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Finley 16/05/2014
Iniziamo la nostra copertura del Theatre Quinto Festival, una rassegna che durerà fino a giugno e che vedrà susseguirsi sul palco del locale rozzanese gli act più diversi, dai Finley ad Andrea Nardinocchi, passando per i gli Yokoano, i Nadar Solo e Dargen D’Amico. La serata inaugurale è affidata ai Finley, band che non ha bisogno di troppe presentazioni: scoperti giovanissimi da un sempre vulcanico Claudio Cecchetto, i quattro inanellano successo dopo successo, diventando il paradigma della band gggiovane che “dice” di fare Punk Rock, e diventano presto una rodatissima macchina scalda-ragazzine, passando addirittura da Sanremo. Da qualche anno i Finley hanno aperto la loro etichetta, Gruppo Randa, senza che questo abbia portato ad un cambiamento nella loro proposta musicale. C’è sempre curiosità intorno a gruppi di questo tipo, che appaiono come strane entità create negli uffici di qualche etichetta, scoprendo il fianco a critiche preconcette e a idiosincrasie astratte. Abbiamo cercato perciò di vederli con i nostri occhi, per scoprire come vivono la dimensione del live, il rapporto con il pubblico, le loro canzoni.
Quando arrivo, davanti al Theatre la fila è ancora lunga. Mi dicono che le prime ragazzine si sono presentate all’entrata intorno a mezzogiorno. Si potrebbero fare succose elucubrazioni sull’aspetto socio-psicologico di un concerto dei Finley, ma per quelle vi rimando ad un precedente report… Nel locale sta già suonando il secondo gruppo d’apertura, i Made In Italy, Pop Rock ironico che critica in maniera sottile alcuni stilemi della musica per teenager (dal finto rap di certi pezzi dance alle mostruosità stile One Direction passando, per l’appunto, anche dagli stessi Finley, di cui eseguono una cover “autorizzata” dalla band stessa…). Finito il loro set parte un breve cambio palco e poi eccoli: Ka (chitarra), Dani (batteria) e Ivan (basso, nella band da qualche anno) salgono on stage mentre in sottofondo parte… l’Inno di Mameli. (Non guardate da questa parte, non ho idea del perché. Scelta terribile, comunque).
Passato il momento patriottico, arriva Pedro (voce). Giusto il tempo di tirare una sonora botta di microfono sulla paletta del basso e il concerto parte a bomba, a grappoli di tre/quattro canzoni eseguite spalla a spalla. La prima parte del live è adrenalinica e tesa (“Gruppo Randa”, “Fuego”, “Tutto è Possibile”): i quattro pestano duro, canzoni Rock lineari e senza troppe pretese ma energiche, soprattutto nelle ritmiche, dove si distingue la bravura tecnica del batterista Dani, capace di sostenere groove rapidi e infuocati, vera spina dorsale dello spettacolo Finley. Come sempre, il rapporto con i fan è centrale: molto più che in altri casi, il concerto è letteralmente fatto per loro. Non manca nessuna canzone delle più famose (ci sarebbero disordini e sommosse), e i ringraziamenti al pubblico sono ubiqui e continui: grazie a chi arriva da lontano, grazie a chi ci segue dagli inizi, grazie a chi ci supporta e ci permette di continuare a fare musica. Il concerto prosegue caldissimo, i pezzi lenti sono veramente pochi: ci si concentra sulla velocità, sulla melodia di ritornelli cantati in coro a squarciagola (“Un’Altra Come Te”, “Adrenalina”, il richiamo al ritornello di “Dentro alla Scatola”). I pezzi sono tutti classici del loro repertorio: testi banali fatti per essere imparati a memoria e cantati a pappagallo, alcuni con prese di posizione apparentemente forti ma basate sul niente, come “La Mia Generazione”, che fa tanto effetto fiction di Rai2. Mi accorgo peraltro che alcuni momenti del live sono estremamente preparati: la presentazione in medias res de “La Mia Generazione” è la stessa identica che fecero l’anno scorso quando li vidi la prima volta, e anche l’introduzione di “I Fought the Law” dei Clash rimane uguale, come uguale rimane l’idea di far salire Roberto Broggi ad accompagnare il brano con il violino, promuovendo l’operazione benefica Punk Goes Acoustic ideata da Andrea Rock, che verso la fine del concerto verrà ospitato dalla band per qualche brano, tra cui una “Blitzkrieg Bop” abbastanza spompa. Ma prima il live fa in tempo a rallentare un po’, mentre i Finley si danno a “Ricordi”, loro brano sanremese che si porta dietro tutti i cliché del caso. La gente inizia piano piano ad uscire, il concerto si sta allungando (non credete chissà che, avranno superato a malapena l’ora, a questo punto: ma non stiamo parlando di Springsteen, stiamo parlando dei Finley).
Dopo il già citato passaggio sul palco di Andrea Rock, la band ci abbandona per qualche minuto, dando il tempo al pubblico di intonare “Diventerai una Star”, il loro pezzo più famoso. Scatta quindi l’encore, con partenza acustica e pianti tra il pubblico (giuro) per “Fumo e Cenere”, seguita a ruota dall’ultimo brano, “dedicato a chi pensa che abbiamo fatto solo questa”, ovviamente, “Diventerai una Star”, cantata da tutto il pubblico con una sola voce. Applausi, saluti, inchini. I Finley mi confermano così tutte le impressioni che già avevo avuto l’ultima volta, un anno fa: una band tecnicamente mediocre (a parte forse Dani, il batterista), sicuramente professionale e capace di gestire in modo sufficiente un palco e una platea di questo tipo, dando al pubblico tutto ciò che vuole e facendo più spettacolo che musica. Le loro canzoni sono banali, vuote di senso, niente più che materia vendibile, e infatti funzionano benissimo nelle pubblicità, a Sanremo, e con le ragazzine (ma non solo: si segnalano anche quarantenni ballerine e più-che-ventenni ubriache e scatenatissime, oltre a parecchi individui di sesso maschile, anch’essi esaltati). È musica da vendere fatta da un gruppo costantemente in vendita, e che, purtroppo, la gente non smette di comprare. Una volta accettato questo, il live assume le caratteristiche di un evento eseguito con professionalità e mestiere. Ma la passione e l’arte stanno tutte da un’altra parte.
Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Settanta
Nella mente di ogni buon italiano medio, poveretto, gli anni 70 sono stati quelli che per i paesi occidentali anglosassoni erano i sessanta. Si sa che da noi le mode, le tendenze e gli stili musicali sono inclini ad attecchire con un certo ritardo e figuriamoci cosa poteva essere avere vent’anni nel decennio di cui stiamo parlando. Poca la stampa italiana che chiacchierava decentemente di musica estera. Non c’erano certo canali televisivi come Mtv (quella degli esordi, intendo) e, ovviamente, non c’era Internet. C’era solo da sperare in qualche perla regalata dal cinema e dalle sue colonne sonore, dalla radio, oppure aspettare che il fratello maggiore emigrato qualche anno prima facesse ritorno con un disco sconvolgente.
Gran parte delle cose straordinarie accadute in musica nei 70 finirono quindi per entrare nell’immaginario collettivo degli italiani solo qualche anno dopo. Pensate ai Beatles, ai Led Zeppelin oppure a Hendrix o Janis Joplin (entrambi morti nel 1970, mentre Jim Morrison morirà l’anno seguente).
Sarà il tempo a restituirci una straordinaria foto dei seventies, gli anni delle sit-com, del Pop e del Rhythm & Blues, della Disco-Music e delle discoteche, dell’Elettronica e del Punk. Dei polizziotteschi e della commedia sexy; de Lo Squalo, Rocky e Il Padrino. Anni fantastici, pur nelle sue ambiguità,per chi li ha vissuti e malinconici per chi ne ha solo subito il colpo di coda, come me del resto.
Di seguito la classifica stilata dalla redazione di Rockambula dei migliori album dal 1970 al 1979. Grande assente la Disco Music e l’Elettronica, presente con i Kraftwerk ma ben oltre la decima posizione e un primo posto che conferma una certa ruvidezza di gusti da parte nostra, già mostrata nella classifica dei sixties.
1) The Clash – London Calling
2) Pink Floyd – The Dark Side of the Moon
3) David Bowie – The Rise And Fall of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars
4) Black Sabbath – Paranoid
5) Sex Pistols – Never Mind The Bollocks Here’s The Sex Pistols
6) Joy Division – Unknown Pleasures
7) Bob Marley – Exodus
8) The Rolling Stones – Sticky Fingers
9) Queen – A Night at The Opera
10) Television – Marquee Moon
Finley
Mentre entro al LiveForum di Assago, dove a breve saliranno sul palco i Finley per il FUOCO E FIAMME TOUR 2013, penso che io, di loro, non so proprio nulla. Come tutti, mi è capitato di ascoltare qualche loro singolo dei tempi che furono, ma adesso che hanno abbandonato la EMI per fondare la loro etichetta Gruppo Randa sono curioso di vedere se e come sono cambiati. In ogni caso, questa mia ammessa ignoranza mi permetterà di vivere il concerto da un punto di vista assolutamente neutrale, che con band del genere è già un grande risultato.
Una volta dentro, mentre la band punk-rock romana The Anthem finisce di scaldare gli animi, la prima cosa che mi balza all’occhio è la multiforme umanità che riempie il locale. Il mistero statistico che mi perseguita in queste ore non è tanto quali strati sociali abbiano votato o meno il M5S, o quante probabilità ci siano che il prossimo Papa sia nero, ma più che altro come si sia riuscito a comporre questo miscuglio di gente varia al concerto dei Finley. Mi aspettavo più che altro ragazzine e ragazzini, o magari qualche ventenne a cui i quattro di Legnano hanno suonato la colonna sonora dell’ingresso nella pubertà. Ok, i cinquantenni saranno accompagnatori/genitori, ma quella coppia di trentenni tatuati coi vestiti firmati? L’hipster con gli occhiali giganti? Cosa ci fanno qua? Mistero.
Intanto, The Anthem finisce il suo set di musica innocua e cover di Bruno Mars, e l’aria si fa più pesante. Ed ecco che dopo una pausa di un venti minuti buoni salgono sul palco i Finley: boy-rock-band prodigioprodotta, ai tempi, da Claudio Cecchetto, vincitrice di ben due Best Italian Act agli Mtv Europe Music Awards, con alle spalle partecipazioni a Sanremo, dischi di platino, eccetera.
Esordiscono con un simpatico “lasciatemelo dire, gente… Minchia!”, anche se in realtà il pubblico non è così numeroso (sarà nell’ordine delle trecento persone – e io che pensavo che i Finley potessero riempire quantomeno, chessò, l’Alcatraz). Le prime canzoni passano senza lasciare troppo il segno, prese in egual misura dai vecchi dischi e dall’ultimo Fuoco e Fiamme. È un rock abbastanza banale, morbido, inerme, musicalmente distante dal mondo punk-rock o pop-punk al quale, non conoscendoli, mi aspettavo di collegarli. A livello lirico, le banalità aumentano: tra i primi pezzi, “La Mia Generazione”viene presentata come un inno alla partecipazione (politica, immagino). Pedro ci informa che “hanno sempre detto che noi giovani siamo un problema, quando invece siamo una risorsa”, mentre in realtà nessuno s’è mai sognato di dire una cosa del genere (per quanto i fatti poi smentiscano tutte le belle parole). Sa tanto di operazione paracula, ma inizio a pensare che in questo tipo di ambiente ci sguazzino un po’ tutti, nella paraculaggine.
Mentre ci presentano il nuovo bassista Ivan (il vecchio, Ste, ha lasciato la band da qualche tempo), ci informano anche dell’uscita di un disco-raccolta, Sempre solo noi, che riepiloga i dieci anni di vita della band. Una band che, sinceramente, mi aspettavo più battagliera, più tecnica, più frizzante. Tolta la bravura indubbia del batterista Dani, e qualche uso intelligente della chitarra da parte di Ka, il resto non è di certo al livello che mi aspettavo per una band di questa portata. Forse in Italia, per fare successo, davvero basta un calcio in culo.
Pedro inizia a sbarellare su “Le Mie Cattive Abitudini”: la voce non risponde come dovrebbe, e le vocali finali iniziano a calare inesorabilmente. Brutti scherzi della stanchezza. Parte poi un medley di loro vecchi pezzi, tra cui la versione crossover di Dentro alla scatola, cover del successo d’esordio di Mondo Marcio, con il quale si erano gettati in questo featuring “all’americana”. Segue momento di vuoto e breve pausa, in cui tutti scendono dal palco tranne Dani, che si lancia in un divertissement di batteria e basi, molto electro, dimostrandomi ancora, se non altro, di essere un musicista capace, alla bisogna, di non risparmiarsi.
Le basi rimangono spesso, sotto la botta live, a riempire il suono di una band comunque scarna (batteria, basso, chitarra). Così fanno anche in “Ad Occhi Chiusi”. C’è da dire che il LiveForum non rende proprio al 100% per quanto riguarda l’audio, che spesso è confuso, distante (ci si mettono pure le ragazzine, con i loro urletti striduli, a far diventare il tutto ancora più incasinato). Una fonte mi ha informato, tra l’altro, che i Finley, per questo live, non si sono portati dietro neanche un loro fonico personale (e la cosa ovviamente non aiuta).
Proseguendo, Pedro vuole ricordarci che, cinquant’anni fa, usciva il primo singolo di una band, “quattro, belli(sic), bravi, destinati a cambiare la storia del rock”. I quattro sono ovviamente i Beatles, e i Finley ci donano la loro personale interpretazione rock di “A Hard Day’s Night”. A seguire, un ringraziamento a Bennato per aver partecipato al loro ultimo disco in “Il Meglio Arriverà”, che prontamente eseguono, tra basi di armonica e mie definitive riflessioni sulla parabola discendente del rocker napoletano.
Mentre il concerto evolve, io continuo a guardarmi intorno. Davvero, la fauna presente mi sorprende e incuriosisce. Ragazzi più che ventenni, tatuati, con magliette dei Led Zeppelin, o di Jimi Hendrix, che ballano urlando. Io non capisco. Se sono venuti qua per scopare, non avranno vita facile: la maggioranza dell’ecosistema femminile della sala è gente che sembra uscita da una fiction della Rai degli anni ’90 sugli effetti devastanti dell’eroina nella provincia italiana. Mentre penso questo, mi passa accanto una stangona dal pantalone maculato, bionda, truccatissima, col pass al collo. Ecco, penso, ribaltando il ragionamento: se i Finley, facendo tutto questo, non riescono nemmeno a scopare, sono, senza appello, dei veri loser.
Tornando alla musica: i quattro si buttano su “Bonnie E Clyde”, e quando terminano, col fiatone, ci informano di essere stanchi: “dovremmo iniziare a drogarci, ma le droghe non ci interessano”… Ciononostante attaccano con “Fantasmi”, “l’ultima!”: ovviamente no. Dopo la pausa (riempita dai cori del pubblico che intona “Diventerai Una Star” a cappella), ecco l’encore: in versione acustica, con ospite il violinista Roberto Broggi, introducono la loro entry per la compilation benefica di Punk Goes Acustic (“un gruppo di oltre 30 musicisti emergenti italiani uniti dalla passione per il genere punk”), una versione quasi-folk di “I Fought The Law”dei Clash (non male, per niente, anche se Pedro e l’inglese non paiono andare molto d’accordo…).
Il resto del concerto è già scritto: mancano quelle tre/quattro canzoni fondamentali (questo, almeno, è quello che mi dice gente più informata di me). Ecco infatti che parte Adrenalina, con relativo pogo (giuro!) di qualche tipa sovrappeso che rischia, nonostante il mio quasi metro e novanta, di sdraiarmi a terra come sogliola nel mar. (Che se questo è pogo, ai concerti dei Sick of it All è guerriglia urbana). Fumo e Cenere calma gli animi: tutti si fermano per cantarla. Un brano morbido, italiano (come direbbe Stanis LaRochelle), azzeccatissimo come penultimo della scaletta.
Infine, ecco scattare “Diventerai Una Star”: ed è subito adolescenza condivisa. Che poi la domanda che mi faccio è: cosa dice una canzone del genere al pubblico dei Finley? Dove scatta la mimesi? Cosa ci trovano, di loro, in quella canzone, che alla fine parla di una band che vuole fare successo? Posso capire che possa raccontarti qualcosa se fai (o provi a fare) il musicista. Ma per tutti gli altri, che senso ha cantare a squarciagola “diventerai una star / una celebrità…”? Un altro mistero che si aggiunge ai tanti che mi infesteranno la mente stanotte.
Chiudendo il concerto con un ennesimo “Raga, è stato fantastico” (segnare: firmare proposta popolare di legge sul divieto dell’uso pubblico del termine “raga”), seguito da “siete voi che supportate questo progetto indipendente, che ci fate sopravvivere, giorno per giorno”, i Finley mi lasciano una sensazione strana addosso.
Crederci o vendersi? I Finley ci credono, nella loro infinità banalità, o è più un “teniamo famiglia”, un “si deve pur vivere”, che, intendiamoci, in un mondo in cui la musica è mercato, è totalmente e senza dubbio legittimo? Non so cosa sarebbe peggio, nella mia Weltanschauung in cui la musica è, oltre che un mercato, anche un qualcosa di morale, qualcosa che mette in ballo le profondità – abissali – delle persone (e vale anche per il pezzo più pop e meno “impegnato”, se fatto bene).
La cosa peggiore non è tanto responsabilità della band, che fa il suo mestiere tutto sommato bene, suonando ciò che vuole (per un motivo o per un altro). La cosa peggiore è la gente che, per mancanza di strumenti intellettuali, o, peggio, per scelta, sceglie di annullarsi, di appiattirsi, a mani alzate sotto un palco. È questo morbo della facilità, per cui se i Finley ti dicono che in Italia i giovani sono considerati un problema tu applaudi e urli, ma in realtà non ti rendi conto che, detta così, è un’immane cazzata, e soprattutto non ti stai confrontando con l’aspetto reale del tema che quelle parole (in modo pessimo) suggeriscono. E badate bene che non è tanto questione di Finley, ma vale anche per altre situazioni di fanatismo (mai stati ad un concerto milanese dei Ministri? Con la sola attenuante che, se ti sei convinto, criticamente, che ciò che dicono sia giusto, almeno è l’idea a convincerti, e non una maschera, un trucco, una finzione: non è solo il potere del palco, quel meccanismo per cui un concerto è, ricordiamolo, una comunicazione a senso unico, dove il pubblico è, sempre e comunque, passivo).
Mentre torno a casa ho una visione: la mia coscienza politica che si palesa in un fantasma, uno strano incrocio tra Antonio Gramsci e Obi-Wan Kenobi. Mi dice: “la dittatura è nei gesti. L’Impero è un concerto dei Finley”. Io lo guardo, sconsolato, e scuoto la testa. È da quando esiste il rock’n’roll che esiste il fanatismo, l’idolatria, lo strapparsi i capelli, il dio-mio-quanto-so’-fichi. Anzi, che dico? Da quando esiste l’Uomo, da quando il nostro antenato nudo e peloso si è alzato sul monolite per agitare la sua accetta di selce e, così, eccitare la tribù prima della caccia. Ad ogni modo, non è certo mia intenzione farmi additare come un Mosè che scende la montagna e distrugge il vitello d’oro (già li vedo, i fan dei Finley – i fanley? – che pensano “ma che cazzo vuole ‘sto qua?” – niente, ragazzi, si fa per dire). Sto tranquillo: so già che domani mi sveglierò e questa strana sensazione sarà svanita. D’altronde, come mi ha detto un amico, “ti fai troppe seghe mentali, sono i Finley, fanno le canzoni alla LEGO…” – e no, non riesco a dargli torto.