Durissimo, in quello spicchio di tempo, contendere una benchè minima visibilità o un quadrato di stage all’ombra di uno strano “dirigibile” di nome Led Zeppelin che si apprestava ad imbambolare l’America. Fortuitamente però nel 1969 si esibirono al festival pop di Atlanta davanti a 200.000 persone e finalmente il loro combustibile – fatto di volumi al massimo sporchi di hard-rock, soul e blues – s’incendiò di meritato interesse. Il trio del Michigan dei Grand Funk Railroad (Mark Farner chitarra, Don Brewer batteria e Terry Knight al basso, che poco dopo lasciò la formazione per diventarne manager, favorendo l’entrata a Mel Schacher), sulla scia dell’inaspettato successo incide il primo album “On Time” dove una “Heartbreaker” diventerà vangelo per moltitudini di bassisti. Ma è nello stesso anno – con il secondo “Closer to home” – che la scuola GFR si conferma come punto di riferimento basilare dell’hard-rock mondiale. Monster Magnet docet. L’Lp è un’indisciplinata regolazione di riff, assoli, deflagrazioni e ballad ricercatissimi, un rullo compressore che schiaccia e carezza simultaneamente gli impianti stereo comperati a rate; il calibro vocale di Farner “colloquia” in ottave roche e rabbiose con la sezione ritmica a maglio di Brewer e con il pump delle quattro corde di Schacher, creando un ritmo irrefrenabile, impattando Southernità e tendenze soul-blues importantissime nell’innesto e fusione di stilemi “nuovo corso” che la band imbastisce in ricami sorprendenti. “Sin’s a good man’s brother, Aimless lady e Nothing is the same” introducono alla potenza caratteriale del registrato, mostrando i muscoli corporali e d’intento protesi a svegliare l’ascolto dalle “eventuali distrazioni” che in quel periodo portavano ancora nei bagnasciuga della San Francisco Flower. La ballata sentimentale arriva con “Mean mistreater”, mentre con “Get it together e I don’t have to sing the blues” prende il sopravvento il rock-soul funkeggiante, spumoso e hook che fa “worm up” per le tracce finali di questo stupendo incunabolo discografico. Non particolarmente amati dalla maggior parte dei puristi musicologi di allora, i Grand Funk Railroad conquistano le nuove generazioni che vedono in questa orgia di sonorità calde-elettriche un power-trio di riscatto, di orgoglio “nazionale”, una guida “ruvida e ribelle” a stelle e strisce, e che in “Hooked on love e I’am you captain” trovano il loro inno da gridare. Seguiranno altre produzioni di successo: “Live album, Survival, il premiatissimo E Pluribus Funk” ma poi la vena pian piano si asciuga a favore di una commercialità vuota e da classifica, fino a diventare da cult band che era a mera “dollars machine” contesa tra Wal-Mart e la gadgettistica da Starbucks. Alla fine l’oblio e il declino totale. Closer To Home è uno spregiudicato vinile che ha stigmatizzato – come si dice nella filosofia attuale – l’ingranaggio dell’era dei distorsori del rock duro, hard.