Cloud Nothings Tag Archive

Bienvenidxs al Canela Party 2024!

Written by Live Report

Un resoconto, a tratti inevitabilmente sentimentale, di quattro gioiose giornate di musica dal vivo.
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Didn’t we deserve a look at you the way you really are, Steve?

Written by Articoli

Abbiamo provato ad esorcizzare il dolore per la scomparsa di Steve Albini parlando di ciò che più conta: il suo lascito a tutti noi, in veste di musicista, produttore e – involontario – intellettuale dei nostri tempi.
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Cloud Nothings – Final Summer

Written by Recensioni

Cambiare tutto per non cambiare nulla: un nuovo disco che è una catarsi con l’acceleratore sempre premuto.
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Sono i Metz i secondi headliner del Lars Rock Fest 2019

Written by Eventi

Il power trio canadese sarà in Toscana il 5 luglio per un’unica data italiana.
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Lars Rock Fest 2019, i Cloud Nothings sono i primi headliner

Written by Eventi

L’appuntamento è a Chiusi Scalo (SI) dal 5 al 7 Luglio 2019, come sempre ad ingresso libero
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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #22.10.2018

Written by Playlist

Cloud Nothings – Life Without Sound

Written by Recensioni

Motherfucker – Confetti

Written by Recensioni

La vera dichiarazione d’intenti di questo nuovo album della band ateniese Motherfucker è racchiusa nell’immagine di copertina, in cui, disteso sopra un freddo parquet, giace un braccio inerme, ricoperto di sangue, coriandoli e brillantini superstiti di una festa e un tatuaggio che recita don’t quit, non smettere. Se il messaggio concettuale nascosto in questa visione può essere interpretato sotto diversi punti di vista e lasciamo a voi scegliere la strada dell’ironia e sarcasmo dello show must go on o quella di una rabbiosa lotta alla rassegnazione, da un punto di vista stilistico tutto è più chiaro. In Confetti, come nella sua cover, si miscelano colori e note che potremmo definire speranzose ma anche il suo contrario. Dunque, una certa violenza sonora è squarciata da una continua ricerca melodica, la voce meccanica e fredda danza con ritmiche che martellano cercando di non fracassare nulla. Il sound nel suo insieme è insipido, con una registrazione non sappiamo quanto volutamente grezza. Rinuncia a ogni sorta di sperimentazione, mette da parte il possibile lato Psych Rock facendo scivolare la sezione ritmica dietro la voce e punta dritto alla creazione di brani che possano suonare tanto crudi quanto digeribili. Con lo sguardo rivolto agli anni 90 del nord est statunitense, i Motherfucker provano a tracciare lo stesso solco di band come Cloud Nothings o Japandroids capaci di miscelare, con ottimi risultati, Noise e Pop ma qui, non solo è diverso il punto di partenza che è piuttosto da fissare nel Post Hardcore classico albiniano, ma anche il risultato è ben lontano da ciò che ci si sarebbe aspettati. Il grosso limite di Confetti non è nell’evidenza di queste intenzioni, ma piuttosto nel non essere riusciti a chiudere un cerchio che potenzialmente poteva avere un senso. Portare un genere tanto brusco e violento come quello degli Shellac a un pubblico magari meno propeso a certe ruvidezze, sarebbe stata una buona scelta ma quelli che dovevano essere i punti chiave, quindi ganci, melodie, vocalità, ritornelli e riff alla fine suonano come tentativi malriusciti di ottenere qualcosa di esclusivo. Quando Erika Rickson (drums), Erica Strout (guitar) e Mandy Branch (bass) pestano i piedi sull’acceleratore o creano strutture strumentali deformi il sound acquista corpo e credibilità ma è proprio nel momento in cui entrano in scena quelli che dovevano essere i momenti di svolta che lo scheletro crolla su se stesso. Prendiamo ad esempio la seconda parte di “I Want the F”. La reiterazione chitarristica stordita da una batteria morente alternata alle sfuriate più old style s’interrompono proprio quando ci aspetteremmo una scarica di violenza e a quel punto, se la scelta delle ragazze greche è quella di non forzare la mano sul lato brutale ma piuttosto di alleggerire il suono, non è certo sufficiente ridurre i tempi, abbassare i volumi e frenare. Quello che poteva essere un cazzotto in pieno volto sferrato dalla donna più bella che abbiate mai visto, si risolve in una tirata di capelli e qualche gridolino. Un album violento per gente non violenta.

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Primavera Sound Festival 2014 | Day3

Written by Live Report

(Un ripasso dei giorni precedenti? Subito accontentati Day 1 e Day 2)

Quindi, ricapitolando: niente panico, respirate a fondo, non bevete troppo perché tanto per l’occasione l’Heineken sfodera birra analcolica e ve la spaccia per normale (alla sesta 0.5 ero perfettamente sobria) e portatevi tanto cibo quanto ve ne metteva la mamma nello zaino per mandarvi in gita alle medie, altrimenti in quei tre giorni nutrirvi vi costerà più dell’abbonamento vip. Ah, e considerate la possibilità di prendervi almeno una giornata tutta per voi. Se non siete inclini a soffrire la solitudine avrete modo di seguire ogni inconfessabile istinto, che vi porterà da artisti che in principio non avevate considerato o che i vostri compagni di festival boccerebbero categoricamente. Dico addio alla mia crew sabato pomeriggio, quando dopo un quarto d’ora di performance dei Television gli altri se ne vanno in blocco dalle Dum Dum Girls. Avrò il diritto di incazzarmi se a un tratto mi bussano su una spalla ridestandomi da una specie di goduriosa trance per dirmi “oh, noi andiamo al Pitchfork, che ci sta la figa”? Dell’articolo in questione non me ne intendo, e in ogni caso niente mi porterà via da quest’atmosfera, che se chiudo gli occhi sparisce tutto il grigio, quello dell’asfalto del Forum e anche quello che con una punta di tenerezza osservo sulla testa di Tom Verlaine, e in un attimo mi ritrovo catapultata nel verde di anni su cui posso solo fantasticare, quelli dei festival a piedi nudi sull’erba e giovane New Wave tonificante nelle orecchie. Ho detto proprio tenerezza? Sì, l’ho detto. È che queste reunion, per quanto eccitanti, rischiano di risultare anche un po’ dissacranti. Ad esserne testimoni si corre il pericolo di intaccare irrimediabilmente quell’alone di mito che circonda le formazioni storiche. Forse dovreste starne alla larga se siete come me e vi assale l’ansia di fronte all’evidenza del fatto che il tempo passa anche per le cose che ci sembrano eterne.

Un artista intimista e profondo come Caetano Veloso mi sembra così fuori contesto che non posso fare a meno di andare a dare un’occhiata. Dal Sony al Raybanè una traversata infernale di un paio di chilometri in mezzo a una folla multietnica e barcollante. Arrivo sulle note di “Parabéns”, mentre Veloso accenna movenze di danze tropicali d’oltreoceano e riempie l’etere della sua personalissima reinterpretazione Pop delle sonorità della Bossa Nova. Attorno a lui, quattro tele su altrettanti cavalletti, dipinte con semplici tratti geometrici, e virtuosismi Classic Rock che si conformano alla tradizione musicale brasiliana e la rinnovano stando bene attenti a non tradirla. Nota per gli scettici che hanno letto il nome di Veloso in cartellone storcendo il naso: è l’ennesima conferma del fatto che chi stila la line up di questa rassegna non sbaglia un colpo, consentendo nella stessa giornata un assaggio di moltissimi degli infiniti sapori che la musica sa assumere. Nonostante sia gremito, il Rayban è la location più gradevole e accogliente tra i palchi del Primavera. Spezzo il ritmo serrato da festival e prendo fiato seduta sulla gradonata, assorta tra migliaia di sconosciuti che hanno il mio stesso sorriso. La maggior parte di loro non capisce una mazza delle splendide liriche in portoghese ma questo non sembra affatto ostacolare l’empatia tra loro e gli altri, quelli che ondeggiano a ritmo in modi che la natura consente solo ai popoli di sangue latino.

Torno indietro mentre gli Spoon sono ancora sul palco Heineken. Il loro Pop Rock scanzonato e versatile non mi dispiace affatto. Quale occasione migliore di questa per i texani per sfoderare un assaggio di quello che sarà il nuovo disco che uscirà quest’anno? “Rainy Days” viaggia sul ritmo sostenuto che avevano molti brani di GaGaGaGaGa, come l’accattivante “The Way We Get By”. Britt Daniel sfoggia una camicia rosso fuoco e le sue tonalità roche, riempie il palco e intrattiene la bolgia in pieno happy hour (ce l’ho anch’io una birrozza in mano, ci vorrà ancora qualche ora prima che mi accorga della truffa analcolica di cui sopra). Segno un punto a mio favore quando ritrovo i miei amici che mi confermano che saltando le Dum Dum Girls non mi sono persa nulla. A quanto pare non basta, perché non riesco a convincerli a seguirmi al Sony, dove tra poco si esibiranno i Volcano Choir. A causa della pioggia incessante di ieri, la zona centrale della prima fila è invasa da una specie di stagno. Con i miei anfibi a prova di lotta nel fango mi ci piazzo comodamente, in compagnia di tre inglesi scalze e felici che la security non si sia accorta del loro Jagermeister & orange occultato nei contenitori del deodorante. Non so se sentirmi più cretina per non averci pensato o più elevata culturalmente nel ritenere in ogni caso che vaporizzarsi dell’alcool in bocca piuttosto che sorseggiarlo sia l’equivalente dell’accontentarsi di una flebo al posto di un piatto di gnocchi. Fuckingchoosyitalians! I Volcano Choir sono la declinazione di Justin Vernon che meglio si intona ad un sabato inoltrato. Questa faccia del poliedrico artista del Wisconsin è quella che personalmente preferisco, nuova creatura sperimentale e destrutturata che mantiene il mood intimo del lavoro firmato col moniker Bon Iver ma che gli conferisce tutt’altra energia. Justin canta dall’alto di un pulpito di legno da politicante, dietro al quale nasconde vocoder e tutto ciò con cui smembra e riassembla la sua voce, in un risultato corale, scenico e ipnotico. La giustapposizione di campionamenti e chitarra classica regala struggimenti da ballad ed episodi dance con la stessa naturalezza. Un’ora di performance vola via sulle note di Repave e del precedente album e si conclude emblematicamente con “Still”, riarrangiamento di un brano contenuto nell’EP Blood Bank firmato Bon Iver, in cui Vernon aggiunge alla versione originale tutta la ricchezza di suono seminata e raccoltanel suo percorso artistico.

Sono ancora in tempo per i GodspeedYou! Black Emperor, che già da un po’ sono sul palco ATP, il che significa ripetere la traversata di prima in senso opposto e di corsa (è solo la terza delle molte altre volte che verranno). Arrivo convinta di avere ancora mezz’ora di set da gustarmi e invece i GY!BE sono già all’ultimo pezzo. Mi sono persa una roba grossa. Maxi schermi spenti, illuminazione al minimo, è un’atmosfera minimale solenne, davanti a un pubblico composto e senza smartphone in mano. Loro sono seduti in cerchio, in una session intima che ha le sembianze di un rituale piuttosto che quelle di un live, apocalittico tra percussioni dall’incedere lento e fiati dal sapore Folk. Mi ritrovo così un buco nero imprevisto nel bel mezzo del sabato sera, la prima volta negli ultimi tre giorni in cui non so che fare. Mi addentro in quell’area ben circoscritta ai piedi del pannellone solare del Forum in cui finora non ho mai messo piede, quella specie di riserva protetta per esemplari di hipster che è la zona Vice-Pitchfork. Qui i frequentatori assidui si dividono in due categorie. I primi sono quelli che boicottano per partito preso l’area Sony-Heineken, che una legge non scritta ha bollato come mainstream, e si farebbero cavare un occhio piuttosto che assistere alla consacrazione commerciale degli Arcade Fire. I secondi sono qui a cazzeggiare in attesa di qualche reflex che li immortali, perché questo è il luogo in cui la probabilità di incappare nel fotografo di street fashion di turno è più alta (se poi nell’attesa c’è un sottofondo musicale, tanto meglio). Sul palco Vice ci sono i Cloud Nothings. Un quarto d’ora di Indie Pop senza grossi salti mortali scorre via abbastanza trascurabile mentre sono in fila per fare pipì. È un breve attimo di tregua, appena uscita dal cesso chimico mi torna la febbre da festival. Ho un appuntamento importante qui all’ATP tra circa mezz’ora e farei bene a trovarmi un angolino adeguato tra una folla che già si addensa ai piedi del palco, ma con quale faccia potrei tornare a casa e confessare che per mettermi comoda ho rinunciato completamente ad assistere alla performance dei Nine Inch Nails? Tra andata e ritorno saranno altri 5 km a piedi, ma tanto oggi s’è capito che bisogna trottare quindi amen, colleziono altri dieci punti-gioventù e torno al Sony. Tra una folla già compatta mi ritaglio uno spazietto ad almeno un centinaio di metri dallo stage, ma quando Trent Reznor e soci salgono sul palco e partono i bassi il suono mi vibra nel petto come se fossi accanto alle casse. Un animale da palcoscenico oscuro e sensuale monopolizza le migliaia di occhi al suo cospetto, sovrastato da un impianto luci mastodontico. Il sound ibrido e spasmodico dei NIN dal vivo è qualcosa di cui ubriacarsi almeno una volta nella vita. La setlist è dalla mia parte. I quattro brani che ascolto prima di correre via sono un’ottima sintesi di tutto quello che sono i NIN. Reznor appare dal nulla, tra una nube di luce blu, sui ruggiti sintetici di “Me I’m Not”. Poi l’Industrial tribale di “Sanctified”, e la tiratissima “Copy of A” del nuovo Hesitation Marks. Vibro insieme alla scarica di chitarre di “The Day the World Went Away” per poi correre via di nuovo. Rovinarsi il karma così, a metà, lo so, è una merda, ma lo show che mi aspetta ora non avrà nulla da invidiare a questo in quanto a potenza, fisica ed evocativa, di quella che ti imprime ogni dettaglio nella mente e rende un’esibizione indimenticabile. È la mia prima volta coi Mogwai.I tipi in questione non li assimili finché non assisti in prima persona ad un live. Ciò che i Mogwai sono in grado di sprigionare dal vivo è qualcosa che nessun supporto fisico inciso è in grado di contenere. Sul palco, in bella vista, la bandiera della Catalogna. Luci soffuse accompagnano la pioggerella di synth di “Heard About You Last Night”, nel lento e cadenzato incedere delle percussioni. Sono già senza fiato. Non è solo una questione di volume esagerato, l’aria graffiata dalle chitarre di “I’m Jim Morrison, I’m Dead” ti scava il petto. Le note sussurrate di “Ithica27ø9” ammaliano con grazia per poi stringerti in una morsa, in un gioco che accelera e decelera per poi esplodere. Melodiose catarsi generate dal violino di Luke Sutherland mutano in barriere di suono dense che investono, tanto che ti viene da puntare bene i piedi a terra per non correre il rischio di essere spazzato via dai poderosi riff. C’è spazio anche per i primissimi Mogwai di “Mogwai Fear Satan”, groviglio di suono elettrificato ed elettrizzante. L’oscura “Deesh Rave” è viscosa ed enfatica con Sutherland alle percussioni, di spalle, con la solennità di un rito tribale. “Remurdered” è una bomba sintetica, su quella linea che lega tutto Rave Tapes, il synth che a un tratto parte in loop è gia inconfondibile. Con poche parole i Mogwai ringraziano il pubblico e il Primavera per la gentile concessione di poter suonare in presenza dei GY!BE. Poi chiudono con “We’re No Here”, terrificante nell’incedere del suono che si tramuta in totale delirante distorsione che dura svariati minuti e ci lascia storditi ed estasiati.

Ancora un grazie al Primavera che bilancia set epici con rigeneranti performance di decompressione. Dopo aver saltato tutti gli altri appuntamenti coi connazionali presenti alla rassegna, mi concedo una sosta all’Adidas per un paio di brani dei Junkfood, che dopo la turbolenza che mi ha appena investita sono esattamente quello di cui ho bisogno. È un piccolo stage accogliente di fronte al mare, sul quale il quartetto italiano espone tutta la propria ardimentosa impresa compositiva, un Alt Jazz destrutturato che è uno dei frutti migliori del panorama nostrano degli ultimi due anni. Big Jeff sembra essere d’accordo con me, accennando col suo testolone riccio un headbanging da metallaro improprio quanto coinvolgente (Big Jeff chi?). Recupero i miei amici al set dei Foals all’Heineken, dove il pubblico sembra avere ancora tutte le forze per scatenarsi su questo raffinato Math Rock mentre io sono ormai all’ultimo stadio delle mie capacità motorie. L’ultima traversata del recinto del Forum è verso l’uscita. Di passaggio di nuovo all’ATP, l’Indietronica dei Cut Copy non riesce a convincerci a restare oltre un paio di pezzi.

È stata una gran bella storia. ¡Adiós, Barcelona, hasta el próximo año!

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Rockambula al Primavera Sound, Day 3 (giovani e soddisfatti)

Written by Senza categoria

Ultimo intensissimo giorno (guarda Day 0, Day 1, Day 2). Dal CBGB al Forum di Barça, una pietra miliare del Rock, Marquee Moon dei Television.
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Doveroso presenziare alla performance di Caetano Veloso sullo stage Rayban, per tornare poi all’Heineken dagli Spoon.
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Justin Vernon in versione sperimentale e destrutturata, i Volcano Choir.
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Giusto in tempo per ascoltare l’ultimo pezzo dei Godspeed You! Black Emperor. Poi allo stage Vice per i Cloud Nothings.
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Una scelta difficile dopo l’altra. Dopo un paio di brani sono costretta ad abbandonare lo stage Sony e i Nine Inch Nails.
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Scelgo il live dei Mogwai, dall’inizio alla fine, e non me ne pento affatto.
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Dopo aver dovuto rinunciare ai C+C=Maxigross, un moto di campanilismo mi porta dagli italiani Junkfood, e i ragazzi non se la cavano affatto male.
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Il Math Rock dei Foals all’Heineken stage.
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Giusto il tempo di saltellare un po’ sull’Indietronica dei Cut Copy ed é ora di andare. Hasta luego Primavera!
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Finale Pending Lips Festival 2014

Written by Senza categoria

Il 12 maggio al Maglio, a due mesi e mezzo dalla partenza della terza edizione, si disputerà la finale del concorso Pending Lips. Dopo Rumor e Synesthesia, hanno fatto accesso alla finale anche I Semi d’Ortica. Solo una delle band suonerà al Carroponte il prossimo 5 Giugno insieme ai Cloud Nothings. Durante la serata verranno ufficializzati anche tutti i premi speciali messi in palio dalla giuria tecnica. Ospiti d’eccezione i Pocket Chestnut e i FOU, due tra le band più in vista del roster Costello’s.

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Il Pending alle semifinali

Written by Senza categoria

Ultima settimana di eliminatorie per il Pending Lips Festival, contest per band emergenti che mette in palio la possibilità di suonare sul palco del Carroponte di Sesto San Giovanni, e aprire il concerto dei Cloud Nothings il 5 giugno 2014. La serata di lunedì 7 aprile ha visto concludersi la prima fase del festival consentendo l’accesso alle semifinali ai Silence, Exile & Cunning, che vincono anche il premio della giuria tecnica, Lo Spazio Vuoto e Voodoo Weedow, quest’ ultimi scelti dalla redazione diR ockambula per il sound fresco e genuino proposto e per la buona perfomance live. Il prossimo appuntamento e per lunedì 14 aprile con la prima semifinale.

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