Cocteau Twins Tag Archive
Tennis – Swimmer
Al quinto tentativo sulla lunga distanza, il duo statunitense sembra aver imbroccato la strada giusta.
Continue ReadingSpiryt – Spiryt
Un inno alle tenebre in cui si fatica a sentirsi a proprio agio e trovare la luce per uscirne.
Continue ReadingThe Foreign Resort – New Frontiers
Fino a venti anni fa, in piena epoca Grunge ed Alternative Rock, orde di capelloni, depressi e disillusi in camicia di flanella e jeans strappati si accanivano ferocemente contro tutte quelle sonorità fredde e look da fighetto che rappresentano a tutto tondo quel caleidoscopico calderone denominato Post Punk o New Wave che dir si voglia. Dai primi anni Zero, grazie al successo di gruppi quali Interpol e Franz Ferdinand, è avvenuto un vero e proprio revisionismo storico nei confronti della “Nuova Onda” che ha attraversato il panorama musicale dal 1978 al 1983, regalandoci gemme che risplendono prepotenti ancora oggi nel firmamento Rock. La rivalutazione di tanto spessore e la continua citazione da parte di band emergenti sta rendendo nauseante e borioso il magnetismo oscuro di un’era artistica così estrosa, sia nei costumi e nel make-up, quanto permeata da un nichilismo e da un senso di disgregazione che ha fatto le sue vittime (Ian Curtis e Adrian Borland su tutti).
I Foreign Resort sono un trio originario di Copenaghen, vero e proprio cuore nero d’Europa (basti pensare agli Ice Age), attivi sin dal 2009 e composto da Mikkel B. Jakobsen (chitarra e voce), Henrik Fischlein (chitarra e basso) e Morten Hansen (batteria e voce). Sfornano questo New Frontiers imbastendo un flusso sonoro carico di velata malinconia e di fantasmi mai svaniti che ormai è divenuto un cliché dal sicuro impatto sul pubblico anche se annoia brutalmente. Mikkel. voce e penna della band, strizza l’occhio a Robert Smith con quel cantato affogato e lontano per tutte e nove le tracce; musicalmente domina la ritmica funerea dei Joy Division , condita ora con elementi Synth Wave tanto cari ai Depeche Mode quanto ai Cocteau Twins, ora da sferragliate di feedback nella migliore tradizione Shoegaze (My Bloody Valentine, Jesus and Mary Chain). Per quanto i riferimenti ai fasti del passato siano gloriosi, si finisce per essere risucchiati da un vortice tedioso e stucchevole; al massimo cercate un po’ di brio nello spedito Post Punk a tinte epiche della titletrack.
Stumbleine feat Violet Skies – Dissolver
Solo qualche mese orsono vi ho parlato io stesso dell’Ep Chasing Honeybees, del duo Peter “Stumbleine” Cooper / Violet Skies muovendo tanti dubbi sia sul sound in sé sia sulla voce della nostra Violet ma anche rilevando gli aspetti positivi dati soprattutto dalla brama di fare Pop senza rotolare nelle convenzionalità del genere. Molte di quelle notazioni devono essere considerate ancora adesso opportune ma comunque alcune diversificazioni nette sembrano sollevarsi nell’ascolto di Dissolver. Si allenta notevolmente il legame con Dream Pop e Ambient, con il sound spectoriano anni 60 e con le atmosfere eighties di Cocteau Twins e My Bloody Valentine mentre tutto diviene molto più Pop o meglio più banale e stereotipato, anche se in certe congiunture (“Heroine”) Stumbleine pare seguitare a rendere omaggio a un passato sempre più remoto nel tempo tanto quanto attuale nella sua riscoperta. La voce di Violet Skies ostenta maggiormente la sua impostazione Soul e R’n’B, ma siamo lontani dai successi e dal livello qualitativo di un James Blake per intenderci. Le dieci tracce che avrebbero dovuto mettere sul piatto quanto di affascinante mostratoci nell’Ep Chasing Honeybees segnano invece una mezza sconfitta. Stumbleine e Violet Skies scelgono una strada sicura che però non fa altro che evidenziare ancor più i limiti del duo che, ancora una volta, butta via l’occasione di confezionare saggiamente qualcosa di alternativo dentro il sempre più deludente mondo della modern popular music. Non mi stancherò mai di ripeterlo, la musica è più di una buona voce e capacità di usare uno strumento che sia un pezzo di legno o un groviglio di fili e bottoni. Se qualcuno dovesse apprezzare la voce femminile di Violet Skies magari potrebbe provare col suo esordio solista (la prima traccia uscita è “How the Mighty”) oppure, se come me è proprio quella voce che mal digerite, potreste provare con i lavori del produttore Stumbleine, ultimo Spiderwebbes, che uniscono Dream e Ambient Pop con Chillstep; ma non aspettatevi troppo, ve l’ho già detto, potete anche andare oltre senza perdere troppo tempo.
Sique & Petrol – Suono Fantasma
L’Italia pare terreno fertile per l’esplosione di piccole mode spesso destinate a sciogliersi sotto i primi raggi di sole. Questi ultimi tempi, la tendenza che sembra dare maggiori garanzie di successo è il duo Indietronic uomo/donna ed è proprio questa la formula proposta da Sique & Petrol, compagine bresciana composta da Silvia Dallera (SiQue) e Alessandro Pedretti (Petrol) forse ai più fanatici noto per le esperienze con EttoreGiuradei e Colin Edwin dei Porcupine Tree. Dietro la fumosa definizione Indietronic si cela una miriade di mondi sommersi e, anche in questo caso, bisogna scavare oltre a questa densa e spessa nebbia per comprendere cosa sia questo Suono Fantasma. Una commistione di sonorità che vanno dall’Ambient e il Dream Pop di stampo quasi nordeuropeo fino al più classico Alternative Rock passando per l’Elettronica e il Trip-Hop.
Bellissimo il viaggio sonico che s’intraprende negli undici minuti di psichedelia liquida di “Ocean Sky & Moon” (suonata quasi in stile primi Piano Magic), con un basso essenziale e prepotentemente assillante che, quasi richiama alla mente certi Pink Floyd mentre la voce di SiQue alterna fasi soffici ad altre più corrosive, inseguendo il ricordo della straordinaria Elizabeth Fraser (Cocteau Twins) sia nella timbrica sia nell’indole. E proprio lo stile di SiQue, capace di passare agevolmente dal singing più standard e Pop al più ricercato virtuosismo stilistico è una delle armi di questo Suono Fantasma che si avvale anche di un discreto lavoro di ricerca dei suoni, glitch Elettronici che sorvolano lidi di sperimentazione senza mai atterrare ma viaggiando dritti verso piste apparentemente più sicure. Un album che in taluni momenti (“Ocean Sky & Moon” e “Light Tendtrills) affascina sfiorando, se non la perfezione, certo un livello ragguardevole sia per esecuzione, tecnica e composizione sia per intensità emotiva e capacità di trascinare, ma che, nel complesso, non riesce a stupire veramente, né a trovare melodie che lascino il segno; l’indifferenza che resta alla fine dei diversi ascolti è il giudizio più schietto e sincero che si possa dare.
The Tablets – The Tablets
Si può combinare il Pop statunitense anni 60 di Merrilee Rush & The Turnabouts o The Ronettes con sonorità marcatamente moderne, quasi figlie di certi anni 90, compatte e ossessionanti? A questo ci pensa la messicana Liz Godoy, che prendendo il via appunto dal Pop Garage dei sixties, scorre attraverso le atmosfere Darkwave e Gothic degli 80, tra Cure, Cocteau Twins, Nick Cave, The Go Go’s e Siouxie fino a sfociare nelle grintose chitarre Shoegaze di fine Ottanta e inizio Novanta di The Jesus and Mary Chain per intenderci e nel Pop Alternativo, rumoroso, elettronico, psichedelico e sperimentale di Stereolab o Tv on the Radio. Tutto questo fatto con una cura maniacale del dettaglio che non si trasforma mai in eccesso stilistico ma che anzi, talvolta, suona come una ricerca voluta della nota imperfetta. L’album omonimo targato The Tablets è uno spettacolare esempio di Dream Pop sintetico, basato su liriche profondamente appassionate e melodie morbidissime, tutto sullo sfondo di ritmiche meccaniche e personali. Liz Godoy prende a prestito la lezione che una certa Nico ha lasciato al mondo e cerca la strada per rinnovarne i fasti e il risultato non è molto lontano da quanto probabilmente sperato.
The Tablets è un disco bellissimo, che poteva essere eccelso se solo la voce di Liz Godoy avesse avuto un regalo più grande da madre natura e se la vena artistica della stessa si fosse trovata in un particolare stato di grazia. Un album seducente perché mette insieme con naturalezza mondi apparentemente lontani anni luce e che recupera, almeno con questa sua capacità di rinnovare, i grandissimi limiti della composizione pura, delle melodie, degli arrangiamenti non sempre troppo interessanti e spesso quasi grossolani. Difficile giudicare un disco come questo perché mostrare al mondo dell’arte musicale una possibile strada per il futuro è già di per sé meritevole di apprezzamento ma non solo ciò siamo tenuti a stimare e quindi c’è un’orrenda ma necessaria strada della sufficienza da tracciare, per inquadrare con onestà un disco che non dovrebbe comunque essere ignorato.
Stumbleine feat Violet Skies – Chasing Honeybees
Il produttore britannico Peter Cooper, in arte Stumbleine, ben noto nell’ambiente Chillstep di ultimissima generazione, si affianca alla voce amabile, anche se troppo ordinaria per i miei gusti, di Violet Skies (da poco è uscito il suo primo lavoro solista), per un breve ma intenso prodotto che pur non elevandosi particolarmente per idee e stile, ha il grande merito di ostentare una delle plausibili strade Pop di pregio, del tipo valente per andare oltre i soliti luoghi comuni del genere. Il duo parte da ritmiche Dream Pop e Ambient, suscitando canzoni e strutture quasi vicine a certo Shoegaze, scommettendo tanto sulla vocalità, nel nostro caso, deliziosa e dall’animo Soul. Nonostante la fuggevolezza dell’opera è evidente il tentativo di racchiudere e far implodere in pochi minuti tutta la storia della popular music, o quantomeno quella parte di essa che affonda le radici negli anni 60, in Girl Group come Crystals e Ronettes, nel genio di Phil Spector (non a caso la traccia numero quattro, “And Then He Kissed Me” è un arrangiamento di un brano di Spector scritto per le Crystals) e che si dirama verso le atmosfere eighties di Cocteau Twins e My Bloody Valentine per giungere ai giorni nostri con spiccato senso di modernità.
Chasing Honeybees, questo il nome dell’Ep che apre le porte del full length in uscita ad aprile, ha due grandi pregi. Riesce a rileggere il passato senza suonare nostalgico e malinconico, arriva a cogliere i meriti di una musica comunque mai dimenticata, senza limitarsi a imitarne le intelaiature e, soprattutto, propone composizioni adatte a tipologie di pubblico molto diverse, come possono essere gli amanti delle scene indipendenti e chi alimenta le classifiche di vendita più scadenti. Stumbleine e Violet Skies ci rivelano, in pratica, come si possa braccare una via gradevole a un pubblico più ampio possibile e non sempre avvezzo a certi suoni, senza scendere a compromessi che indeboliscano l’integrità stilistica degli autori. Detto questo, non posso tuttavia negare che in queste cinque tracce manchi una vera vena innovativa; mi sento in dovere di far notare come non vi siano melodie che abbiano la forza di reggere il peso di parecchi ascolti. Il sound è dozzinale, si fonda tutto sugli arrangiamenti del produttore d’oltremanica che mette la sua elettronica come sfondo per la voce, come già detto gradevole ma comune, di Violet Skies. Arrangiamenti che, per quanto possano suonare ben impostati, sono anch’essi di una deludente insipidezza. Ognuno dei cinque brani sembra mostrare qualcosa che poteva essere ma non è ancora ed è qui che sta il suo valore ma anche il suo grosso limite. Chasing Honeybees mostra che si può, anche se ancora non sa bene come.
Nessuna grande canzone, nessuna clamorosa voce, niente arrangiamenti memorabili e un sound discreto e niente più ma anche tante idee su cui lavorare, almeno per unirsi al coro di chi cerca di far capire al resto del mondo che costruire Pop non significa farsi inchiappettare su un palco con la lingua penzoloni.
Happy Birthday Grace (Streetambula Winter Session) 21/12/2013
Ho aspettato molto prima di buttare giù queste due righe su Happy Birthday Grace (Streetambula Winter Session) e, a essere sincero, non avrei mai voluto essere io a scriverne. Non è mai facile, forse neanche troppo simpatico parlare (e con amore, perché questo è il caso) di un evento del quale si è anche co-organizzatori eppure alla fine mi sono deciso ma con la promessa, che spero possiate confermarmi mantenuta, di non lasciarmi trasportare dalle mille emozioni che hanno scaldato le pareti di Caffè Palazzo il 21 dicembre a Pratola Peligna (AQ). Ormai sapete tutti che Streetambula è il braccio di Rockambula, quello che organizza festival, contest ed eventi e mette le band in contatto con tutte le realtà interessate dal panorama indipendente, etichette, studi di registrazione, uffici stampa, pubblico, locali, webzine. La storia di questa Winter Session nasce qualche mese fa, quando Lorenzo Cetrangolo, nostro fidato redattore e proprietario degli studi milanesi dalla QB Music (da poco anche etichetta), ci propose di partecipare attivamente a un contest intitolato appunto al ventennale di Grace, storico album di Jeff Buckley.
Ovviamente la risposta di Rockambula è stata positiva ma è andata anche oltre. “Perché non lasciare un posto per la compilation tributo che realizzerete il prossimo anno a una band di Streetambula”? Questa è stata la mia domanda e la Qb Music si è presto dimostrata entusiasta della cosa. Vi spiego subito di che si tratta. Il prossimo agosto Grace compirà vent’anni. La Qb Music darà la possibilità a tante band quante sono le canzoni del disco di registrare un brano dell’album, pezzo che andrà poi a finire nella compilation tributo prodotta e distribuita dalla stessa QB Music. Da quel momento è iniziata la discesa che ci ha portati al contest invernale di cui sto per parlarvi, Happy Birthday Grace (Streetambula Winter Session). Come anche ad agosto, ci sono state delle preselezioni e per la finale sono stati scelti quattro protagonisti che hanno confermato sul campo il loro valore, dando all’evento un valore aggiunto e alzando l’asticella della qualità molto in alto, mediamente anche più di quello che tutti si aspettavano.
Giunti alla serata fatidica, Caffè Palazzo è stato addobbato a festa, con striscioni, stand, maglie, spille, gadget e quant’altro e soprattutto, ricoperto di musica. La finale vera e propria sarebbe iniziata solo intorno alle 21:00, anche mezz’ora più tardi, ma già all’aperitivo ci aspettava una graditissima sorpresa. Basandosi su un testo scritto da me (lo trovate a fine articolo, per chi fosse interessato), Paride Sticca e Jacopo Santilli de À L’Aube Fluorescente hanno iniziato un racconto musicato che partendo da “Gloom”, un loro singolo di prossima uscita, ha attraversato tutte le mitiche canzoni di Grace, con un mix di note, cantato, teatralità, poesia e Spoken Word. Circa quaranta minuti da sogno, per uno dei momenti più toccanti di tutta la serata. Lasciata alle spalle questa fantastica introduzione, ci si andava avviando verso la gara vera e propria, mentre sullo schermo scorrevano le immagini della serata del 31 agosto, prima edizione di Streetambula Music Contest. La giuria schierata confusamente per evitare l’effetto esame di Stato era pronta. Oltre a me, in qualità di caporedattore di questa webzine e redattore di Ondarock, c’era Margherita Di Fiore, collaboratrice di RockIt, Luca Di Pillo, musicista, Salvatore Carducci, tecnico del suono, fonico, collaboratore di Rockambula e gestore di negozio di strumenti, Duilia Del Gizzi, rappresentante di Nuove Frontiere (organizzatrice dell’evento con Rockambula), Jacopo Santilli, musicista e poi c’era anche per il pubblico la possibilità di votare, per circa il 15% del verdetto finale.
Primi a esibirsi, dalla provincia di Teramo, i Two Fates, coppia anche nella vita che ha proposto un Indietronic coinvolgente e travolgente, carico di melodia ma anche di teatralità, fatto di note orecchiabili e improvvise sferzate avanguardistiche. Bellissima la voce di lei e superbo l’utilizzo di Ableton Live (ribattezzato, Two Fates Machine), strumento abusato nel campo dell’elettronica ma che nel Rock non ha forse mai trovato in Italia un impiego tanto funzionale, pratico eppure artistico. Nessuna imperfezione, i Two Fates sanno come proporsi e sanno come interagire col pubblico, hanno carattere e talento e per tutti il verdetto sembra già scritto, se non fosse per quella cover di Buckley, forse non all’altezza del resto. Poi però sale sul palco un certo Dr. Quentin, tutto solo con la sua follia che odora di gioia. Mette allegria, mette una carica pazzesca, i suoi testi traballano in un inglese claudicante ma tutto sommato comprensibile. Sembra il fratello pazzo dei Two Gallants. Il suo è un misto di Folk Rock, Folk Punk e Alt-Country che mette i brividi e quando intona Hallelujah, a modo suo, mette la pelle d’oca. Certamente la migliore della cover proposte in tutta la serata.
Superato il Dr. Quentin, entra in scena il Rock dei Droning Maud da Rieti. Il loro sound è potenza pura, ma non di quella esplosiva quanto un big Bang, quanto piuttosto quella di un buco nero, sfuggevole e misterioso. Certamente gli unici che abbiano veramente travolto il pubblico, i più maturi, anche se magari senza stupire troppo. Ascoltarli a due passi è stato come essere investiti da un tornado di note. A chiudere la gara, i liguri Caligo. Ragazzi di una disponibilità unica, una simpatia e un amore per la musica da far invidia. Avrebbero meritato di vincere solo per questo eppure, c’era che dell’altro, nella loro esibizione. Il loro Pop/Rock è puntuale e si mette tutto al servizio della voce e dei movimenti di Marco Ferroggiaro, vocalist e leader della formazione di Chiavari. Melodie e canzoni, di quelle belle, di quelle che si possono cantare anche solo dopo averle ascoltate una volta. I Caligo erano proprio quello che mancava alla serata. Ora è proprio tutto. È ora di scegliere un vincitore.
Il pubblico ha già deciso. Per loro a vincere è il Dr. Quentin. Ma lui, è l’unico che gioca in casa e a Streetambula ci teniamo a fare le cose nella maniera più obiettiva possibile. Il pubblico conta solo per il 15% e come vedrete, non basterà. A vincere infatti non sarà il Dr. Quentin, nonostante tutti abbiano apprezzato la sua cover, nonostante quasi tutti ne riconoscano la voce stridula ma perfetta. Nonostante io stesso abbia affermato che il dottore “scrive canzoni, melodie, come pochi sanno fare”. Non sarà lui a vincere perché tutti ne sottolineeranno i limiti. Suonare Folk Rock, in inglese, solo chitarra e voce e farlo senza stancare dopo venti minuti è difficile e, infatti, anche in questo caso la giuria lo farà notare. A vincere non saranno i Droning Maud, nonostante l’apprezzamento incondizionato di tutta la giuria che ha rilevato solo l’uso eccessivo di una precisa effettistica sulla voce in sostanza per tutta l’esibizione. Non vinceranno non per i problemini tecnici dovuti all’audio e la resa nel piccolo locale ma perché è vero che c’era da fare una sola cover di Jeff Buckley, ma a lui era intitolata la serata e quindi, quella cover, avrebbe avuto un certo peso. Non è piaciuto che quel riarrangiamento sia stato fatto con un paio di minuti di ritardo perché il testo non era stato imparato a memoria e il foglio dove era stato scritto non si ritrovava. Inoltre non è piaciuto molto il riarrangiamento. Dispiace, perché i pezzi originali targati Droning Maud si sono dimostrati una bomba, e forse questo conta più del verdetto finale. Non hanno vinto neanche i Caligo, forse troppo emozionati, certamente stanchi per i 500 Km percorsi per arrivare dalla Liguria in Abruzzo, qualche errore di troppo in fase esecutiva e uno stile troppo magro, asciutto, con poca personalità esclusa la voce di Marco Ferroggiaro, per poter arrivare davanti ai colleghi, i Two Fates.
Già, proprio loro. I Two Fates. Per una volta hanno vinto quelli che tutti si aspettavano che avrebbero vinto; la band più completa, che ha fatto meno errori, che ha arrangiato con cura il brano di Jeff Buckley (una curiosità, Giuliano Torelli mi ha confidato di essere uno dei mille ad aver visto Buckley dal vivo in Italia), che ha messo sul piano le composizioni più curate, più interessanti e, anche in ottica futura, dalle prospettive più rosee. Senza ombra di dubbio, hanno vinto i migliori ma tutti gli altri si sono dimostrati non solo all’altezza ma certamente capaci di ritagliarsi un gran bello spazio nel mondo della musica. Basta capire quale spazio.
Di seguito trovate il testo suonato e recitato dagli À L’Aube Fluorescente e scritto da me, nel caso qualcuno voglia leggerlo. Alla fine trovate invece il trailer realizzato per la serata da Andrea Puglielli.
Per i ragazzi di Streetambula, scegliere Jeff Buckley e il suo unico album compiuto Grace, il suo capolavoro che tra qualche mese compirà vent’anni, come cuore del Contest invernale non è stata certo scelta agevole. Ogni canzone di quel disco racchiude una magia che solo pochi capolavori possono vantare e anche le cover interpretate da Jeff hanno acquisito un’aura singolare, un abissale senso di eternità e spiritualità. Avete capito bene, quell’opera d’arte contiene ben tre cover. “Lilac Wine” di Nina Simone, “Corpus Christi Carol” di Benjamin Britten e “Hallelujah” di Leonard Cohen. Tre riarrangiamenti che hanno dato in dono a quei brani l’immortalità che meritano palesando come un artista possa adagiare la sua essenza anche in brani di altri, quando si suona con sentimento. Quello che speriamo possano fare stasera i Droning Maud da Rieti, il Dr. Quentin, pratolano Doc, i Caligo da Chiavari in Liguria e i Two Fates di Colonnella. Fare musica col cuore, per farci sognare il suo volto ancora una volta. Sognare la sua vita.
Una vita che per Jeff non doveva essere stata facile. Il 17 novembre del 1966 nasceva il figlio di Tim Buckley. Il padre di Jeff era proprio quel Tim Buckley che qualcuno sta fantasticando ora. Una delle voci più strabilianti che si ricordino e uno dei più eccelsi sperimentatori vocali e del Folk. Musicista mirabile, non proprio come nel suo ruolo di genitore. Non si consacrò molto al piccolo Jeff, prediligendo cercare buona sorte nella Grande Mela; più in là i due si sarebbero rincontrati ma quest’abbandono non fece altro che appesantire, col tempo, la grandezza di Tim sulle fragili spalle del figlio.
Jeffrey Scott Buckley, “Scotty” per chi lo amava, perse il padre che in fondo non aveva mai veramente avuto, a Santa Monica il 29 giugno 1975; Tim fu schiacciato dal peso di alcol, eroina e da una vita impossibile da sopportare. Tim entrava nella leggenda e Jeff era ancora un bambino. Poche volte “Scotty” ebbe la possibilità di stare con lui ma fu proprio durante una serata in omaggio al padre, nell’aprile del 1991 a New York, che per la prima volta le sue sorprendenti abilità canore furono alla portata di un pubblico di un certo spessore.
Da quel giorno Jeff Buckley ha inseguito il modello del padre, talvolta superandolo e diventando a sua volta un mito, nella sua fragilità una specie di divinità carnale fatta di sogni, illusioni, angosce e dei suoi molteplici amori; si dice che amò tante donne, forse anche Courtney Love con la quale di certo fu fotografato a teatro; di sicuro Joan Wasser (qualcuno tra voi la conoscerà come Joan As Police Woman) ma anche Elizabeth Fraser, splendida voce dei Cocteau Twins. Jeff presto sarebbe diventato una leggenda però consapevole della vacuità della sua vita, che, come in una premonizione, sembrava sapere che non sarebbe stata molto più duratura di quella del padre. Jeff inizia a suonare come tanti di noi hanno fatto, come io stesso ho fatto, con piccole band, con i Group Therapy; quindi incide le Babylon Dungeon Sessions e poi lavora con Gary Lucas e con i Gods And Monsters fino a giungere al colosso Columbia. Nascono una moltitudine di tracce, tanto materiale spesso ancora inedito che finirà soprattutto per alimentarne il mito, nella sua sfuggevolezza.
Jeff non dimentica mai da dove viene. Forse non sa ancora dove vuole andare . Sapete a chi è intitolato uno dei suoi primi Ep? Al Sin-è. Il locale nella parte orientale di New York dove giovanissimo si guadagnava il pane come sguattero e poi incominciò a esibirsi. Da lì e da allora ha iniziato una corsa frenetica che l’ha portato a Grace, uno degli album più importanti e struggenti di tutti i tempi. Dopo Grace, in un’inquietante analogia con le vicende emotive del padre, Jeff, che certo non era uno scrittore maniacale, si dimostra impossibilitato a reggere i ritmi del mercato e soprattutto a sottostare alle sue pressioni. Sketches For My Sweetheart The Drunk, l’album seguente, uscirà postumo e incompleto; Jeff non riusciva a produrre tanto e velocemente quanto il sistema richiedeva.
Ma chi era veramente Jeff Buckley? Un musicista stravagante e anticonformista, non sempre attento agli aspetti tecnici della sua arte, un uomo capace di non prendersi sempre sul serio, anche quando si trattava di spiegare il senso delle sue parole. Anche un uomo che si sentiva solo, ma non aveva paura della sua solitudine. Sapete, una volta iniziò un tour, otto date, in posti sperduti d’America, con un falso nome, sempre diverso. Spesso suonò solitario, in quel Phantom Tour, senza pubblico. Avete capito bene. Cercava nel suo isolamento di ritrovare se stesso, la tranquillità dell’essere “uno qualunque”, l’unico modo per capire chi sei è forse non essere nessuno, agli occhi degli altri.
Come il padre, Jeff aveva però tanti problemi, con l’alcol, con la droga e con se stesso anche se in maniera meno romantica (aperte e chiuse le virgolette) e meno meravigliosa. Nonostante questo però non sarebbe mai arrivato al punto di morire per sua intenzione. C’era un disco in cantiere sotto l’ala protettrice di Tom Verlaine, leader dei Television; quindi il trasferimento a Memphis. Il padre era morto ventidue anni prima, “Scotty” ne aveva trenta all’epoca. Il suo talento era ancora tutto da scoprire e quello che resta delle sue incisioni racconta di un uomo che non si sentiva certo arrivato, anzi aveva voglia di vedere fin dove la sua mente, la sua arte poteva spingersi.
Era il 29 maggio 1997 quando Jeff e il suo autista si stavano dirigendo verso gli studi di registrazione. Si fermarono, Jeff voleva fare un bagno nelle acque del Wolf River. Si tuffò vestito, cantando “Whole Lotta Love” degli Zeppelin. Non era drogato, non era ubriaco. Non aveva deciso che quello sarebbe stato il momento di lasciarci. Qualcun altro, forse, lo aveva deciso, se ci credete, forse Dio. O forse il destino, il caso, chiamatelo come volete. Fatto sta che in quelle acque fresche di un affluente del Mississippi Jeff, “Scotty” per chi lo ama ancora, ci lasciò facendo quello che più amava, cantando.
Di lui restano poche canzoni ma per chi lo chiama ancora “Scotty” nelle sue preghiere, ha lasciato molto di più. Resta il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e soprattutto resta un album inarrivabile come Grace, al di là del mito.