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Dentro il mondo di Ypsigrock – Intervista a Marcella Campo
Quest’anno il festival si svolgerà dal 4 al 7 agosto, come sempre a Castelbuono, in provincia di Palermo.
Continue ReadingWhat’s up on Bandcamp? [gennaio 2022]
I consigli di Rockambula dalla piattaforma più amata dalla scena indipendente.
Continue ReadingThe Soft Moon – Deeper
Decidere di fare i conti con i propri demoni non è mai un lavoro facile; se poi scegli di passare questo tempo di pura introspezione tra la nebbia dei canali di una Venezia spettrale e misteriosa, fra anonime maschere e freddi stucchi è probabile che la tua anima nera e buia si amplifichi e si dilati tanto da farti cadere lentamente in un percorso buio e tortuoso di esplorazione e solitudine. Questo viaggio, espressione di una profonda interrogazione di sé, lo racconta The Soft Moon aka Luis Vasquez nel suo terzo album Deeper. Un disco introspettivo, nero, claustrofobico, che eredita molto dai precedenti lavori, ma che al tempo stesso fa un enorme balzo in avanti in termini di sperimentazione e innovazione. Post Punk ed Elettronica continuano a essere l’humus di base, al quale però si aggiungono brani che contengono vere e proprie melodie e un cantato d’ispirazione Pop. La Dark Wave, gli anni 80, i Depeche Mode, i Kraftwerk, i Nine Inch Nails, il Kraut Rock, Minimal Man e l’Industrial e qualcosa dei Tear For Fears non sono altro che fili nelle mani di un esperto burattinaio, che con maestria confeziona undici tracce intese, catartiche, ansiogene, a tratti rabbiose, spesso sospese e rarefatte. L’atmosfera generale è dark, opprimente, seriale, il ritmo è uno degli elementi decisivi, cuore e veicolo di tutti i brani, martellante e sincopato in “Black”, modulato, esotico e primordiale nelle percussioni di “Deeper”, elettronico, ricco di bassi e danzereccio in “Feel”. Il tutto è sapientemente condito da synth distorti, incursioni martellanti di ronzii e sirene, suoni robotici, voci effettate, echi e riverberi. Tra gli undici brani le tracce più sperimentali sono “Try” dal sapore vagamente decadente e distante, “Without” dove per la prima volta il piano e la melodia sono protagonisti e “Wasting”, che riesce a trasmettere il senso di solitudine e distacco di una base strumentale con un cantato delicato. Il gran finale, la risalita dopo la caduta, è affidato a “Being”, che ci lascia con un’ineluttabile verità e un nastro, che nel suo continuo riavvolgersi, ripete in maniera ossessiva “I can se my face”. Luis Vasquez ha realizzato un album inteso e coinvolgente, estremamente autobiografico e per questo maledettamente vero.
Beach Fossils – Clash The Truth BOPS
Ci sono dischi che si raccontano pezzo per pezzo. Si smontano, si analizzano, come un’autopsia, come al microscopio, atomo per atomo. Ce ne sono altri che invece sono un unico, grande viaggio. O un’atmosfera, una sola. Una fotografia a più dimensioni, da diversi angoli, ma della stessa cosa. Clash The Truth è fatto così. È onirico, sospeso, tenuto in volo dalla voce eterea e bagnata di Dustin Payseur, la mente dietro al progetto, un progetto nato DIY e casalingo e finito invece, con questo disco, in ben due studi newyorkesi (il primo è stato abbandonato, ad un certo punto, per colpa dell’uragano Sandy). Clash The Truth è fatto di melodie semplici, ritmi post-punk, bassi cordosi, chitarre che da acustiche diventano elettriche, morbide, poi acide, poi suadenti, ambienti riverberati e gonfi d’eco, come nuvole in fuga dentro la tua stanza. Melodie, ritmi, ambienti che sono una sola melodia, un solo ritmo, un solo ambiente, lungo quattordici tracce, circa mezz’ora. Poi, a scavare, si possono notare isole nella spuma (“Sleep Apnea”, la mia preferita, che non ha bisogno di spiegazioni; momenti drone e leggeri attimi strumentali, come “Modern Holyday”, “Brighter” e “Ascension”, a spezzare il tutto; brani leggermente più sostenuti – “Crashed Out”, “Burn You Down”, “Caustic Cross” – pronti a mescolarsi con l’ossessività della title track, o con il sogno Pop-Noisedi “In Vertigo”, con Kazu Makino dai Blonde Redhead) ma a svelarli tutti vi toglieremmo il gusto di scoprirli da soli. Dalla Captured Tracksun altro esempio di post-qualcosa leggero, facile, intimo, di scuola Low. E oggi, col mal di testa che incombe e un’altra primavera alle porte, è tutto ciò che mi serve.
Naomi Punk – The Feeling
The Feeling è un insolito miscuglio di cose anche assai diverse tra loro.
C’è del grunge, e come potrebbe essere altrimenti? I Naomi Punk vengono da Seattle, e non nascondono il loro tributo alle grandi band degli anni ’90 della scena dello Stato di Washington, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento, musicale e non, “primitivo” (come amano ripetere ai visitatori del loro sito ufficiale: “DO YOU APPRECIATE PRIMITIVE INTERNET?”). Lo si sente anche nell’oscurità che permea il lavoro, che non ha niente di dark, ma piuttosto un’anima caotica, imprevedibile, in qualche modo lo-fi.
C’è poi del punk, indiscutibilmente, nel loro modo di porsi, nella loro filosofia do it yourself, nell’approccio visivo (che loro ammettono essere importante): tutto in bianco e nero perché è più facile da fotocopiare. C’è del punk anche nella loro musica, libera da ogni pregiudizio, che si fa inseguire, semplice e diretta. Però non c’è rabbia, non c’è rivoluzione, c’è più che altro un ghigno ironico a sostenere i loro suoni, sporchi e distanti, la loro voce, incastrata nella distanza, indefinita, cantilenante.
Ci sono poi mille altre cose (sludgy feelings, la caratteristica chitarra tremolante e scordata che mi ricorda tanto gli Yawning Man, alcuni approcci “semplicistici” à la White Stripes, qualche ascolto adolescenziale metal e, come dicono loro, “some psychedelic weird shit”).
Un album particolare, non ricercato ma curioso, che potrebbe scaldare parecchio le orecchie degli appassionati di un certo tipo di musica incasinata, senza fronzoli, crepuscolare, ironica, sporca, che qui da noi va fortissimo nella “Brianza velenosa”. Provare per credere.
Widowspeak – Almanac
Arrivano dallo Stato di New York i due Widowspeak, e ci portano un bastimento carico di chitarre western e ambienti ariosi, voci eteree e atmosfere sognanti.
Registrato in un fienile vecchio più di cent’anni, Almanac (come i vecchi annuari con i consigli per agricoltori e naviganti) è il frutto soprattutto del labor limae del chitarrista Robert Earl Thomas, che ha espanso i demo prodotti dalla coppia dopo l’esordio omonimo del 2011 con strati e strati di chitarre, armonium, piano Rhodes, organi. Il risultato è un fondale a metà strada tra il West e il mondo dei sogni, dove tutto levita leggero, il vento soffia piano facendo roteare la polvere e le stelle tremolano distanti: davanti ad esso scorre il tempo della natura, con i suoi cicli infiniti, la vita e la morte delle stagioni, la giovinezza, l’amore.
Ma il disco non sarebbe lo stesso senza l’altra metà del duo, Molly Hamilton, che ci regala linee vocali sottili come carezze, leggere come soffi. E questa leggerezza è il marchio di fabbrica di tutto il lavoro, caratteristica centrale e ragione di vita del duo, che ci tiene sospesi sia negli episodi più incantati (“Perennials”), sia in quelli dall’andamento più western (“Thick as thieves”, “Minnewaska” – sorta di canto popolare sui generis -, “Spirit is Willing”), sia in quelli più spiccatamente pop (“Devil Knows”, “Ballad of The Golden Hour” – che fino al primo inserto di slide guitar sembra un brano da cantautrice folk anglosassone, tipo Amy McDonald).
Un ottimo prodotto, nel complesso, tra echi di Slowdive e capacità di sintesi alla Low. Da gustare passeggiando nei boschi (ma quelli con le sequoie), oppure osservando le onde disegnate dal vento su pianure coltivate a grano. O anche sdraiati su un prato, o seduti in veranda, ad aspettare le nuvole. Consigliato.