Carmen Consoli Tag Archive
“Foto di Pura Gioia” Antologia 1987-2017, l’album che racconta 30 anni degli Afterhours
“Gli Afterhours e Carmen Consoli negli anni, hanno percorso strade diverse ma parallele, hanno condiviso parte di un’esperienza musicale e una visione comune della musica. Era ora che finalmente si incontrassero sul piano comune della canzone d’autore.”
Sara Velardo – 3
Sara Velardo è una giovane cantautrice con un carattere forte, pochi peli sulla lingua e una quantità di energia e passione davvero invidiabili. Dopo due album di matrice prevalentemente acustica il suo terzo lavoro in studio, intitolato 3, evolve verso un sound più elettrico e Rock, riuscendo a trasmettere tutta la necessità espressiva dell’autrice, con ancora maggiore enfasi e impatto. Questa svolta elettrica la avvicina ancora di più e per molti versi a cantautrici Rock come Carmen Consoli e Paola Turci.
Sara Velardo, però, con il suo personale stile diretto, ma al tempo stesso carico di sensibilità, ci parla dell’attualità che spesso fingiamo di non vedere, raccontando dal suo punto di vista storie che si legano a doppio filo con tematiche sociali e di degrado, che includono riflessioni sull’immigrazione e sulla violenza sulle donne. Potremmo definirla come una dolce violenza, spesso enfatizzata dalla voce di Sara, dal cambio di registro linguistico e dall’uso del dialetto calabrese , che attraverso i suoi suoni ruvidi e incalzanti, come in “Trageriaturia” e “Migranti”, riesce a superare la barriera linguistica. In generale lo stile del disco non cede mai il passo a frivolezze e mode passeggere e richiama suoni e sapori antichi, senza suonare vecchio e polveroso. Tra i nove brani si spazia molto: dal cantautorato americano un po’ sixties, che porta con sè tutta l’aria delle strade metropolitane ad episodi in cui la vena femminile e leggiadra prende il sopravvento per brani dalle atmosfere sospese, fino al Pop e agli spunti ritmici tribali.
Possiamo dire che 3 è sicuramente un disco sincero e vissuto, un racconto lucido e moderno in cui c’è spazio per una cover dei Beatles (“Tomorrow Never Know”), per un quasi Rap sperimentale de “I Confini Di Casa Mia”, fino alle ballate struggenti “Come Una Poesia”, senza sembrare contradditorio ne’ confusionario, anzi.
Roipnol Witch – Starlight
Non è sempre facile scrivere delle recensioni. A voi probabilmente sembra una figata sputare sentenze nel bene o nel male su un progetto per cui qualcuno ha speso soldi, tempo, energie e sul quale, soprattutto ha messo la faccia. A parlar bene di un disco che entusiasma si rischia che poi quell’album faccia in realtà parecchio cagare ai più e si venga tacciati per venduti, per amici di amici di amici e qualsiasi altra porcata sotterranea possa giustificare un errore di valutazione così grossolano. Se se ne parla male, di media, l'”apriti cielo” è istantaneo e parte dalla band, dagli amici-fan della band e si conclude poi quasi subito lì da dove era partito dopo due o tre giorni di battibecchi e insulti social. Con il risultato che molte più persone ascoltano il lavoro in questione, per capire dove stia la ragione. Ammesso che di ragione si tratti. Perché è impossibile essere oggettivi nello scrivere una recensione. O meglio, per chi legge, è difficile essere ritenuti oggettivi quando si recensisce un disco.
Questo preambolo mi serve per mettere le mani avanti. Sì, ormai lo sapete già, suono in una band di sole donne. No, noi non l’abbiamo fatto un tour di presentazione dell’album. Perché no, in effetti non ce l’abbiamo un album. Viene da sé che no, non abbiamo un’etichetta discografica neanche piccola piccola. E sì, sarà impossibile per me farvi capire che quello che scrivo non è frutto di rosicamento, perciò se volete leggere fate pure, altrimenti fermatevi qui.
Le Roipnol Witch vengono da Carpi, in provincia di Modena. Sono tre donne più un maschio in realtà, una roba più alle Hole che non alle Savages. Ma su di loro si legge di movimento Riot, di all-female band, di rock in gonnella, di Rock With Mascara (che è un’idea meravigliosa che le ragazze hanno avuto – e non sono ironica – di unire tutte le band al femminile italiane e organizzare dei live itineranti per tutta la penisola, con scambio di contatti, di competenze, di passioni). Il movimento Riot Grrrl, lasciatemelo dire, era già morto quando Corin Tucker e Carrie Brownstein decisero di suonare insieme e fondare le Sleater Kinney. Ne avevano già le palle piene di essere intervistate in merito alla difficoltà di suonare in un panorama prettamente maschile o alla difficoltà di non contendersi il ruolo di prima donna con la compagna di band. Mamma mia. È difficile accogliere questo disco come una novità nel panorama musicale nostrano solo perché ci sono tre donne che suonano insieme in una stessa formazione (ma noi abbiamo già avuto i Prozac+, per citare solo una band antecedente con un organico simile). Non sarà (ancora!) discriminatorio concentrarsi sul genere nella promozione di qualcosa?
Dal punto di vista musicale, poi, Starlight non è la novità che aspettiamo (da un po’ e non certo e non solo dalle Roipnol Witch), ma è piuttosto un mix di influenze e di debiti artistici. Si va dalle sonorità New Wave della title-track “Starligt” al Pop-Punk degli anni Duemila di “Disagio” e “Oliver Tweet”; tra distorsioni contenute e registrazioni patinate (per un gran disco dal punto di vista tecnico ma ben poco sul piano artistico), si strizza l’occhio alla Berté in “Femme Fatale” e alle Plasticines di “Bitch” in “Be My Love”.
I testi sono alternatamente redatti in inglese o in italiano. Certo, nel 2016 è difficile trovare chi ancora non sa l’inglese e non riesce a capire un testo (per altro scritto da chi non è madrelingua e quindi non cede a slang e citazioni inafferrabili dagli stranieri), ma è evidentemente altrettanto difficile trovare nell’Alternative Rock un’attenzione per le liriche che non riduca il testo a mero espediente fonico (sempre che non si cada nella canzone di protesta dei soliti Zen Circus, Teatro degli Orrori, Ministri e compagnia). L’uso della rima, poi, come in “Non è un Paese per Artisti”, che poteva essere un pezzo davvero ben riuscito, diventa quasi un’irritante soluzione frivola per destreggiarsi nella grande difficoltà dell’accentazione piana della stragrande maggioranza delle parole della nostra lingua, un trattamento più alla Las Ketchup (o alle connazioni Lollipop!) che alla Au Revoir Simone. Per intenderci.
Il Rock femminile italiano continua, secondo me, ad essere debitore di un Rock al femminile d’oltreoceano che era già anacronistico quando è nato. Finché i coretti saranno di sexy Uh uh piuttosto che di contenuti, finché la leggerezza verrà scambiata per frivolezza anche da chi è parte attiva della composizione, finché mascara, minigonne e una rabbia senza agganci storici, senza il sostegno di testi di spessore continueranno a spadroneggiare in quella produzione che viene definita all female anche quanto la definizione non è proprio vera, si continueranno ad avere più Spice Girls che Carmen Consoli, in una dicotomia costante, per altro, tra suore e puttane. Si continuerà a notare più come si vestono queste ragazze per i live che ascoltare cosa vogliono dire. Ci si continuerà a stupire di vedere una donna suonare un basso e maliziosamente pensare anche magari alla bravura nel gestire un manico tanto lungo. Che pena.
C’è di che essere incazzate, come donne, senza doversi nascondere dietro al femminismo. C’è di che essere donne anche senza dover sculettare, di che farsi rispettare senza atteggiarsi necessariamente da streghe. E comunque, perdonatemi, se si vuole fare le suffragette, sarebbe bene avere, prima, qualcosa per cui combattere.
Carmen Consoli – L’Abitudine di Tornare Tour
La premessa è d’obbligo.
Non ero mai stata a un concerto di Carmen Consoli.
E suono in una band di sole donne.
E sono donna. Eterosessuale. Con una vita sentimentale attualmente ai limiti del ridicolo.
La “cantantessa”, così la chiamano da sempre. Ma fin dai primi secondi, si scopre che è molto di più di una poetessa che canta. Un animo Rock che non si è neppure sopito con l’età, con la gravidanza e la maternità, col ritiro dalle scene per cinque anni, dopo la morte del padre e tutte quelle storie di cui all’ascoltatore deve fregare ben poco. Sul palco in tre. Tre donne, le nostre “geishe per una sera”. Della ragazzina coi capelli assurdi degli anni ’90 non è rimasto davvero niente. Carmen è l’esempio lampante di una donna che ha acquistato una grandissima consapevolezza di sé, del suo ruolo di donna, nelle miliardi di sfumature che implica. Sexy in una t-shirt nera un po’ larga, ancora più sexy dopo il primo cambio palco, quando indosserà la maglietta del Piam Onlus con la scritta “L’accoglienza fa bene”. Nessun imbarazzo in tutta questa femminilità dirompente e spontanea, ma soprattutto un’energia incredibile.
Apertura ruffianissima e azzeccata, che strizza l’occhio al passato: “Geisha”, “Mio Zio” e soprattutto “Sentivo l’Odore”. E queste tre (con lei Fiamma Cardani alla batteria e Luciana Luccini al basso) hanno una pacca sorprendente. Composte, con solo alcuni movimenti ritmici del corpo delicati e mai volgari ma letteralmente un muro di suono che fa vibrare tutta la piazza. Ci guardiamo stupiti. Non che la Consoli da cd non sia già più di qualcosa, ma accidenti dal vivo: c’è pathos, davvero, come non fossero vent’anni che canta quelle canzoni, e c’è una pulizia sonora e una precisione tecnica invidiabile, senza che ci si lasci mai andare a virtuosismi e inutili arabesque.
Seguono tre tracce dall’ultimo disco, L’abitudine di Tornare: la quasi title track “Tornare è un’abitudine”, “La Signora del Quinto Piano” e la splendida “Ottobre”, un paesaggio sul finire dell’estate con dettagli finissimi sulla vendemmia che mi fanno sentire il caldo della Sicilia e soprattutto con quel verso maledetto piuttosto che il limbo avrei scelto l’inferno, che chiunque può riempirsi a piacere di significato prima di farsi attraversare da un brivido.
“Matilde Odiava i Gatti” e “Per Niente Stanca” sono praticamente coperte dalla voce del pubblico, molto più eterogeneo di quanto mi aspettassi: donne, uomini (che a sorpresa sanno tutti i testi e li urlano più di quelle che invece ti aspetteresti), mezze età, under30, curiosi sopra i 20 che a mala pena andavano all’asilo quando la Consoli ha debuttato, alternativoidi, gente con le Hogan, coppie di fidanzatini che si tengono per mano incuranti che il 99% di ciò che viene cantatato su quel palco sono lacrime d’amore e che hanno parecchie possibilità di immedesimarcisi per bene tra qualche tempo.
Mi rendo presto conto che di Carmen e i miei 20 anni ho conservato memoria per i brani d’attitudine più Punk-Rock, così avevo rimosso “Fino all’Ultimo”. Inutile dire che sulla soglia dei 30 anni e con le premesse fatte all’inizio, sia stato uno dei momenti pelle d’oca di tutto il concerto e che probabilmente adesso non la dimenticherò più.
Il concerto prosegue con “Bonsai #2”, “Sintonia Imperfetta” e la seducente “Stato di Necessità”.
Carmen parla poco, molto poco. Fino a qui forse ha giusto ringraziato un paio di volte tra qualche larsen di fine brano. Per “Esercito Silente” però, due parole le spende: «Da bambini ci dicevano sempre “Chi fa la spia non è figlio di Maria”. Io ho sempre odiato quella frase, perché educa all’omertà». Per simmetria, nel testo del brano (anche questo dall’ultimo disco) ci si chiede se il buon dio perdonerà il silenzio. Davvero una costruzione acuta e finemente letteraria del proprio pensiero. E di nuovo, per un numero di volte che ho smesso di contare da quando il concerto è iniziato, mi trovo piena di ammirazione per questa donna.
Seguono “Fiori d’Arancio” e “Contessa Miseria” e ancora una volta è manifesto che nulla è lasciato al caso, neppure la vicinanza di due brani che affrontano tutt’e due la tematica dell’abbandono sull’altare, il primo di una giovane sposa, il secondo di una donna alle porte dei sessanta, disperatamente sola, la vita ibernata a vent’anni. E come per rabbia, parte una potentissima “Venere”: tra noi siamo quasi stanchi di continuare a ripeterci quanto siano fighe queste tre là sopra, nell’accezione totalizzante del termine.
E Carmen parla di nuovo (lo farà solo più per ringraziare Fiamma e Luciana, oltre al pubblico) nel presentare il brano scritto con Max Gazzè, “Oceani Deserti”.
Il primo encore è una mitragliata di pezzoni: “Parole di Burro” (intonata da sola con l’accompagnamento della semplice chitarra), “Confusa e Felice”, l’ironica “AAA Cercasi” e “Besame Giuda”. Un climax, di suoni, di luci, di urla. La cantantessa ha due corde vocali forti almeno come i coglioni metaforici di cui l’hanno e si è fornita nel corso della vita.
Il secondo encore è di un’intensità incredibile. Un fondale blu, lei sola e la sua acutica: “Blu notte” ci pietrifica letteralmente perché non è una canzone facile sotto nessun punto di vista, dall’estensione all’intonazione di certi finali di verso dissonanti, passando per l’interpretazione, per altro nella scelta così musicalmente scarna. Eppure Carmen carica ogni singola parola di aria e di intensità, come se la ricordasse ancora quell’occasione che l’ha portata a scrivere quel testo.
Ho i brividi di nuovo a scriverne.
Beddhra Carmen.
Cristina Donà – Così Vicini
Ciò che mi sorprende dell’ottavo disco dell’incantautrice Cristina Donà è la voglia che ha ancora di giocare, di tessere le sue canzoni di dettagli e rifrazioni, di non esaurirsi nel compito, nell’abuso del già fatto, ma di procedere sempre in avanti, o di lato, anche per piccoli scarti: non è che si faccia sperimentazione, ma almeno si testano soluzioni non ovvie, soprattutto per quanto riguarda gli arrangiamenti (di Saverio Lanza), ma anche nelle armonie, nelle linee melodiche (“L’Infinito nella Testa”, “Perpendicolare”, “Senza Parole”). Così Vicini è un disco piccolo, intimo, sussurrato, ma con grazia luminosa, preziosa. Intessuto di parole dirette, scarne, semplici, ma dagli accostamenti che risuonano di un’eco profonda (“Corri da me che i pianeti si spostano / e prima o poi sposteranno anche noi”, “Corri da Me”; “Hanno chiesto di te le sedie, il tavolo, il divano / un soprammobile da poco ritrovato / era nascosto come me che ti aspettavo”, “Il Tuo Nome”). È un disco che miscela atmosfere, musica e testi imbevendoli di luce calda, e tutto sembra al suo posto, in un ordine naturale e quasi miracoloso – e che, a questo proposito, mi ricorda l’ultimo di Carmen Consoli, Elettra, anche se con altre sonorità, e un’altra poetica. Sonorità che qui vanno da un mood seventies posato e elegante (la title track) ad un Rock morbido e senza spigoli (“Il Senso delle Cose”), in un pastiche sonoro spesso incatalogabile, onnivoro, iridescente.
Cristina Donà ci racconta i ricordi dell’infanzia, l’amore per la propria terra, i bisogni e gli affetti, il desiderio anche fisico, il fascino dell’infinito e dell’imprevedibile, del sentirsi vivi e del dirsi vivi insieme, il tutto guardato dal basso, con gli occhi dei bambini, lo sguardo di chi si è appena svegliato, di chi vede le cose per la prima volta, o si ricorda di com’era scoprirle allora. Così Vicini ha il candore di una vita nuova, ed è piacevole lasciarcisi andare, lasciarsi sorprendere.
Valerio Piccolo – Poetry
Con un occhio sempre fisso al nuovo cantautorato Folk e Rock americano, Valerio Piccolo con il suo ultimo disco Poetry appare un prodotto quasi sui generis in Italia. Poesia sonora allo stato puro, sempre gradevole, anche se a tratti malinconica e triste, spesso divisa fra l’asse America / Italia, tanto da arrivare a scomodare una certa Suzanne Vega che ha detto di lui: “Mi piace molto il suo modo di scrivere canzoni. Ce n’è una che racconta di un clown imprigionato in un lavoro quotidiano ‘The clown Isstuckbetween The Desk And The Chair.’ Un’ottima opening line.” Non male come bigliettino da visita vero?
Se poi ci aggiungete che l’artista ha anche condiviso il palco con artisti famosi quali Massimo Roccaforte (chitarrista di Carmen Consoli e suo attuale produttore), Neri Marcorè e Paola Turci che collaborano anche al disco quale ospiti illustri il gioco è fatto. Poetry si compone di nove canzoni che nascono traducendo in suoni altrettante poesie americane attinte dal repertorio di scrittori quali i bestsellers Jonathan Lethem e Rick Moody, il romanziere e critico musicale della rivista New Yorker Ben Greenmane e poetesse quali Sarah Manguso e MeghanO’Rourke. Il tuttosenza mai trascurare l’aspetto musicale, fatto di arrangiamenti abbastanza complessi che però non sfociano mai in inutili virtuosismi che sarebbero forse persino fuori luogo in questo contesto. Se vi era capitato di ascoltare già i precedenti lavori Manhattan Sessions, con cui esordì nel lontano 2007, e Suono dell’aria, risalente al 2011, non griderete certo al miracolo, in quanto già in essi era evidente il talento di Valerio Piccolo, ma rimarrete comunque incantati dalle dolci melodie di canzoni come “Pioggia di Stelle” e “Il Barman all’Inferno”. L’album è stato lanciato dal singolo “Ordine” e dal suo relativo videoclip che ha visto impegnati alla regia Francesca Zanni ed in veste di attori Jacopo Olmo Antinori, Maya Camerini, Arcangelo Jannace, Ignazio Oliva, Antonella Attili, Orlando Camerini e Lucia Ocone.
La dolcezza del suono della chitarra, l’armonia dei brani musicali, insieme ad una elevata padronanza tecnica contribuiscono alla ricerca di un ascolto rilassante.
Idhea – No Chains
Idhea è una cantante ligure e No Chains il suo ultimo disco, presentato come melodie accattivanti, arrangiamenti taglienti, un viaggio tra il pop d’autore, la ricerca, la sperimentazione e il rock. Ora, è un mestiere anche quello di abbellire in ogni modo possibile un disco in sede di presentazione, però dai, un limite mettiamolo. La sottile linea tra il make up e la chirurgia plastica. No Chains (non ha senso girarci attorno) è un disco brutto. Esplicitiamoci meglio: è un disco immerso in un immaginario (sonoro e non) che è vecchio, stantio, odorante morte e putrefazione. Si dirà: è lo stesso immaginario che vive ogni giorno in molte delle nostre radio, delle nostre televisioni. È l’immaginario che vince sul mercato. Verissimo. Idhea e i suoi collaboratori, su questo, possono stare tranquilli: la mia profonda e insindacabile stroncatura non avrà nessun seguito sulla carriera di questa bella ragazza a cui piace cantare, con una voce molto particolare (bassa, piena), le sue canzoni Pop / finto Rock. Ma un disco così è un disco inutile, e, in quanto tale, dannoso.
Le canzoni sono trasparenti, le solite tre cose che sentiamo ovunque. Il Pop d’autore lo si cerca dalla coffa, sperando che spunti nella nebbia per gridare con sollievo “Terra!!!”, ma non accade. La ricerca e la sperimentazione, per favore, lasciamole a chi si fa il culo per uscire dal seminato dopo 60 anni e più di musica leggera (non basta un synth buttato dentro a caso). E il Rock… se Rock vuol dire una batteria in 4/4, qualche chitarra elettrica e due assoli, allora Sanremo è Woodstock e il mondo non ha più senso. E anche ad inserire questo disco nel filone del Pop italico mainstream, si fa fatica a dargli la sufficienza. Le melodie non sono poi così accattivanti come ci si vuole far credere, e la produzione, sebbene di livello, non è nello standard radiofonico che possiamo raggiungere oggi (alcuni suoni sono pugni nelle orecchie, e non riesco a farmi piacere questa voce maschile che si appoggia in ogni ritornello sulla voce principale: distrae troppo, manco fossero tutti duetti). E anche quando si tenta di fare di più, si toccano degli attimi di involontaria ilarità: sentire “No Chains” che cita “La Bamba” e “l’hit single” “Non è possibile” dove ad un certo punto si cerca il semi-Rap parlato con risultati purtroppo pessimi. Un disco da cui girare alla larga se appena appena capite la differenza tra Cristina Donà e Laura Pausini, tra Carmen Consoli e Emma Marrone. Fate voi.