una bella conversazione in musica in un brano del tutto strumentale. Non potevano mancare infine le storie d’amore finite male, come “Maddalena e Madonna” e “Sol Come Sono Sol” in chiusura, una sorta di Valzer sulla solitudine con tanto di storia di abbandono sull’altare.

Il viaggio è finito e sotto certi punti di vista è stato comodo e veloce. Ma per quel che mi riguarda, non sempre la parola comodo è sinonimo di bello. È stato comodo nella scelta di alcune tematiche, e veloce nel modo di trattarle in superficie, con retorica, senza addentrarsi troppo nelle questioni, lasciandosi indietro la possibilità di arrivare fino in fondo. La scelta di intraprendere un cammino come quello di Santiago, e la scelta di farlo in Taxi, lasciandosi indietro dettagli che avrebbero davvero potuto fare la differenza. Posso affermare con sicurezza che il titolo dell’album è quello giusto.

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Dente – L’Almanacco del Giorno Prima

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Me la ricordo bene la mia prima volta con Dente. È stata durante una sessione d’esami estiva, di quelle che ti tolgono il sonno e l’appetito, e ti riducono a un’insignificante particella subatomica immersa nell’immane grandezza dell’universo. È stato un ascolto casuale, di quelli che arrivano e ti trafiggono alle spalle, mentre ignaro ti aggiri nei labirinti della tua esistenza, convinto di essere immune a certe manifestazioni emotive. Parole che ho cancellato dal vocabolario ce ne sono una dozzina o anche di più. Ho cominciato da quelle che, si sa, son delle bugie. Come per sempre che, fondamentalmente, è uguale a mai. Un modo scanzonato di affrontare la vita, accompagnando l’ironia delle parole con il suono della chitarra, a volte del piano; non mi serviva altro per sorridere quel giorno. Ed è così che ho conosciuto L’Amore Non È Bello. Un’affermazione che nell’immaginario collettivo presuppone l’esistenza di un seguito: l’amore non è bello se…, ma che in questo caso non esiste. L’amore non è bello. Punto e basta. Chi ha bisogno di un se vada a cercarselo altrove. E da lì in poi sono andata a ritroso, verso l’ascolto di Non c’è Due Senza te ed Anice in Bocca, dal sound più primitivo, essenziale, ma sufficiente ad accompagnare parole di una schiettezza ancora una volta disarmante. Io Tra di Noi rappresenta invece una svolta musicalmente parlando; gli arrangiamenti si fanno più completi grazie all’introduzione di archi e fiati, si osa con qualche suono elettronico.

Dopo quasi tre anni da Io Tra di Noi arriva L’Almanacco del Giorno Prima. Il titolo si riferisce palesemente alla trasmissione televisiva l’Almanacco del Giorno Dopo, con la variante della parola prima a continuare la tradizione del gioco di parole nel titolo dell’album.  Anche il disco, come il titolo, si conferma in pieno stile dentesco: brani caratterizzati da una forte malinconia, la predilezione per tematiche riguardanti amori quasi esclusivamente infelici (teoria confermata dallo stesso Dente), il tutto contornato da arrangiamenti molto ben curati, merito anche della collaborazione di  Enrico Gabrielli (Calibro 35) e Rodrigo D’Erasmo (Afterhours). Sembrerebbe che ci sia proprio tutto in questo disco, ed invece la grande assente è proprio l’emozione, e scusate se è poco. Brani come “Chiuso dall’Interno”, “Invece Tu” e “Miracoli”, sono piacevoli all’ascolto, ma vanno via veloci, senza lasciare molte tracce dopo il loro passaggio, senza farsi troppo notare. Qualcosa comincia a muoversi con “Fatti Viva”, dal ritmo quasi ossessivo di sottofondo, che introduce il suono del clavicembalo capace di portare chi ascolta in epoche remote. Sulla stessa scia si sviluppa anche “Fiore Sulla Luna”, ma perde di intensità rispetto alla precedente. Altra presenza non così scontata è il suono delle chitarre elettriche; non aspettatevi assoli da capogiro, ma piuttosto piccole comparse in canzoni come “Al Manakh”. Per “Meglio Degli Dei”, “I Miei Pensieri e Viceversa” e “Remedios Maria” a chiusura del  disco vale lo stesso discorso dei brani di partenza: si fanno ascoltare piacevolmente, ma vanno via veloci. Il tempo rimane tempo che scorre e basta, e non si dilata come a volte succede quando si ascolta musica.

L’Almanacco del Giorno Prima è senz’altro un buon disco, ben costruito, molto ben arrangiato, molto radiofonico se vogliamo, migliore di molta altra musica che si sente abitualmente in radio, ma a mio avviso non aggiunge niente rispetto alle produzioni passate di Dente, anzi, si priva di quella autenticità che contraddistingueva i testi e di quella straziante ironia che si riduce ad una ricerca forzata di giochi di parole che però non mi fanno più sorridere. Lascio ad animi più nobili del mio il compito di emozionarsi di fronte a parole come chi non muore si ripete, chi non vuole non si vede più. Io ci vedo solo la citazione di un proverbio e nulla di più. Aspetterò i live per poter sorridere ancora, sperando che Dente non abbia deciso di ammazzare la sua ironia anche sul palco.

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Il Video della Settimana: Gabriele Deriu – “Verso la Fine” feat. En?gma

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Gabriele Deriu è un’artista di Olbia trapiantato a Roma. A distanza di tre anni dal suo primo lavoro Gabriele Deriu Ep (2010) esce con un nuovo lavoro, Oltre il Muro Ep, che intreccia Cantautorato, Elettronica, Dubstep e Rap. Il singolo è “Verso la Fine” ed è anche il nostro videoclip della settimana. A duettare con Gabriele Deriu troviamo En?gma, rapper della crew Machete. Il testo racconta dell’annuncio di una rivoluzione da parte di un popolo stanco di sopportare ogni cosa, un popolo che vuole far rinascere il valore della verità. Il videoclip ufficiale è diretto da Mirko De Angelis, regista che ha firmato i video di molti rapper italiani.

Anche questa settimana dunque, una scelta insolita per la redazione di Rockambula che dimostra ancora una volta di non avere alcun tipo di pregiudizio verso nessun genere musicale. Di seguito trovate il nostro Video della Settimana che, ricordate, sarà presente in home fino a sabato prossimo.

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Terje Nordgarden – Dieci

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Terje Nordgarden viene dalla Norvegia ma vive e suona in Italia da ormai parecchi anni. Innamorato del Folk e del Blues americani, di Dylan, Springsteen, Drake, Elliott Smith, si è integrato nella fertile scena indipendente italiana e con questo suo ultimo Dieci rende omaggio alla sua famiglia adottiva reinterpretando e riarrangiando, per l’appunto, dieci brani di artisti nostrani (Cristina Donà, Paolo Benvegnù, Marta Sui Tubi, Marco Parente, Iacampo, Cesare Basile… ma anche Claudio Rocchi e Grazia di Michele).

Il risultato è un disco lunare e dolcissimo, rarefatto ma intenso allo stesso tempo. Chitarre dalle distorsioni calde, arpeggi cristallini, ritmiche lineari e soundscape vibranti e infeltriti, un maglione Folk/Blues elettrico in cui raggomitolarsi: sopra tutto questo, una voce morbida, che fa sue canzoni altrui con naturalezza. L’accento straniero di Nordgarden aggiunge anche un taglio retrò all’operazione: ci porta alla mente gli anni 60, il Beat, gli inglesi che venivano in Italia a cantare (in italiano) canzoni (italiane). I brani, cover di artisti (chi più chi meno) affermati ma quasi tutti provenienti dalla scena indipendente, sono canzoni belle ma non famosissime, e questo contribuisce a rendere questo disco di cover un prodotto molto particolare e sui generis.

Alcune canzoni sono particolarmente riuscite (“Non È la California”, “Invisibile”, “Cerchi sull’Acqua”), altre un po’ meno (“La Realtà Non Esiste”), ma Dieci rimane un disco assai godibile e Terje Nordgarden un artista da tenere d’occhio.

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Primo videoclip per Le Laite

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Il cantautore asiaghese Le Laite (aka Paolo Silvagni) lancia Val D’Orco tratto dal suo disco di debutto L’estate è già un ricordo. Il video, girato nella valle che dà il nome alla canzone stessa, è stato curato da Nicola Cioffi, già al lavoro sulla produzione dell’album. Trovate il videoclip qui. Enjoy!

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Virginiana Miller – Venga il Regno

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Ritornano i Virginiana Miller, ritorna il loro Rock, leggero nella forma ma denso nei contenuti, sbilenco, d’autore. Il nuovo lavoro si chiama Venga il Regno, e ci consegna una band con un’identità precisissima: una voce inconfondibile (quella di Simone Lenzi), sia nel senso più prosaico di espressione canora che in quello di visione poetica, e un sound accessibile, ma con soventi cambi di registro che aiutano a non bloccare l’ascolto ma a mantenerlo vivo.

Venga il Regno è fatto soprattutto da canzoni, belle canzoni: “Una Bella Giornata”, il singolo d’apertura, è il classico apripista, orecchiabile ma per niente stupido, con un preciso senso Pop e un bel tiro consistente (e un testo splendido: “È inutile / lo sai / restare lì nascosta / non è mai troppo presto / per rimettersi in piedi / e rialzare la testa / e se non è domenica / se non sarà più festa / andrà bene lo stesso / perché la vita ti vuole / perché ti vuole adesso / in questa bella giornata / l’aria è pulita / la strada asciutta / la pioggia goccia a goccia / è già caduta tutta”). Ci si scurisce un po’ in “Anni Di Piombo” (secondo singolo) anche se, forse, un po’ meno di quello che ci si aspetterebbe. I Virginiana Miller sono così, chiaroscuri: non sono fatti per vivere di estremi; vivono di spostamenti, di atmosfere, di metamorfosi. Hanno un sapore retrò, da film d’autore (e non sarà un caso il David di Donatello vinto con “Tutti i Santi Giorni”, canzone che dà il titolo all’omonimo film di Paolo Virzì, ispirato ad un romanzo dello stesso Lenzi). Sono crudi e dolci, sono schietti ed eleganti (vedi la commistione di sonorità morbide e testo tagliente di “Nel Recinto dei Cani”: “Venga il regno / e sia dei cani”). Sono spiazzanti: ti preparano alla lentezza e poi procedono per scatti (“La felicità è un dono / passa di mano / e poi si dimentica / raggio di sole / che illumina / si posa sui volti / la felicità è una cosa degli altri”, da “Due”).

Venga il Regno è un disco solido, in cui musiche e testi si attorcigliano e si inseguono, a volte si allontano, a volte combattono, ma sono sempre nel punto giusto, nella direzione che serve. Non troverete nei Virginiana Miller gli alfieri di chissà quale nuovo modo di intendere la musica, ma certamente si confermano dei capaci e affidabili “costruttori di canzoni”. Avercene.

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