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3 Fingers Guitar
3 Fingers Guitar è un cantautore Post Punk, un animale elettrico, una “quasi” one man band. Chi è Simone Perna, quanto c’è di lui in 3FG, e come è arrivato a fare questo disco, Rinuncia all’Eredità?
Fare questo disco è stata una necessità. Più che in altre occasioni. Ho dovuto farlo per liberarmi da cose rimaste in cassetti chiusi per molto tempo ma che continuavano a riproporsi comunque davanti ai miei occhi. Quindi sì. In 3 Fingers Guitar c’è molto di me.
La scelta di suonare quasi tutto da solo è nata da una necessità o è una precisa scelta artistica? Doversi bastare è più facile o più difficile rispetto alla vita (sul palco e in studio) con una band?
Direi una necessità pratica che è diventata una scelta artistica di conseguenza. Una situazione del genere ti dà sicuramente autonomia e questo è un vantaggio. Per fortuna non vedo grandi svantaggi, è una condizione che ho scelto abbastanza conscio di tutto quello che comporta. Alla fine si riduce tutto alla motivazione che ti muove a fare le cose.
È difficile inquadrare la musica che fai. In Rinuncia all’Eredità” c’è del cantautorato, come dicevamo, insieme ad un’urgenza che sta a metà tra Punk e Blues. Ci sono attimi intensi, graffianti, ma anche panorami quasi sospesi, ossessivi. La pasta sonora dei tuoi pezzi, l’ambiente in cui li immergi, i vestiti che cuci loro addosso, sono frutto di un calcolo o di un lanciarsi a capofitto nell’improvvisazione più pungente?
Quasi tutti i pezzi sono nati da scampoli, piccole idee, riffs minimali di chitarra o loops ritmici ripetitivi. Quindi di lì l’improvvisazione certo, lo sviluppo di strati sonori istintivi, nati sul momento, a servizio di strutture a volte nate spontaneamente e altre volte invece meditate a lungo. Diciamo che entrambe le cose a cui ti riferisci coesistono.
Parliamo del disco. Qual è il brano “centrale”, quello a cui faresti riassumere la narrazione dell’intero album? E invece quello più ai margini?
Il brano centrale è sicuramente la title-track. Lo snodo narrativo del concept è lì. Un padre sul letto di morte, un figlio che lo ritrova lì, dopo anni di assenze reciproche e rancori. Un confronto cruciale di esistenze riflesse. Non so individuare quello più ai margini, hanno tutti, chi più o chi meno, a che fare con lo stesso tema e sono legati tra di loro.
La scelta di farlo in italiano, dopo i primi lavori scritti in inglese, da cosa è dipesa?
Dal fatto che in primis l’inglese non è la mia lingua madre. Per un po’ il gioco ha retto ma quando il problema si è posto in termini di autenticità espressiva ho rivisto le mie posizioni nei confronti dell’italiano. Perché apparentemente l’inglese è una lingua più musicale, più semplice da trattare in termini di rime e assonanze all’interno di un testo musicato. Quando però mi sono ritrovato a cantare su un palco un pezzo in inglese rendendomi conto di non essere convinto appieno del senso sia grammaticale che strettamente comunicativo di ciò che stavo dicendo, mi sono reso conto che era il momento di cambiare. Quello che volevo far arrivare al pubblico in quel momento non ero in grado di farlo uscire appieno.
Chi è il padre, e cosa ha lasciato in eredità? E perché, soprattutto, ci si sottrae a questo lascito?
Il padre e un’allegoria. Rappresenta il passato. Un passato fatto di traumi che non riusciamo a risolvere e che condizionano il nostro presente. Mi spiego meglio: in generale nella nostra vita e nei nostri rapporti umani inseriti nella società in cui viviamo ci può capitare di avere a che fare con cose non particolarmente piacevoli. Cose che ci segnano, che ci fanno star male e che ci portiamo dentro. La cosa terribile che ho constatato a volte in me e negli altri è questo sentirsi inconsciamente autorizzati a far star male altre persone sulla base di ciò che abbiamo subito noi in precedenza. Un modo per liberarsi dei propri traumi che in realtà non fa altro che generare altro dolore e alimentare sensi di colpa. Una cosa tremendamente autocompiaciuta e che a volte serve a giustificare la parte peggiore di noi.
Perché il codice morse nel booklet? Un divertissement casuale o una precisa aggiunta a posteriori?
Il codice morse è stata un’idea di Cinzia La Fauci di Snowdonia Dischi che ha curato con estrema attenzione la parte grafica. Una scelta estetica minimale che mi ha convinto subito. Ma è soprattutto un modo per comunicare alcuni sottotesti dell’album. Sta alla pazienza e alla voglia di chi si appassiona all’ascolto del disco decifrarli.
Sono affascinato da questo modo di saper intendere il cantautorato in modo anche molto diverso da quello che anni di De André, De Gregori, Guccini ci hanno fatto sedimentare nelle orecchie: anche oggi i loro epigoni imperano, col risultato, spesso, di rallentare le possibili evoluzioni della cosiddetta “canzone d’autore”. So che tu, invece, ti ispiri ad altre realtà: Claudio Rocchi, Fausto Rossi… cosa pensi di aver inserito nelle tue canzoni che si ispira a questi “grandi outsider”?
E’difficile parlare di ispirazione per me. Nei confronti di ciò che ascolto e che mi appassiona mi vedo come una specie di spugna che assorbe cose anche diversissime tra loro. Nel caso dei cantautori italiani a cui ti riferisci, nelle Border Nerves Sessions (4 video-cover rispettivamente di Juri Camisasca, Fausto Rossi, Federico Fiumani e Claudio Rocchi) ho voluto rendere omaggio ad autori che amo e che hanno un approccio alla canzone in cui mi ritrovo. Viscerali, istintivi, a volte grezzi nella forma ma sempre molto personali. Attenzione però. Si può essere epigoni di chiunque. Il punto per me è assorbire il più possibile dalle cose che mi coinvolgono e mi colpiscono (quindi certamente anche De Andrè, De Gregori..) e cercare poi di dare una forma che mi convinca a quello che faccio.
Un altro cantautore sui generis che è uscito da poco col disco nuovo è Vasco Brondi (Le Luci della Centrale Elettrica). È evidente che per tanti motivi i vostri dischi siano distanti anni luce, ma io ho trovato anche qualcosa che forse li lega: il tentativo di sposare l’idea di “cantautore” con questa urgenza Post Punk (nel tuo disco è ovunque, in quello di Vasco affiora qua e là, nei suoni, nelle strutture dei brani) che, in qualche modo, tenta uno sradicamento dei cliché che la canzone italiana si porta dietro anche nei suoi lati più “indipendenti”. Questa Rinuncia all’Eredità la possiamo intendere anche in un senso “meta”? Ignorare, o meglio ancora, spezzare i topoi che ci precedono e creare qualcosa di veramente nostro, anche assumendoci la responsabilità degli errori e delle difficoltà di comunicazione che, inevitabilmente, ci troveremo ad affrontare? In altre parole: c’è nella tua musica il tentativo cosciente di renderla “nuova” e quindi, in qualche misura, “difficile”?
Se da ascoltatore hai individuato nel mio disco una proposta nuova e personale la cosa non può far altro che farmi un grande piacere e ti ringrazio davvero tanto. Da parte mia però, non riuscirei mai a partire da delle premesse programmatiche nella mia musica. Mettersi lì e dire: “Oh! adesso diamo una bella scrollata a questo cantautorato italiano e facciamo un bel disco innovativo e difficile!” non è proprio da me; la vedo come una cosa un po’ rischiosa che potrebbe condizionare la creatività in fase di realizzazione dei pezzi.
Torniamo a domande più leggere. Come porterai in giro il disco dal vivo? Sarai da solo o ti farai accompagnare da qualcuno?
Sia in duo, con in più la batteria di Simone Brunzu (che suona sull’album) sia da solo. Cerco di adattarmi a seconda delle situazioni.
Dopo Rinuncia all’Eredità cosa farai? Hai altri progetti in corso? Novità di cui ci vuoi parlare?
Ho già qualche pezzo pronto e parecchie idee a cui dare una forma più definita. Ma per il momento mi sto concentrando sul disco appena uscito e a portarlo in giro coi live.
Grazie per la chiacchierata, alla prossima!
Grazie a te per le domande Lorenzo, a presto!
Terje Nordgarden – Dieci
Terje Nordgarden viene dalla Norvegia ma vive e suona in Italia da ormai parecchi anni. Innamorato del Folk e del Blues americani, di Dylan, Springsteen, Drake, Elliott Smith, si è integrato nella fertile scena indipendente italiana e con questo suo ultimo Dieci rende omaggio alla sua famiglia adottiva reinterpretando e riarrangiando, per l’appunto, dieci brani di artisti nostrani (Cristina Donà, Paolo Benvegnù, Marta Sui Tubi, Marco Parente, Iacampo, Cesare Basile… ma anche Claudio Rocchi e Grazia di Michele).
Il risultato è un disco lunare e dolcissimo, rarefatto ma intenso allo stesso tempo. Chitarre dalle distorsioni calde, arpeggi cristallini, ritmiche lineari e soundscape vibranti e infeltriti, un maglione Folk/Blues elettrico in cui raggomitolarsi: sopra tutto questo, una voce morbida, che fa sue canzoni altrui con naturalezza. L’accento straniero di Nordgarden aggiunge anche un taglio retrò all’operazione: ci porta alla mente gli anni 60, il Beat, gli inglesi che venivano in Italia a cantare (in italiano) canzoni (italiane). I brani, cover di artisti (chi più chi meno) affermati ma quasi tutti provenienti dalla scena indipendente, sono canzoni belle ma non famosissime, e questo contribuisce a rendere questo disco di cover un prodotto molto particolare e sui generis.
Alcune canzoni sono particolarmente riuscite (“Non È la California”, “Invisibile”, “Cerchi sull’Acqua”), altre un po’ meno (“La Realtà Non Esiste”), ma Dieci rimane un disco assai godibile e Terje Nordgarden un artista da tenere d’occhio.