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Shame – Entropia
Le mie ultime recensioni del 2014 sono state particolarmente positive. Non che sia una che aspetta l’album di merda per poter fare facile ironia e fare una recensione in cui non faccio altro che sottolineare di avere tra le mani un album di merda. Diciamo però che, nel tempo, sono riuscita a farmi una certa fama di boia col sorrisetto sardonico e il caso mi aveva probabilmente aiutato ad alimentare il tutto. Così mi aspettavo che il 2015 invertisse di nuovo la tendenza e ripristinasse i ruoli: album di merda, recensioni da stronza. E invece no. A parte che mi sono immediatamente gasata a leggere nell’interno del cd che gli Shame hanno una batterista donna che fa pure i cori, ma alle prime note di “Falling Through”, traccia di apertura di Entropia, ho capito che il terzetto ha mangiato pane e Grunge, come la sottoscritta, e manco poco. Cinque minuti di atmosfere alla Alice in Chains e cantato sofferente alla Cobain. Sonorità un po’ più 2000 lasciano momentaneamente il Seattle-sound in “The Burning Flag II”, ma la sensazione dura ben poco: “Totally Soulless” è Nirvana alla stato puro. Certo, all’arrivo di “A New Breeze” viene da chiedersi perché non ascoltare gli originali e farla finita qui: il vocalist Andrea Paglione è veramente copia spiccicata di Cobain, con qualche inflessione vaghissima alla Chris Cornell, ma insomma, è un po’ troppo. La tecnica di tutti e tre è ineccepibile, ma – e succede spesso – manca una nota personale. Difficile, in fondo, rimaneggiare un genere come il Grunge che ha caratteristiche peculiari e tratti distintivi che sono stati portati all’eccellenza da quattro-cinque gruppi in croce e che si è bruciato in un tempo limitato. Molto difficile. Pregevole, per esempio, l’idea dell’accellerata in “Ricochet”, anche se è troppo irregolare, abbastanza da sembrare un errore. Non fosse per le back voices della batterista Veronica Basaglia, che in questa traccia si dimostra per altro bravissima, “Apocalypto” potrebbe essere uscita da Jar of Flies degli Alice in Chains. Resto ad ascoltarli ugualmente, anche se ormai l’antifona è piuttosto chiara: ottimi musicisti, purtroppo poco personali. “Like Cain” è una ballata cupa praticamente filologica, che lascia spazio alla (pre)potente “Coming Back (Extasia)”. E scusate se insisto, ma l’intro di “The Dissolving Room”e di “Rolling” a me hanno ricordato le atmosfere di “Would”. Altro che anni ’80, come cantava Agnelli, qui non si esce vivi dai 90s’. E meno male, che poi arriva l’Indie e dio ce ne scampi.
Si delinea il tour europeo dei Soundgarden
Parte a settembre il fittissimo tour europeo della band di Seattle. Cornell e soci saranno in Europa per deliziare i loro fans d’oltreoceano con una lunga serie di appuntamenti serrati. Purtroppo al momento il calendario non prevede nessuna tappa italiana per i Soundgarden.
4/9 – Helsinki, Hartwall Areena
6/9 – Stoccolma, Hovet
7/9 – Oslo, Oslo Spektrum
9/9 . Copenhagen The Forum
10/9 – Berlin, Columbiahalle
11/9 – Amsterdam, Heineken Music Hall
13/9 – Manchester, Apollo
14/9 – Birmingham,Academy
16/9 – Dublin, O2
18/9 – London, Brixton Academy
Informazioni dettagliate sugli eventi e l’acquisto dei biglietti sono disponibili sulla Fan Page ufficiale della band su Facebook.
“Diamanti Vintage” Soundgarden Louder – Than Love
Certamente i Soundgarden di Chris Cornell hanno risentito molto delle influenze prima claustrofobiche dei Black Sabbath e poi delle convulsioni elaborate dei Led Zeppelin, lo si avverte in ogni interstizio delle loro composizioni, tra i riff granitici e la giugulare perennemente ingrossata nell’atto dell’urlo rock, e questo “sacrificale vezzo” non passa inosservato e “Louder Than Love” è il disco-passaporto che sdogana la band di Seattle dai circoli alternativi per includerla ed annoverarla nell’impero delle major.
E siamo solo al secondo disco per questa formazione seminale che, dall’interno di una nutrita compagine grunge, si distingue tra tutte per la sfrontatezza impenetrabile e per le sfuriate doommate che diverranno un loro indelebile marchio negli anni a venire; Chris Cornell alla voce, Kim Thayil chitarra, Hiro Yammamoto basso e Matt Cameron alla batteria sono un muro di suono dai colori neri, pieno di sensazioni notturne e maledizioni da interpretare, ma anche un feeling con una certa melodia che i nostri – nel loro passato recente – hanno sacrificato più volte sull’altare della velocità.
Il disco coniuga il disappunto del grunge con incisivi virtuosismi specie ne giri ricamati dal basso e da una chitarra formidabile, che giostra elettricità in maniera magistrale, profonda e mai vana, ottime le sparate filo-metal che infrangono “Get on the snake”, “Gun”, “Full on Kevin’s mum” inno questa allo speed-rock incontaminato e lo street-rock che fa capolino nella tramatura di “Big Dumb sex”; frammisto e sferzato questo lavoro discografico è un manifesto estremo di personalità e scoperte che “marchiano” in surplus la formazione americana, basta lasciarsi percorrere il sottopelle dai blues-doom mefistofelici di “Power trip” e “Uncovered” per essere complici di incursioni su terreni minati, dove un qualsiasi dio delle tenebre potrebbe fermarvi e chiedervi conto della vostra incolumità.
Seguiranno ulteriori album di carato, intanto sprofondiamo nell’inferno iniziale della maledizione grunge.